Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

mercoledì 30 gennaio 2013

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Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia - Ciampi II




Carlo Azeglio Ciampi

Testimonianza per il convegno "L'autonomia della politica monetaria"

Una riflessione a trent'anni dalla lettera di Andreatta a Ciampi che avviò il divorzio tra il Ministero del Tesoro e la Banca d'Italia.
Roma, Palazzo Altieri, 15 febbraio 2011.
Pubblicazione disponibile qui


Il colpo di Stato riuscito.                                                                       Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia nelle parole dei congiurati - Ciampi



Ho accettato ben volentieri l'invito di Enrico Letta a ricordare le vicende del 1980/81 che portarono Beniamino Andreatta e me a stipulare quello che è passato alla storia come il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia.
Sulle qualità di Andreatta, come uomo di studio e di lungimirante impegno civile, mi sono già espresso altre volte, segnatamente in occasione della giornata di studio promossa dall'allora Ministro dell'Economia e delle finanze, Tommaso Padoa-Schioppa, il 13 febbraio 2008.
Agli inizi degli anni ‘80, l’Italia viveva la seconda crisi petrolifera; il livello dei prezzi segnava un tasso annuo superiore al 20 per cento. Da quasi dieci anni l’Italia conviveva con un’inflazione a due cifre, che non ci doveva abbandonare per altri cinque anni.
All’assemblea della Banca d’Italia del maggio 1981, interpretando l’anima dell’Istituto che mi era stato da poco affidato, indicai tre condizioni per restituire al Paese stabilità monetaria: una politica dei redditi volta alla disinflazione; una banca centrale completamente indipendente; il pieno controllo del bilancio pubblico e della conseguente creazione monetaria.
Vorrei richiamare, per sommi capi, le tre condizioni che enunciai allora:
"Il ritorno a un moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito.
Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa .... Oggi quella condizione deve essere soddisfatta soprattutto nei confronti del settore pubblico, liberando la banca centrale da una condizione che permette ai disavanzi di cassa di sollecitare una larghezza di creazione di liquidità non coerente con gli obiettivi di crescita della moneta. Ciò impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento, l'istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di tesoreria, la pratica dell'acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che cessi l'assunzione da parte della Banca d'Italia dei BOT non aggiudicati alle aste....."
"Seconda condizione sono regole di procedura che collochino le grandi decisioni di spesa nella prospettiva dell'equilibrio monetario... Alle decisioni di spesa pubblica bisogna dare regole che costringano al rispetto sostanziale dell'obbligo di copertura ... Occorre ricercare e definire solennemente forme, quali ad esempio l'obbligo del pareggio fra le entrate e le uscite correnti, con le quali dare concreta attuazione al principio enunciato nella Costituzione ..."
"Terza condizione: occorre ricercare e definire forme istituzionali attraverso le quali la negoziazione collettiva ritorni ad essere strumento di governo della dinamica dei redditi e della condizione del lavoro anziché di distruzione della moneta ...
Autonomia della banca centrale, rafforzamento delle procedure di bilancio, codice della contrattazione collettiva sono presupposti del ritorno a una moneta stabile."
Nel nostro paese, nello scorcio degli anni settanta e all'inizio degli anni ottanta la creazione di "moneta di banca centrale" - la moneta ad alto potenziale che stava alla base della piramide della creazione della moneta e del credito -  avveniva principalmente attraverso il canale del Tesoro (gli altri due essendo le banche e l'estero) : questo per effetto di una convenzione, non in forza di un obbligo di legge, che faceva sì che la Banca agisse da acquirente residuale di tutti i BOT emessi dal Tesoro, al tasso di interesse deciso dallo stesso Tesoro.
Il Governatore Baffi, nelle Considerazioni finali del 1976 spiegò che la Banca aveva creduto di "accettare la validità di una ragione economica storica più cogente della pur profonda convinzione di quanto sia effimero e dispersivo il sostegno dell'occupazione e del reddito affidato all'inflazione".
In effetti, la creazione monetaria operata per il tramite del canale Tesoro agiva come un potente volano di svilimento del valore, interno ed esterno, del valore della moneta, attraverso una costante creazione del combustibile - la "base monetaria" - che alimentava i processi inflazionistici.
In quelle difficili condizioni, l'azione della Banca centrale nel controllo dei flussi monetari e finanziari si traduceva in un continuo sforzo di assorbire ("mop up", si diceva allora) la liquidità in eccesso, principalmente attraverso operazioni di mercato aperto.
Ricordiamo inoltre che, per un'economia di trasformazione quale quella italiana, caratterizzata da un elevato grado di apertura sull'estero, la presenza di un'elevata liquidità sul mercato interno facilmente si traduceva in tensioni sul cambio e sul tasso di inflazione importata.
Aggiungasi che il nostro sistema di determinazione delle retribuzioni, pubbliche e private, era fortemente indicizzato. Ben pochi mettevano in dubbio il sistema delle indicizzazioni al 100 per cento, effetto della scala mobile conseguente agli accordi fra le parti sociali del 1975.
All’estero, ciò consolidava l’immagine di una economia italiana caratterizzata da una congenita propensione all’inflazione.
Andreatta e io eravamo convinti che fosse indispensabile ridare autonomia alla politica monetaria; di qui l'idea di modificare la prassi introdotta nel 1976 secondo la quale la Banca d'Italia agiva da acquirente residuale dei titoli invenduti in asta. Nell'autunno del 1980 avemmo con Andreatta lunghi colloqui sull'argomento. Trent'anni fa, proprio di questi giorni, sulla base di uno studio condotto da un gruppo di lavoro congiunto Tesoro-Banca d'Italia, ci scambiammo, con Andreatta, alcune lettere con le quali si poneva termine al meccanismo automatico di acquisto residuale; l'accordo si perfezionò nel luglio del 1981.
La riconquistata autonomia della Banca centrale riduceva il finanziamento agevolato della spesa pubblica, cosicché il tasso d'interesse poteva riprendere il suo ruolo chiave di determinazione delle condizioni di equilibrio nel mercato monetario e finanziario.
Con l'adesione alla moneta unica quel cammino è stato portato a compimento. Soprattutto, la società civile ha maturato una nuova mentalità, centrata sulla stabilità quale condizione essenziale per un maggiore benessere economico e sociale. Ciò rese l’Italia degna di partecipare fin da subito alla moneta unica.


