Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

domenica 2 giugno 2013

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Questa nostra Repubblica




Alessandro Galante Garrone

Questa nostra Repubblica

Galante Garrone, A. (1959). “Questa nostra Repubblica”. Torino: Loescher. pp. XV, 64-74, 78-82.


Questa nostra Repubblica  



Non è una repubblica improvvisata, sorta da un impeto subitaneo di passione, espugnata d’assalto come una trincea: è una repubblica lungamente meditata e consapevolmente voluta, uscita dalla ragione e dal buon senso popolare, conclusione logica e pacificatrice di una coscienza civile maturata nell’esperienza del dolore.
La Repubblica: la nostra famiglia, la nostra casa, questo senso di civica responsabilità di un popolo che finalmente si sente padrone del proprio destino; questo senso di vicinanza e di solidarietà in cui ci riconosciamo e sentiamo che ognuno conta e conterà d’ora innanzi per uno, e che le mani di chi lavora e lavorerà potranno stringersi fiduciose e concordi, ora che questo atto di solenne giustizia storica è stato compiuto.
(Pietro Calamandrei, giugno 1946)


I problemi sociali. Crisi del liberismo capitalistico

Nel secolo scorso si usava parlare di “questione sociale”, di “problema sociale”: e l’espressione, nella sua vaga genericità, si tingeva spesso di un colore arcano e oscuro, a volte quasi terribile, per lo sbigottimento che suscitavano nelle classi possidenti le accese rivendicazioni e i fermenti e le dottrine del socialismo nascente e delle classi lavoratrici.
Oggi, con più sereno distacco, possiamo invece tranquillamente parlare, senza gli sgomenti o le audacie di un secolo fa, di “problemi sociali anche con riferimento alla loro evoluzione storica”: così come leggiamo nel recente programma di educazione civica per le scuole.
Non è questa la sede per tracciare la lunga storia dei contrasti sociali e delle lotte di classi nei secoli scorsi, e delle varie dottrine comuniste e socialiste (dagli zappatori o veri livellatori del Seicento inglese alle settecentesche ideologie comuniste di Mably e di Morelly e al programma di Babeuf nel chiudersi della Rivoluzione francese; dal sansimonismo e dal fourierismo della prima metà dell’Ottocento al socialismo scientifico di Marx) e del movimento operaio (dal Cartismo e dal trade-unionismo inglese alla Prima e alla Seconda Internazionale).
Qui basterà dire che tutta la lunga evoluzione storica dei problemi sociali, nei suoi multiformi e contrastanti aspetti, era ben presente e viva nello spirito dei nostri Costituenti.
E come la solidarietà sociale di cui parla la Costituzione non può considerarsi soltanto un riflesso del solidarismo cristiano-sociale e dell’Enciclica Rerum Novarum, ma è piuttosto, lo si è visto, il punto di incontro di questa con altre correnti, così gli articoli costituzionali che toccano più da vicino i più delicati problemi sociali del nostro tempo sono il frutto di un accordo tra le varie correnti, la confluenza di diverse esperienze storiche su un terreno comune da tutti riconosciuto.
E quello che ora diremo spiegherà meglio il senso di questa premessa.