[FINE]

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Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia - Andreatta




Beniamino Andreatta

Il divorzio tra Tesoro e Bankitalia e la lite delle comari

Il Sole 24 Ore, 26 luglio 1991.
Pubblicazione disponibile qui .



Il colpo di Stato riuscito.                                                                    Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia nelle parole dei congiurati - Andreatta



Con l'asta dei BoT del luglio 1981 iniziava, dieci anni fa, un nuovo regime di politica monetaria.
Si inaugurava, infatti, il cosiddetto "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia: una "separazione dei beni" che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo.
Oggi la "separatezza" fra i poteri esecutivo, legislativo e monetario è chiamata a test ancora più impegnativi, con gli impegni prossimi venturi in tema di unione monetaria e di vincoli al finanziamento e alla misura stessa del deficit di bilancio.
Il Sole-24 Ore ha voluto ricordare, con gli scritti dei protagonisti e dei testimoni privilegiati del "divorzio" del 1981, uno spartiacque della politica economica degli anni 80. Con l'augurio che questo decennio veda ulteriori progressi nella chiarezza dei ruoli e delle responsabilità.

Ero al ministero del Tesoro da poco più di tre mesi, di cui due quasi integralmente occupati a rimettere in movimento il meccanismo delle nomine bancarie - nomine da ministro della Repubblica, senza condiscendenze alle pressioni dei partiti della maggioranza - quando dovetti valutare, con senso di urgenza, che la crisi del secondo shock petrolifero imponeva di essere affrontata con decisioni politiche mai tentate prima di allora.
La propensione al risparmio finanziario degli italiani si stava proprio in quei mesi abbassando paurosamente e il valore dei cespiti reali - case e azioni- aumentava a un tasso del cento per cento all'anno.
La soluzione classica sarebbe stata quella di una stretta del credito, accompagnata da una stretta fiscale, che, come nel 1975, avesse creato una recessione con una caduta di alcuni punti del prodotto interno lordo; ma l'esperienza stessa degli anni '70 indicava due ordini di difficoltà:
a) la Banca d'Italia aveva perduto il controllo dell'offerta di moneta, fino a quando essa non fosse stata liberata dall'obbligo di garantire il finanziamento del Tesoro;
b) il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell' accordo tra Confindustria e sindacati confederali proprio nei primi mesi del 1975, aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi, che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell' energia, anche una forte stretta da sola era impotente a impedire che un nuovo equilibrio potesse essere raggiunto senza un'inflazione tale da riallineare prezzi e salari ai costi dell'energia.
L'imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall' ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole. 
La nostra stessa presenza nello Sme era allora messa in pericolo (c'è da ricordare che il partito socialista si era astenuto quando il Parlamento votò nel 1978 sull' adesione all' accordo di cambio e che i ministri socialisti avevano di fatto un potere di veto sulla politica economica).
I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d'Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al "divorzio".
Il termine intendeva sottolineare una discontinuità, un mutamento appunto di regime della politica economica; un'analoga operazione che negli Stati Uniti pose termine nel 1951 alla politica di denaro facile, che aveva permesso il finanziamento della Seconda guerra mondiale, veniva ricordata come l' agreement tra Tesoro e Fed.
Nei limiti stretti delle mie competenze era invece mia intenzione sottolineare la novità, la rottura con il passato, quando poteva apparire "sedizioso" un comportamento della Banca che rifiutasse il finanziamento del fabbisogno pubblico per non creare base monetaria in eccesso.
Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come "congiura aperta" tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso - soprattutto sul mercato dei cambi - abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato.
Per rafforzare l'autonomia della Banca d'Italia altre due questioni venivano affrontate in quella lettera:
1) costituzione di un consorzio di collocamento tra banche commerciali, nelle mie intenzioni destinato soprattutto per il debito pubblico a più lunga scadenza;
2) una nuova regolamentazione dello scoperto del conto corrente di Tesoreria.

I tempi non erano maturi per affrontare questi aspetti e la Banca d'Italia preferì procedere solo sul nuovo regolamento della sua presenza nelle aste.
Facendo queste proposte era mia intenzione drammatizzare la separazione tra Banca e Tesoro per operare una disinflazione meno cruenta in termini di perdita di occupazione e di produzione, sostenuta dalla maggiore credibilità dell'istituto di emissione una volta che esso fosse liberato dalla funzione di banchiere del Tesoro.
Accarezzai anche l'ipotesi di un rebasement della lira che avrebbe potuto essere sostituita da uno scudo italiano, con parità uno a uno con l'Ecu, e con l'impegno unilaterale di mantenere nel tempo questa parità e approfondii l' argomento in numerose conversazioni con Ortoli, allora vicepresidente della Commissione di Bruxelles.
Il filo conduttore era lo stesso che ispirò il divorzio, quello, cioè, di facilitare la politica di stabilizzazione favorendo il formarsi di aspettative favorevoli da parte degli operatori che avrebbero agevolato la trasmissione sui prezzi della politica monetaria, minimizzando gli effetti negativi sui volumi.
Senza presunzioni eccessive, questa lettera ha segnato davvero una svolta e il divorzio, assieme all'adesione allo Sme (di cui era un'inevitabile conseguenza), ha dominato la vita economica degli anni '80, permettendo un processo di disinflazione relativamente indolore, senza che i problemi della ristrutturazione industriale venissero ulteriormente complicati da una pesante recessione da stabilizzazione.
Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l'escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.
Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato.
Il bilancio di competenza del 1982 è la dimostrazione di questa nuova situazione: riuscii in pratica ad azzerare i fondi globali, cosa che non era successa prima né successe dopo.
Il saldo netto da finanziare del bilancio preventivo e il fabbisogno del consuntivo furono del 10% inferiore agli analoghi aggregati dell' anno precedente, anche se poi la Tesoreria, caricata nel recente passato, provocò un volume eccezionalmente elevato di indebitamento.
Bisognava continuare a stringere le spese di competenza e nella preparazione del bilancio 1983 si chiese al Parlamento una delega amplissima per affrontare con decreti delegati i nodi che il Parlamento stesso si dimostrava riluttante a sciogliere.
Queste deleghe furono nell' autunno rifiutate e, nel mezzo del turbamento che ne seguì sui mercati finanziari, il collega Formica propose di rimborsare una quota soltanto del debito del Tesoro con una specie di concordato extragiudiziale.
Risposi a rime baciate per sdrammatizzare il panico che ne sarebbe potuto seguire; e subito fu l'affare delle comari.
Pochi mesi più tardi, in analoghe circostanze, Jacques Delors riuscì a sbarcare cinque ministri che avevano sostenuto - privatamente - la convenienza per la Francia di uscire dallo Sme.
La stampa e i politici di casa nostra sembravano invece ignorare il baratro che avevamo sfiorato e ipocritamente si scandalizzarono per la forma delle mie risposte.
Il divorzio aveva fatto la sua prima vittima ed era il suo autore; ma aveva dimostrato di funzionare.
Negli anni successivi non divenne certo popolare nei palazzi della politica, ma continuò ad assicurare legami fra la politica italiana e quella dell' Europa.


[FINE]


giovedì 17 gennaio 2013

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Fattori che regolano lo sviluppo della produttività del lavoro



Petrus J. Verdoorn

Fattori che regolano la produttività del lavoro

L’industria, Numero 1, 1949, pp.45-53.


Fattori che regolano la produttività del lavoro

[ A cura di Giorgio D.M. * ]


L’autore di questo articolo, nato in Olanda nel 1911, ha studiato economia all’Università di Amsterdam e ha preso il titolo dottorale alla Scuola di Economia di Rotterdam. Egli fa parte stabilmente dell’Ufficio Centrale di pianificazione dell’Olanda diretto dal prof. Tinbergen. [...]

1.
Una delle difficoltà nell’elaborare i piani a lungo termine è la stima del futuro livello della produttività del lavoro. Finché non si conosce l’ordine di grandezza di questo livello, non si conosce la relazione che esiste tra le stime della produzione e quelle dell’occupazione.
Poiché quando si cerca di superare questa manchevolezza non si può contare pienamente né sull’assunzione di un tasso annuale costante di accrescimento della produttività, né sull’uso della funzione della produzione, si suggerisce di adottare un terzo metodo di indagine.

2.
I materiali statistici che sono disponibili per i periodi antecedenti alle guerre (1870-1914 e 1914-1930) per i vari paesi, mettono in luce l’esistenza di una relazione di lungo periodo abbastanza costante tra gli incrementi della produttività del lavoro e il volume della produzione industriale.
Dall’analisi delle serie storiche per l’industria nel suo complesso (Tabella I) e per i singoli settori industriali, esaminando in ciascun caso due anni differenti, si è avuto come risultato che il valore medio della elasticità della produttività in relazione al prodotto è circa di 0,45 (i limiti estremi trovati in concreto sono 0,41 e 0,57).
Ciò significa che in lungo periodo un cambiamento nel volume della produzione - diciamo del 10% - tende ad essere accompagnato da un aumento medio della produttività del 4,5%.