Il primo di questi problemi sociali è il problema del rapporto dell’individuo con l’economia del nostro tempo.
E’ un problema che si sdoppia, a seconda che lo si consideri nel suo momento dinamico – iniziativa privata -, oppure statico – proprietà privata -.
Ad esso sono dedicati alcuni importantissimi articoli della Costituzione: art. 41, 42, 43.
Essi riflettono un’incontestabile evoluzione storica, che ha profondamente alterato, dal principio dell’Ottocento a oggi, i rapporti economici.
Si può dire che l’economia capitalistica, quale si era venuta atteggiando alla fine del Settecento e aveva trionfato nel corso dell’Ottocento, poggiasse su due cardini fondamentali: l’assoluta libertà dell’iniziativa privata, e l’inviolabilità della proprietà privata.
La celebre formula del laissez faire laissez passer riassumeva e simboleggiava questa esigenza della intangibilità della sfera economica dell’individuo.
Fu una grande illusione: forse la più grande, di tutte le generose illusioni di cui fu prodigo il secolo scorso.
Questo atteggiamento di assoluto liberismo economico, di rispetto e anzi esaltazione dell’iniziativa individuale e della proprietà privata, rappresentava indubbiamente un momento positivo, di progresso, nella storia umana: poiché significava liberazione da tutte le pastoie dell’antico regime, soppressione dei vincoli corporativi e dei privilegi di casta, espansione dell’industria, dell’agricoltura, del commercio; in una parola, modernizzazione della vita economica.
Fu questo il periodo aureo dell’economia capitalistica.
Ma questo principio dell’assoluta libertà economica privata, fin dal suo primo vittorioso affermarsi, fu assalito da opposte sponde.
Da un lato i conservatori, i reazionari, i nostalgici dell’economia precapitalistica, dall’altro i nascenti movimenti socialisti partirono all’attacco, denunciando con amari rimbrotti i mali e le contraddizioni e le ingiustizie del capitalismo, della sfrenata libertà economica.
Ma ancor più grave, per le sue conseguenze, fu il processo che si svolse all’interno stesso dell’economia capitalistica, e cioè l’inarrestabile formarsi di grandi trusts, di monopoli, che finivano per distruggere quella stessa assoluta libertà economica che sembrava essere il perno del sistema.
Di qui la crisi inevitabile dell’economia liberale ottocentesca, e la necessità di sottoporre a revisione i principi tradizionali, di circoscrivere entro certi limiti i diritti fino allora assoluti e inviolabili dell’iniziativa individuale e della proprietà privata.
Questa evoluzione storica si produsse, con maggiore o minore celerità e profondità, in quasi tutti i paesi.
E non è immaginabile un ritorno al passato.
Lo disse chiaramente l’on Fanfani alla Costituente: “Oggi, e non soltanto in Italia, si vive in un’economia di trapasso”.
Quello che qui importa notare, è che i nostri Costituenti si trovarono d’accordo nel dare atto di questa grande trasformazione, e nello stabilire i principi economico-sociali ai quali si deve attenere, in questo campo, la nostra Repubblica.


L’iniziativa privata e l’intervento dello Stato

Dicevamo che la libertà economica dell’individuo si traduce, nel suo aspetto dinamico, nella libertà di iniziativa privata; e, nel suo aspetto statico, nella proprietà privata.

Quanto al primo aspetto, dispone l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. – Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. – La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Nel primo comma si afferma, a guisa di premessa generale, il principio della libertà della iniziativa economica privata.
Tutti possono pertanto farsi imprenditori di uno qualsiasi dei settori dell’economia, liberamente determinarsi, nelle loro scelte e decisioni, secondo la legge dell’interesse individuale, senza arbitrarie preclusioni o imposizioni.
Ma questa libertà dell’homo oeconomicus non è illimitata.
Per il secondo comma, essa trova i suoi limiti nell’utilità sociale, e nella sicurezza, nella libertà, nella dignità umana.
Qualcosa di simile si leggeva nella Costituzione di Weimar del 1919, secondo cui la libertà economica dell’individuo doveva conformarsi a principi di giustizia, in modo che a tutti fosse assicurata “un’esistenza conforme alla dignità umana”.
Ora, siffatte affermazioni sembrano, a tutta prima, sfornite di un significato preciso, mere annunciazione astratte.
E un grande economista, che fu pure Costituente, e poi presidente della nostra Repubblica, Luigi Einaudi, criticava appunto, durante i lavori preparatori, la espressione di “utilità sociale” come priva di significato, dottamente ricordando le dispute che erano sorte fra gli studiosi sin da quando Bentham aveva contrapposto l’utilità sociale alla utilità individuale.
Ma se poniamo in rapporto queste affermazioni con altre della stessa Carta Costituzionale, allora ci avvediamo che hanno un senso ben preciso.
Esse sanciscono che i pubblici poteri hanno il dovere di intervenire nella vita economica ogniqualvolta il libero gioco delle iniziative individuali possa contrastare il raggiungimento dei fini sociali che quei poteri si propongono, o compromettere il libero e sicuro e dignitoso espandersi dell’attività umana.
L’economia, in altri termini, deve essere subordinata a certe esigenze generali di benessere e di giustizia, di cui solo lo Stato può farsi interprete.
Può sembrare un principio formulato in modo troppo ampio: ma, appunto per questa sua indeterminatezza, esso permette allo Stato di intervenire nel campo dell’economia tutte le volte in cui l’interesse della collettività lo richieda.
Per esempio, l’illimitato disfrenarsi della libertà economica può, come si è visto, condurre, per una intima logica di sviluppo, al formarsi di monopoli, con danno evidente delle larghe masse dei consumatori.
In tal caso, lo Stato avrà, per l’art. 41, il diritto di intervenire er arginare e combattere questi monopoli.
Proprio l’on. Einaudi, alla Costituente, ebbe a dire: “Il male più profondo della società presente, è l’esistenza di monopoli, danno supremo dell’economia moderna, che dà alti prezzi, produzione ridotta e quindi disoccupazione”.
Ed egli aveva perfino proposto l’aggiunta di un comma che dicesse: “ La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; e ove questi esistano li sottopone al pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta”.
La proposta non fu poi accolta; ma è indubbio che nella dizione ampia dell’art. 41 rientra anche questo potere dello Stato di combattere i monopoli.
In generale, si può dire che lo Stato avrà il diritto-dovere di intervenire nel settore dell’economia ogniqualvolta lo richiedano esigenze di solidarietà sociale: inteso questo termine nel senso amplissimo che abbiamo più di una volta messo in luce.

Ma come si attuerà questo intervento dello Stato, e degli enti pubblici in genere, nella vita economica?
Alla domanda risponde l’ultimo comma dell’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Da questa e da altre norme si deduce che fu estraneo ai Costituenti il proposito di introdurre da noi una pianificazione integrale di tipo sovietico.
Il tipo al quale piuttosto si volse la nostra Costituzione è quella della economia regolata, o dirigismo economico; o anche, come taluni dicono, della economia a due settori.
Lo Stato, cioè, pur lasciando libero campo all’iniziativa privata in via generale, e quindi entro una larghissima sfera, si riserva di intervenire, e interviene, quando lo richiedano i “fini sociali” che esso si è assunto.
La storia contemporanea ci avverte che anche nei paesi ove il capitalismo ebbe la massima fioritura – i paesi anglosassoni – questa esigenza si è fatta sentire.
Si pensi alle riforme avviate fin dal 1933 negli Stati Uniti dal presidente Roosevelt (riforme nel campo industriale, agricolo, monetario, bancario, che vanno sotto il nome di New Deal); o anche quelle attuate dal governo laburista in Inghilterra in questo secondo dopoguerra.
I tradizionali dettami dell’astensionismo dello Stato in materia economica sono stati, anche in questi paesi, ripudiati per sempre.
Un ritorno alla libera economia di mercato, all’assoluta indipendenza dell’iniziativa economica privata, non è neppure pensabile.

Notiamo ancora che l’art. 41 parla di controlli e di programmi, non di piani.
Le proposte che in tal senso erano state avanzate alla Costituente furono tutte respinte.
Evidentemente, si voleva allontanare anche solo il sospetto che con l’art. 41 si avesse di mira una pianificazione integrale.
Ma è certo che dei piani limitati, parziali, per determinati settori dell’economia, sono da ritenersi compresi nella norma costituzionale.
La quale dice un’altra cosa ancora: i programmi e i controlli non sono rimessi all’arbitrio dell’amministrazione, ma sono sempre “determinati dalla legge”.
E’ anche questa una garanzia di libertà.