3.
Infatti anche a priori ci si sarebbe potuti aspettare di trovare una certa correlazione fra produttività del lavoro e produzione, dato che una maggiore suddivisione del lavoro avviene solo con l’aumento del volume della produzione; perciò l’espansione della produzione crea la possibilità di una ulteriore razionalizzazione con gli stessi effetti della meccanizzazione.
In sostanza, questa interdipendenza di carattere puramente teorico non implica di per sé che l’elasticità debba essere costante, essendo il valore di essa in realtà anche influenzato da vari fattori economici; sennonché si può dimostrare (vedi Appendice) che, sotto le ipotesi adoperate abitualmente nell’analisi strumentale di lungo periodo, l’elasticità assume una forma matematica che tende a renderla - entro limiti ragionevoli - piuttosto indipendente dalle variazioni di tali fattori economici.
D’altra parte si riscontra che, quando si tiene conto delle condizioni economiche dei vari paesi e dei diversi periodi di tempo, i valori dell’elasticità calcolati teoricamente risultano dello stesso ordine di grandezza di quelli trovati empiricamente.

4.
L’ipotesi della costanza dell’elasticità, pur non costituendo in realtà uno strumento adatto per stabilire previsioni, può tuttavia servire bene come uno dei criteri per dare un giudizio, in base alla esperienza del passato, della realizzabilità dei piani a lungo termine.
   a) Se in un piano si hanno a disposizione i dati sui fabbisogni di mano d’opera e i dati sulla produzione, e il valore dell’elasticità risulta compreso fra i limiti che si sono trovati empiricamente, allora si può affermare che il piano in esame, visto soltanto sotto l’aspetto della produttività, è tecnicamente eseguibile, ed economicamente plausibile.
   b) Se invece si hanno a disposizione soltanto i dati sulla produzione, si possono prevedere i fabbisogni di mano d’opera in base ai valori storici dell’elasticità, e la fondatezza del piano può essere giudicata sulla base della disponibilità di mano d’opera.
   c) D’altro canto, nei casi nei quali non esista un piano, il valore dell’elasticità della produttività dà una sommaria idea della misura dell’incremento della produzione industriale da conseguire per assorbire una data disponibilità di mano d’opera industriale.

5.
Infine questo metodo permette di eseguire calcoli separati per singoli settori industriali. Se le elasticità storiche si calcolano per settori anziché per il complesso dell’industria, si tiene conto automaticamente delle differenze di possibilità tecniche e di condizioni economiche (come ad esempio le differenze nella forma della curva di produzione, nel valore della elasticità della offerta di lavoro), eventualmente esistenti fra industria e industria.

6.
Fino ad ora [agosto 1948] solo il piano Monnet e il piano Saraceno hanno fornito insieme i dati relativi al lavoro e quelli relativi alla produzione. Nella Tabella II si offre un confronto tra i valori dell’elasticità calcolati sulla base di questi due piani, ed alcuni valori storici.
In tale tabella è evidente che in linea di massima esiste una corrispondenza piuttosto stretta tra le tre serie di valori; considerevoli divergenze, tuttavia, si trovano nel caso dei tessili e della metallurgia, ma qui una più minuta suddivisione dei dati dei piani sarebbe necessaria in conseguenza della eterogeneità dei sistemi tecnici di produzione impiegati nelle stesse principali branche dei due settori industriali (rayon in confronto al cotone, altiforni in confronto ai laminatoi).
La mancanza di dati precisi sugli investimenti non permette d’altronde di stabilire in quale misura, oltre a questo, la differenza nella politica degli investimenti possa avere influito sulle divergenze riscontrate in detti due settori come pure altre più piccole divergenze.



7.
Come linea generale di condotta da seguirsi se in futuro saranno disponibili altri piani, va suggerito di prendere come punto di partenza per la loro analisi l’anno 1938 o il 1937 piuttosto che il 1947 o il 1948. Questi ultimi sono ancora influenzati molto dalle conseguenze della guerra. Quanto al periodo finale, nel caso che il 1952/53 o il 1960 siano gli anni terminali del piano, si può considerare che le caratteristiche salienti del periodo della ricostruzione saranno a quella data scomparse.
Nel confrontare il 1938 con il 1952/53 si può contare di essere di fronte a condizioni strutturali normali tenendo però conto dei mutamenti di carattere duraturo dovuti al periodo di guerra.
Se in tal modo si troverà che esista una stretta corrispondenza in ogni singola industria nei tre paesi tra l’espansione della produzione e i fabbisogni di capitale e di lavoro, sarà possibile ottenere un insieme di valori normali per le differenti industrie.
Nel caso che le divergenze siano molto rilevanti, si suggerisce una trattazione di carattere più generale. Tenendo conto di altre variabili (sviluppo delle tecniche di produzione, margine di capacità produttiva nel 1938, relazione fra fabbisogno totale di mano d’opera e di capitale, etc.) si può tentare di trovare dei legami meno rigidi tra i fabbisogni di capitale e quelli di mano d’opera delle industrie in esame; a questo scopo in Appendice si espone un metodo che, quantunque non direttamente applicabile per usi pratici, serve a stabilire dei punti di partenza per una ricerca secondo questo indirizzo.
Dipenderà dalla qualità e quantità del materiale statistico disponibile la scelta del metodo concreto più efficace e più pratico. Tuttavia senza riguardo al metodo che potrà essere prescelto, sembra chiaro che procedendo in tal modo, si possono ottenere criteri concreti e quantitativi per giudicare la compatibilità del settore lavoro rispetto agli altri aspetti del piano.