Abbiamo già oggi in Italia alcuni idonei strumenti per l’attuazione di questa politica d’intervento pubblico nell’economia: l’IRI (Istituto della Ricostruzione Industriale: sorto e sviluppatosi già in epoca fascista, in conseguenza di quella generale evoluzione storica di cui si è detto), il Ministero delle Partecipazioni Statali, e così via.
Molte altre leggi dovranno essere emanate in questo campo.
Ma ciò che conta, non è tanto avere a disposizione gli adatti strumenti legislativi, quanto saperli e volerli maneggiare per “indirizzare e coordinare ai fini sociali l’attività economica pubblica e privata”, come vuole l’art. 41.
Le forze monopolistiche, questo “danno supremo dell’economia moderna” – come le chiamava Luigi Einaudi – cercheranno sempre, per la loro stessa natura, di contrastare e imbrigliare e piegare l’azione dei pubblici poteri.
Anche in questo campo, la norma costituzionale ci addita una via da percorrere con assoluta energia.


La proprietà privata

L’art. 42 si occupa della proprietà.
Non tutto l’articolo ha la stessa importanza.
Il primo comma è meramente classificatorio, e tutt’al più può valere come affermazione del principio che i privati possono essere proprietari di qualsiasi bene, nessuno escluso.
Il terzo comma richiama il principio dell’espropriazione per pubblica utilità; il quarto, i diritti dello Stato sulle eredità. Né l’uno né l’altro meritano lungo commento.
E’ invece molto importante il secondo comma: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Se volgiamo lo sguardo al passato, salta subito agli occhi una differenza essenziale.
La proprietà era un tempo considerata (per esempio da Locke) come il più tipico dei diritti naturali.
Ad essa, pertanto, era riservato un posto d’onore in tutte le Costituzioni della fine del Settecento; anche in quella giacobina, del 1793.
Era uno dei principali “diritti di libertà”.
Anche lo Statuto albertino la annoverava tra questi diritti, subito dopo la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa.
Nella nostra Costituzione, invece, essa prende posto fra i rapporti economici; non si affianca, come voleva la tradizione, ai diritti di libertà.
E questa diversa collocazione è già di per sé molto significativa.
Ma non basta.
Se mettiamo a confronto la nostra Costituzione con quelle ottocentesche, l’accento si è spostato dalla sua assolutezza, dalla sua inviolabilità, ai suoi limiti, al suo dover tener conto delle esigenze sociali.
L’art. 29 dello Statuto diceva: “Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili”.
Ma la Costituzione di Weimar del 1919 affermava: “La proprietà comporta obblighi. Il suo esercizio deve essere al tempo stesso un servizio reso al bene comune”.-
La Costituzione italiana sembra essersi ispirata a un non dissimile criterio di solidarietà sociale.
La legge deve determinare i limiti della proprietà, e il modo stesso di acquistarla e di trarne frutti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale.
Intendiamoci.
Anche secondo i giusnaturalisti e riformatori del Sei e Settecento e le Costituzioni dell’Ottocento, la proprietà non era concepita e definita come un diritto assoluto, che per sua natura non patisse limiti, uno sconfinato ius utendi et abutendi.
E che l’interesse generale, e la tutela del prossimo, potessero e dovessero imporre qualche limite, era ammesso pacificamente.
Lo stesso Turgot, nel Settecento, aveva detto: “Il diritto di proprietà è fondato sull’utilità generale; esso vie è dunque subordinato, e il legislatore ha il diritto di vigilare sull’impiego che ogni privato fa delle sue terre”.
Questo concetto di un limite era implicito anche nello stesso Codice Napoleonico, e anche nell’art. 436 del Codice civile italiano del 1865: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti”.
Ma in questa e in altre consimili definizioni l’accento, come dicevamo, non cadeva sui limiti della proprietà, ma sulla sua assolutezza e intangibilità.
E la ragione storica di questa accentuazione è evidente.
Le classi uscite vittoriose dalle rivoluzioni della fine del Settecento avevano soprattutto bisogno di consacrare, contro gli arbitri, le vessazioni, i vincoli dei governi dispotici dell’antico regime, il rispetto della proprietà privata quasi come una proiezione dell’intangibile libertà dell’uomo.
Le borghesie liberali vedevano nella tutela di tutte le proprietà un presidio della loro novella forza politica e sociale.
Ma con l’affermarsi delle correnti democratiche e socialiste, e (come potremmo dire ancora più largamente) per riflesso dell’evoluzione stessa dell’economia, che portava alla luce gli inconvenienti di uno sfrenato individualismo e la necessità di arginarlo, si venne gradatamente affermando l’idea di una funzione sociale della proprietà.
Abbiamo visto la caratteristica norma della Costituzione di Weimar.
La legislazione di tutti i paesi risentì più o meno l’influenza di questo lungo processo storico, tuttora in corso.
Anche il nuovo Codice civile del 1942 dava della proprietà une definizione che, rispetto a quella del 1865, ne attenuava l’assolutezza e per contro ne accentuava i limiti: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
Ben più avanzato ci appare, su questa strada, l’art. 42 della Costituzione, che parla espressamente della “funzione sociale” della proprietà, e indica altresì lo scopo politico-sociale al quale devono tendere le leggi regolanti la proprietà: quello di renderla accessibile a tutti.
E la strada, ripetiamolo, è quella della solidarietà sociale.


La “socializzazione”

Ma vediamo, in concreto, quali passi debbano essere compiuti su questa strada, secondo i dettami costituzionali.
Per l’art. 43, “ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse sociale”.
Nel sistema dell’economia regolata, vi è dunque un settore sottratto all’iniziativa privata.
La delimitazione di questo settore, più o meno ampio a seconda dei paesi e dei momenti storici, è fatta in base al criterio dell’”utilità generale”; e questa delimitazione è compito dello Stato, che la stabilisce per mezzo di leggi.
Quali imprese possono rientrare in questo settore?
Lo dice l’art. 43: si tratta di imprese che abbiano carattere di preminente interesse generale, per le quali cioè si debba tener conto, più che del criterio del tornaconto privato, di quello dell’interesse della collettività.
Queste imprese possono essere di tre categorie: a) O si riferiscono a servizi pubblici essenziali. Per esempio, le imprese telefoniche. b) O si riferiscono a fonti di energia. Per esempio l’industria elettrica; o quella, che potrà avere un largo sviluppo nel futuro, della produzione dell’energia nucleare. c) O, infine, si riferiscono a situazioni di monopolio.
Le imprese di questo terzo tipo, una volta eliminato il gioco della libera concorrenza, ove non fossero controllate dai poteri pubblici, potrebbero fissare i prezzi che credessero, scegliere i metodi produttivi e i mercati che preferissero, imporre la loro volontà ai consumatori.
In tutti questi casi – a, b, c -, se lo Stato non intervenisse gli interessi della collettività sarebbero impunemente sacrificati.
Lo Stato, se non vuole abdicare ai suoi crescenti doveri, deve dunque sottrarre queste imprese alla iniziativa privata.
Il che potrà essere fatto in vario modo: o facendosi lo Stato stesso gestore di queste imprese (statizzazione, nazionalizzazione), o affidandosene la gestione a enti pubblici (municipalizzazione: es. le aziende municipali per l’energia elettrica o l’acqua potabile) ovvero a comunità di lavoratori o di utenti (socializzazione).
Il termine di socializzazione è anche usato, più comprensivamente, per indicare tutte le su accennate forme di sostituzione dell’iniziativa economica individuale.
Non è qui il caso di entrare nei particolari.
Basterà dire che nell’art. 43 è implicito tutto un ardito programma di riforme: che a tutt’oggi è ben lungi dall’essere stato compiutamente realizzato.
Non si pensi che il percorrere questa strada significhi sovvertire gli esistenti rapporti economici e sociali, l’avventurarsi sul terreno delle violente espropriazioni.
Si tratta invece, di riportare un po’ d’ordine là dove impera il più sfrenato disordine, di sottoporre a un pubblico controllo i settori dell’economia dai quali direttamente dipendono gli interessi della collettività.
[…]