Appendice
1.
Condizioni per uno stabile rapporto fra la produttività del lavoro e il volume della produzione.
Se indichiamo:









la elasticità della produttività del lavoro rispetto al volume della produzione può indicarsi:








Assumendo una funzione della produzione del tipo di Cobb Douglas 1 :



(b = capitale) e differenziando rispetto al tempo:




si ottiene:




da cui:





Se α e β vengono assunti come costanti, la costanza di K dipende evidentemente dalla costanza dell’elasticità del capitale rispetto al lavoro, cioè dalla costanza del rapporto:

 

2.
La costanza dell’elasticità del capitale rispetto al lavoro può essere provata usando un sistema di equazioni simili a quello sviluppato da Tinbergen 2.
Per i nostri scopi saranno sufficienti le seguenti equazioni:

3.I
Sistema di equazioni









Ipotesi e definizioni
Nella (2) Domanda di lavoro: Il salario medio v eguaglia la produttività marginale del lavoro.
Nella (3) Offerta di lavoro: questa equazione può anche essere scritta così:




nella quale:
a è il numero di addetti all’industria;
p è la popolazione attiva complessiva;
l è il salario medio nella produzione non industriale;
ρ è l’elasticità dell’offerta. In questa formula è essenzialmente una elasticità di concorrenza: infatti la percentuale dell’offerta di lavoro nell’industria è determinata dal rapporto tra i salari medi nell’industria e quella degli altri rami della produzione. Nella (3) si è supposto che quest’ultimo salario medio crescesse con un incremento annuale costante: eλ. D’altronde, anche secondo Tinbergen, nella (3) il fattore eλt può essere considerato come indicante le crescenti richieste dei sindacati cioè l’incremento normale dei salari. 
Se per il valore iniziale (t=0) di a, b e p, si assume il numero 1, la costante nella (3) dovrebbe essere α .
Nella (4) γ è la propensione media all’investimento.
Nella (5) come incremento annuale si è assunto eπ.

3.II - a’/a
Dalla (3) e dalla (5) si ha:






Dalla (6), dalla (2) e dalla (1) si ha:

Differenziando la (7) rispetto al tempo si ha:








Questa equazione (II) ci dà già un rapporto




Essa tuttavia considera soltanto le equazioni (1), (2) e (3) del sistema 3-I, e trascura perciò la dipendenza di b dalle altre variabili del sistema, come dato dalla (4).

3.III - b’/b
Dalla (4) discende:





Siccome noi possiamo scegliere liberamente l’istante per il quale è t=0, noi prendiamo t=0 per l’anno per il quale deve essere calcolata l’elasticità. In tal caso tuttavia, noi siamo vincolati dai valori iniziali per le grandezze considerate, come assunte nel paragrafo 3.I; così ad esempio:



Discende perciò dalla (1) che:




e dalla (8) che:




Dividendo la (II) per b’0/b0 troviamo che:

 





3.IV - K
Sostituendo la (III) nella (I) noi troviamo:















In definitiva è perciò:






La natura stabilizzatrice della (IV) può facilmente individuarsi, se con una coppia di grafici si indicano i valori di K come dipendente da l per differenti combinazioni di π e λ (essendo presi come dati α, β e γ). Appare allora che modificazioni piuttosto notevoli sono necessarie perché K possa superare certi valori limite, ad esempio ±0,15 se viene preso come punto iniziale 0,45. Ad analoghe conclusioni si giungerebbe se si studiassero variazioni per α, β e γ per valori fissi di π e λ.

Note:
1 La funzione di Cobb Douglas è stata scelta per rappresentare la relazione fra produzione e lavoro e capitale perché essa è usata da molto tempo come strumento teoretico. Tuttavia può essere provato che anche basandosi su postulati più generali circa la natura della funzione della produzione, si ottengono formule identiche a quelle sopra descritte.
2 “Weltwirtschaftliches Archiv”, Maggio 1942, pag. 530.


[FINE]

 
* Ho rivisto l’Appendice correggendo diversi errori di stampa ed aggiungendo i passaggi mancanti nei calcoli. In particolare ho modificato la definizione della variabile a nel primo paragrafo (1.) che non può essere la produttività del lavoro ma deve essere il numero degli addetti dell’industria, come è poi nella funzione di Cobb Douglas e nel paragrafo 3.I. Altrimenti x/a non sarebbe la produttività del lavoro ma il numero degli addetti e K non sarebbe l’elasticità della produttività rispetto al volume della produzione ma l’elasticità del numero degli addetti rispetto al volume della produzione.  


domenica 13 gennaio 2013

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Le crisi come strumento della politica interna e internazionale




Jacob Funk Kirkegaard

Why Europeans and Americans Are Addicted to Budget Brinkmanship

9 gennaio 2013
Pubblicazione disponibile qui .



Sull’orlo della catastrofe.                                                                  Le crisi come strumento della politica interna e internazionale

[ Traduzione di Giorgio D.M. * ]



Il ritornello comune che echeggia nella politica americana, specialmente tra i repubblicani, è che gli Stati Uniti devono evitare, a qualsiasi costo, di diventare un’altra Europa.
Che ironia, allora, che proprio grazie ai repubblicani, i politici americani ed europei siano giunti al punto di fare affidamento sullo stesso tipo di politica del “rischio calcolato” [brinkmanship, politica che consiste nel perseguire un corso di azioni azzardate fino ad arrivare sull’orlo di una catastrofe al fine di conseguire un vantaggio sugli avversari] nell’affrontare le questioni riguardanti il bilancio pubblico, l’indebitamento pubblico e la politica fiscale.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il sistema è così paralizzato che le decisioni politiche fondamentali - come l’approvazione di un bilancio del governo che rifletta le preferenze della maggioranza che governa - non possono essere compiute senza scadenze artificiali e “baratri”.
Il cosiddetto baratro fiscale [fiscal cliff] del 31 dicembre 2012 - la combinazione di incrementi dell’imposizione fiscale stabiliti per legge e di tagli alla spesa pubblica automatici che nelle intenzioni avrebbe dovuto imporre un accordo - ha prodotto un misero compromesso sul bilancio che semplicemente ha creato nuovi baratri con il limite massimo al debito pubblico [debt ceiling] e le decisioni da prendere sul bilancio pubblico che si riproporranno nei prossimi mesi, garantendo il fatto che ancora una volta gli avversari nel Congresso dovranno correre contro il tempo per evitare un risultato che assicura la distruzione reciproca.

Come è stato evidenziato qui molte volte, tuttavia, i processi politici (e la bismarckiana produzione di salsicce) nella zona euro e negli Stati Uniti sono sorprendentemente simili. Entrambi sembrano incapaci di giungere a un accordo senza il timore di un disastro imminente.
L’Economist ha perfino ammonito che i leader politici statunitensi stanno “costruendo una Brussels sul Potomac”. Come al solito però anche in questo paragone “la sirena di St. James Street” è troppo severa nel suo giudizio sulla zona euro mentre non riesce a biasimare adeguatamente la incompetenza politica dei suoi confratelli anglosassoni.

Le differenze fondamentali esistenti tra i problemi che la zona euro e gli Stati Uniti devono affrontare richiedono strategie politiche differenti, ovviamente.
La zona euro ha un problema di definizione della sua struttura istituzionale che richiede una cessione di sovranità nazionale senza precedenti da parte dei paesi membri. Dopo la pace di Vestfalia, gli Stati, anche in Europa, non vogliono rinunciare alla loro sovranità.
Così non è una sorpresa il fatto che la forte pressione dei mercati e la minaccia di un imminente disastro economico (sotto la forma di un collasso dell’euro e/o del settore finanziario) sono stati lo strumento utilizzato per forzare molti degli accordi presi a notte avanzata nella zona euro sin dall’inizio del 2010.
Ridefinire la sovranità degli Stati nella zona euro (ormai privi del controllo sul sistema bancario nazionale e incapaci di assumere decisioni sovrane di politica fiscale) non è mai stata una cosa facile.

Al contrario, negli Stati Uniti, l’emergenza fiscale nel medio periodo (in antitesi al contenimento nel lungo periodo dei costi della sanità e delle pensioni) consiste nel ritornare a una economia non di guerra con una imposizione fiscale riportata indicativamente ai suoi livelli storici.
I problemi dell’Europa sono molto più grandi di quelli degli Stati Uniti.
Mentre l’Europa deve spogliare i suoi paesi membri di parti critiche delle loro sovranità nazionali, il Congresso deve solamente approvare bilanci credibili.
Il fatto che una strategia politica del “rischio calcolato” che comprende la creazione di baratri artificiali sia necessaria a Washington per raggiungere risultati di governo così basilari è la attestazione delle disfunzioni politiche della capitale americana.
La volatilità dei mercati e le crisi possono essere necessarie per guidare l’unificazione di un continente partendo dal basso come avviene in Europa.
Ma non è possibile governare con successo una nazione se la terapia d’urto [shock therapy] è necessaria per portare a termine compiti di governo così fondamentali.
Tuttavia le recenti esperienze europee di politica condotta sull’orlo di un disastro possono almeno fornire alcuni indizi su come gli eventi si svolgeranno a Washington nei prossimi mesi.

Per comprendere l’essenza della politica del “rischio calcolato” - una strategia politica che consiste nello spingere deliberatamente una situazione pericolosa sino sull’orlo di una catastrofe al fine di ottenere con la forza delle concessioni - il punto di partenza migliore è la strategia della deterrenza nucleare e in particolare il classico “Arms and Influence” del premio Nobel Thomas Schelling, pubblicato nel 1966.
In questo libro Schelling descrive la politica del “rischio calcolato” come “la manipolazione del rischio condiviso di una guerra... che sfrutta il pericolo che qualcuno possa inavvertitamente superare il limite, trascinando l’altro con lui.”
Nella zona euro sin dal 2010, la catastrofe si è profilata sotto la forma di un collasso dell’euro e/o del sistema finanziario della zona euro.
Il rischio a Washington nei prossimi mesi ovviamente non è una guerra. Piuttosto è la minaccia di una recessione nel 2013 (se il baratro fiscale non fosse stato evitato), un default sovrano degli Stati Uniti (se il limite massimo al debito pubblico non viene elevato), o un blocco della spesa del governo federale statunitense.