Il diritto al lavoro

Siamo venuti così a parlare della dignità sociale del lavoro, come di una pietra angolare del nostro edificio costituzionale.
Questo principio lo troviamo enunciato dalle parole stesse con cui si apre la Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; e ribadito dall’art. 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che … impediscono … l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ma la consacrazione esplicita del lavoro, come diritto e dovere di tutti i cittadini, è nell’art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. – Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Il punto più notevole di questa affermazione costituzionale è il riconoscimento del diritto al lavoro.
Gli antecedenti storici di questo riconoscimento risalgono ben addietro nel tempo.
Già la costituzione giacobina del 1793 aveva detto: “La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in età di poter lavorare”.
Ma questa proclamazione si inquadrava in un generale orientamento di soccorsi pubblici, considerati enfaticamente “un debito sacro”; non giungeva al punto di riconoscere un vero e proprio diritto al lavoro.
Si doveva giungere alle lotte democratiche e sociali dell’Ottocento, perché il lavoro fosse considerato, anziché un debito della società, un diritto dell’uomo.
Gli operai lionesi erano insorti nel 1831 inalberando la celebre insegna: “Vivre en travaillant ou mourir en combattant” [vivere lavorando o morire combattendo].
E da quel giorno le correnti repubblicane e socialisteggianti della Monarchia di luglio avevano iscritto quel diritto tra le loro prime rivendicazioni; e Louis Blanc lo aveva teorizzato.
Il droit au travail era stato uno degli slogan più correnti della rivoluzione del 1848, e gli ateliers nationaux una prima realizzazione, quanto mai infelice e imperfetta, di quel diritto, che nella Costituzione repubblicana del 1848 non ebbe se non un riconoscimento vago e indiretto.
Solo nel nostro secolo si ebbero le prime formulazioni esplicite del diritto; e la nostra Costituzione, sotto questo rispetto, può considerarsi all’avanguardia.

L’art. 4 acquista un rilievo più preciso se lo si mette in rapporto con altri articoli della nostra Carta: il 35, il 36, il 37.
Ma prima occorre intendersi sulla esatta portata dell’art. 4 .
Il quale, dopo aver detto che la Repubblica riconosce a tutti il diritto al lavoro, aggiunge che essa promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Questo vuol dire che, per la Costituzione, l’effettivo diritto al lavoro ancora non esiste; ma attende che determinate condizioni per la sua effettuazione siano promosse.
Osservò un giorno Calamandrei: “ A voler essere sinceri, molte delle disposizioni della nostra Costituzione dovrebbero essere scritte al futuro: per mantenerle al presente, bisognerebbe al verbo far precedere la negazione”.
E in particolare, egli scrisse dell’art. 4 “Questo vuol dire che verrà un tempo in cui ogni cittadino avrà il diritto effettivo di trovare lavoro e il dovere effettivo di lavorare; ma per ora, nella società presente non c’è né questo diritto né questo dovere”.
Dobbiamo allora concludere che l’art. 4 si riduca a non altro che a una platonica affermazione di principi astratti?
No, perché in esso – come disse lo stesso Calamandrei – “c’è il chiaro proposito di un lavoro da iniziare senza ritardo”.
E questo lavoro si riassume in una implacabile lotta contro la disoccupazione e la miseria, per il “pieno impiego”.
E’ una realtà ancora di là da venire, il Welfare State: cui tendeva in Inghilterra il piano Beveridge, e in Italia il piano Vanoni.
Per avere un’idea della vastità di questo compito, rimandiamo alle due inchieste parlamentari, che sono state promosse alcuni anni fa in Italia, sulla disoccupazione e la miseria.
Esse hanno messo a nudo i mali che ancora affliggono le “zone depresse” del nostro paese.
E fino a che questi mali non saranno sradicati, l’art. 4 dovrà avere per tutti noi il valore di un impegno categorico e perentorio.