Schelling descrive la necessità di una crisi per indirizzare i politici con queste parole:
“L’essenza delle crisi è la loro imprevedibilità. Una “crisi” che si ritiene fiduciosamente che non comporti il pericolo che le cose sfuggano di mano non è una crisi; non importa quanto frenetica sia l’attività, finché si ritiene di essere al sicuro non c’è una crisi. E una “crisi” che si sa che avrà come risultato un disastro o grandi perdite, o enormi cambiamenti di un qualche tipo che sono però ampiamente prevedibili, anche questa non è una crisi; finisce non appena incomincia, non c’è ansia. L’essenza di una crisi è che le persone coinvolte non abbiano il pieno controllo degli eventi.”

Nei termini del rischio definito dall’economista Frank Knight, l’essenza della politica del “rischio calcolato” è l’incertezza, che diversamente dal “rischio” quantificabile non ha una distribuzione di probabilità. Il timore di qualcosa di terribile costringe i politici ad assicurarsi contro un risultato di questo tipo.

Nella zona euro, una forte pressione dei mercati ha instillato nei politici europei l’urgenza delle decisioni.
Non è avvenuto così negli Stati Uniti, dove - ad eccezione del devastante crollo del mercato azionario avvenuto dopo che il Congresso inizialmente respinse il TARP (Temporary Asset Relief Program) nell’ottobre del 2008 (che compì il miracolo dal momento che il Congresso approvò il TARP quattro giorni dopo) - i mercati finanziari hanno generalmente ignorato la paralisi politica di Washington.
Invece i mercati hanno generosamente e fiduciosamente premiato le istituzioni politiche di Washington, ritenute di gran lunga superiori, e le generali prospettive di crescita con tassi di interesse sui titoli del debito pubblico così bassi come non lo erano mai stati in passato.
Per soddisfare gli investitori, le attività degli Stati Uniti devono semplicemente sembrare migliori delle attività alternative disponibili nella zona euro e in Giappone.
In assenza di sorveglianti dei titoli del debito pubblico [bond vigilantes], i legislatori del Congresso sono stati costretti a caricare le loro stesse armi e a creare le loro stesse crisi artificiali.

Ho espresso il mio rincrescimento a proposito della necessità di usare i mercati per costringere i leader politici della zona euro ad arrendersi e a cedere sovranità politica.
Ma sono ottimista sul fatto che una simile strategia possa avere successo a Washington.

Tuttavia la politica del “rischio calcolato” presenta a Washington rischi che non sono presenti nella zona euro. I leader europei, ad esempio, sono generalmente d’accordo nel ritenere che un collasso del sistema debba essere evitato a qualsiasi costo. Non c’è un consenso simile a Washington.
Solo perché l’assicurazione della mutua distruzione, garantita dagli arsenali nucleari, ha trattenuto l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti da un conflitto nucleare durante la guerra fredda, non c’è alcuna ragione per supporre che la stessa strategia funzionerebbe con un Iran dotato di armi nucleari, messianico, il cui zelo per la guerra santa può essere paragonato alle tendenze irrazionali di alcune componenti del partito repubblicano.

In secondo luogo, i risultati cooperativi del “gioco del pollo” [chicken game] giocato nella zona euro sono stati facilitati dall’impatto asimmetrico dell’escalation man mano che i paesi che hanno adottato la moneta unica si muovevano verso l’orlo del disastro.
La Germania ritiene di non andare incontro ad alcuna sofferenza economica finché la zona euro non si rompe davvero (e a quel punto i costi sarebbero elevati). Ma le nazioni della periferia della zona euro sono andate incontro a sofferenze molto prima di una rottura, e soffrirebbero anche di più dopo.
Di conseguenza, il cancelliere Angela Merkel è stata in grado di imporre un ritmo lento alla soluzione della crisi della zona euro, confidando nel fatto che la Grecia e gli altri paesi che le si opponevano avrebbero sofferto molto di più e molto prima, e quindi avrebbero probabilmente ceduto prima.
I costi di una crisi negli Stati Uniti non possono essere addebitati in modo simile a un solo partito, e quindi si riducono le possibilità di un risultato positivo per una delle due parti.

Poiché i baratri negli Stati Uniti sono artifici politici, essi possono essere smontati rinviando le decisioni, specialmente in assenza di una pressione da parte dei mercati. Perversamente, questo può negare i vantaggi derivanti per gli Stati Uniti da una struttura di governo federale unitaria, da un sistema di controlli e contrappesi [checks and balances] cioè molto meno macchinoso del sistema decisionale della zona euro che comprende 17 diversi governi.

Che cosa dunque può dirci l’esperienza della zona euro su chi potrebbe avere la meglio nei prossimi mesi a Washington?