Questo impegno costituzionale di trasformare la società per rendere effettivo il diritto al lavoro,, risulta dagli altri articoli che ora si sono nominati.
Per l’art. 35, la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro, riconosce la libertà di emigrazione, tutela il lavoro italiano all’estero.
In questa enumerazione è contenuto tutto un fervido programma di iniziative statali, inserite nel quadro d’intese internazionali.

Una particolare importanza ha il primo comma dell’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Anche a questo proposito potremmo dire che la realtà d’oggi è ben lontana dal consentire a ogni lavoratore quel minimo a cui, per l’art. 36, egli ha pur diritto.
Parlare di questo diritto in un paese come il nostro, in cui tanta gente ancor vive, denutrita, nella miseria più squallida e indecorosa, assume quasi sapore d’ironia.
Ancora il Calamandrei ha detto: “In realtà oggi i lavoratori questo diritto non l’hanno, e bisogna trasformare la società in modo da far sì che venga il tempo in cui effettivamente sia assicurata a tutti i lavoratori quell’esistenza libera e dignitosa che oggi per molti di essi è soltanto una struggente speranza”.
Ma una volta ancora dobbiamo avvertire che questa norma costituzionale non si riduce a una platonica affermazione di principio, ma assume un preciso, cogente valore politico-sociale, e anche giuridico.
Essa è cioè suscettibile di immediata applicazione allorché si tratti di determinare in concreto – nei casi in cui la questione sia sottoposta al giudice – la giusta retribuzione spettante al lavoratore.
Si tratta (per rifarci alla distinzione già più volte da noi ricordata) di una norma di carattere precettivo, non soltanto programmatico.
Lo ha detto più volte la Corte di Cassazione, che in questo caso è stata ben più netta e recisa che in altri: “Il principio della minima retribuzione sufficiente che, per le sue finalità economico-sociali, si inserisce nel quadro dei diritti personali assoluti, [è] consacrato dall’art. 36 della Costituzione che ha carattere precettivo ed è di applicazione immediata e diretta”.
Dunque, l’articolo 36 già vive nel nostro ordinamento giuridico, ha una portata effettiva; e i giudici, in determinati casi, già lo applicano.
Si tratta, per quanto riguarda il futuro, di estenderne il campo di applicazione, di trasformare la realtà sociale del nostro paese in modo che tutti i cittadini lavoratori possano invocare quel diritto, e considerarlo anzi un bene universalmente acquisito e intangibile, come l’aria che si respira.
L’art. 36 e l’art. 37 pongono poi sotto l’egida costituzionale altri diritti del lavoratore, ormai tradizionalmente riconosciuti dalla legislazione sociale di tutti i paesi civili, fin da quando il movimento operaio aveva denunciato le crude sofferenze poste in essere dalla rivoluzione industriale: così per qual che riguarda la durata massima della giornata lavorativa, il riposo settimanale, le ferie, il lavoro delle donne e dei fanciulli.
L’autorità della Costituzione è venuta a rafforzare l’efficacia e l’inderogabilità di tutte queste norme protettive del lavoro.
Un particolare rilievo va dato a una norma contenuta nell’art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
Essa è l’applicazione, al campo del lavoro, del principio della parità dei sessi sancito dall’art. 3; e ha un indubbio carattere precettivo.


 [FINE]



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