Dal momento che i mercati finanziari sembrano disposti a concedere agli Stati Uniti il beneficio del dubbio, almeno per ora, sarà il popolo americano a decidere chi biasimare per il prossimo burrone al quale ci avvicineremo.
Di conseguenza, il presidente Obama ha inviato un messaggio vincente a cavallo della fine dell’anno quando ha affermato che i repubblicani erano disposti a rischiare tutto per proteggere le aliquote di imposta che si applicavano ai milionari. I repubblicani della Camera hanno ceduto e hanno accettato un incremento di più di 600 miliardi di dollari delle imposte senza ricevere in cambio niente più di un simbolico incremento dei tagli alla spesa.

I leader dei repubblicani del Congresso ora sono convinti di aver evitato ulteriori incrementi delle imposte. Sulla base di questo presupposto, ritengono che il prossimo giro di negoziati debba essere sui tagli alla spesa. Ma è dubbio che il partito repubblicano abbia realmente incrementato il suo potere contrattuale nei confronti del presidente Obama con questo risultato.

Per un semplice motivo, perché il potere contrattuale nei confronti di un presidente che non si deve ripresentare appare discutibile.
Il presidente Obama potrebbe, ad esempio, mettere al sicuro il suo lascito politico agendo unilateralmente per evitare il limite massimo al debito pubblico - coniando quella moneta da un trilione di dollari o semplicemente ignorando del tutto quel limite e rischiando la messa in stato di accusa [impeachment] e un verdetto favorevole da parte della maggioranza democratica del Senato, piuttosto che cedere alle richieste dei repubblicani di soli tagli alla spesa.

Il “gioco dello scaricabarile” [“blame game”] fatto ex ante nella politica degli Stati Uniti è sempre incostante e miope.
E’ difficile che la vittoria dei democratici nel confronto sul baratro fiscale sia ricordata dal pubblico americano quando le negoziazioni sul limite massimo al debito diverranno concitate e il disastro si profilerà.
In verità, proprio perché il baratro dovuto al limite massimo al debito pubblico è molto più grave del baratro fiscale (un default degli Stati Uniti sul debito avrebbe quegli effetti istantanei sui mercati che la minaccia di una recessione nel 2013 non ha mai avuto), i repubblicani probabilmente avranno un potere contrattuale minore di quello che hanno avuto a cavallo del nuovo anno.
Con la piena affidabilità e il credito degli Stati Uniti in gioco, quale potere contrattuale potranno davvero avere il presidente della Camera John Boehner e il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell?

Il presidente Obama avrà l’opzione di esercitare unilateralmente il potere esecutivo. Anche se decidesse di non ricorrere ad esso e di evitare un default bloccando i pagamenti della previdenza sociale, dei rimborsi delle imposte, o dei contratti della difesa, che cosa potranno guadagnare i repubblicani?
Esattamente come le ritorsioni commerciali giustificate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio possono essere regolate per infliggere il massimo danno politico alla nazione che viola le regole, il Tesoro degli Stati Unti può determinare le priorità nei pagamenti in modo tale da infliggere il massimo danno al partito repubblicano nei confronti dell’opinione pubblica.
Il cosiddetto Ryan Budget e la proposta privatizzazione dell’assistenza sanitaria non furono, alla fine, decisivi nelle recenti elezioni presidenziali, eccetto forse che in Florida, dove i pensionati votarono in massa. Ma non c’è dubbio che le richieste dei repubblicani per drastici tagli al sistema pensionistico e alla assistenza sanitaria sono impopolari. Obama ha vinto in Florida dopotutto.
Boehner e McConnell davvero pensano che agitare lo spettro dei mercati finanziari o minacciare di paralizzare l’attività del Governo federale per sostenere queste richieste si dimostrerà una scelta vincente in termini di voti? Forse dovrebbero consultare l’ex leader della maggioranza del Senato Bob Dole, che criticò le manovre dell’allora presidente della Camera Newt Gingrich dirette a provocare la paralisi dell’attività del governo nel 1995, perché danneggiarono la sua campagna contro il presidente Bill Clinton nel 1996.

In conclusione, un default sovrano degli Stati Uniti rimane una preoccupazione oziosa per quanto riguarda i prossimi mesi. La compiacenza dei mercati finanziari appare giustificata. L’idea del partito repubblicano di un suo maggiore potere contrattuale nei prossimi round dei giochi del baratro è un mito. Sia nel caso in cui la battaglia sul limite massimo al debito pubblico si concluda con un accordo tra i due partiti sia nel caso in cui si concluda con un decreto del potere esecutivo, la mia previsione è che ciò avverrà ampiamente secondo le condizioni poste dal presidente Obama.

I repubblicani - così timorosi del fatto che gli Stati Uniti possano tramutarsi nella Grecia - dovrebbero ricordare che il primo passo che qualsiasi paese compie lungo quella strada è quello di rinunciare a un modo di governare basato sui fatti, credibile e responsabile.

[FINE]

* Ho aggiunto dei link a Wikipedia per la politica del “rischio calcolato” o brinkmanship e per il gioco del pollo o chicken game, e al blog di Paul Krugman per la proposta di coniare una moneta di platino da un trilione di dollari come espediente legale per aggirare il limite massimo al debito pubblico o debt ceiling.