Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

venerdì 24 maggio 2013

Share Button


L’errore di aver dimenticato Hitler




Michael Burda

L'errore di aver dimenticato Hume

Pubblicato il 18 maggio 2012 da lavoce.info qui.


L’errore di aver dimenticato Hitler



Il grande filosofo ed economista scozzese David Hume aveva compreso fin troppo bene come i confini nazionali e le statistiche della bilancia dei pagamenti influenzano e anzi determinano i flussi del commercio internazionale.

L'UNIONE E IL MECCANISMO DI HUME

Laddove esistono confini, gli uffici doganali e le burocrazie statali monitorano continuamente il flusso di beni e attività tra paesi e i surplus o i deficit sono visti dai politici come un motivo di orgoglio o di vergogna.
Hume criticava il mercantilismo, ma era ottimista sul fatto che la struttura del commercio si sarebbe alla fine aggiustata.
Nel 1752 scriveva: “Se una nazione conquista un vantaggio commerciale su un'altra, è molto difficile che quest'ultima recuperi il terreno perduto (...) Ma questi vantaggi sono compensati, in qualche misura, dal basso costo del lavoro nelle nazioni che non hanno un vasto commercio e che non sono ricche di oro e argento.
I produttori perciò trasferiscono le loro sedi, lasciando i paesi e le province che hanno già arricchito, e andando verso altri luoghi, dove sono richiamati dalla modicità dei prezzi dei beni per vivere e del lavoro, finché anche questi nuovi luoghi non si arricchiscono e i produttori sono di nuovo costretti all'esilio per gli stessi motivi.
E, in generale, possiamo osservare che l'alto costo di ogni cosa, dovuto all'abbondanza di denaro, è uno svantaggio che accompagna ogni commercio consolidato, e stabilisce dei limiti ad esso in ogni paese, consentendo agli stati più poveri di battere sul prezzo i più ricchi in tutti i mercati stranieri”.

In linea di principio, il celebrato meccanismo di Hume dovrebbe funzionare all'interno dell'area euro: i paesi che esportano meno di quanto importano dovrebbero perdere euro a favore dei paesi in surplus, a meno che non siano compensati da flussi in entrata di capitali privati.
L'uscita di euro porta a una scarsità di moneta e di credito, a minori prestiti per consumo e investimenti, a un rallentamento delle attività e alla caduta dei prezzi.
Deficit cronici comportano più alti tassi di interesse e il declino del merito del credito sia per i debitori sovrani che privati.
Ma assorbimento interno e prezzi dei beni non commerciabili in calo, alla fine, riportano i salari in linea con la produttività e ristabiliscono la competitività.
Nello stesso modo, i paesi con surplus cronici dovrebbero accumulare euro e le banche nazionali dovrebbero espandere il credito, portando così a una domanda e a un'inflazione maggiori rispetto ai paesi in deficit.

Le intuizioni di Hume sono rilevanti oggi come lo erano 250 anni fa.
La recessione e la concomitante riduzione dei prezzi e salari nei paesi periferici dell'Eurozona sono dolorose, ma sono condizioni necessarie per recuperare la capacità di esportare e tornare così alla crescita e a finanze pubbliche sostenibili: una rigida politica fiscale è necessaria per accelerare il processo.
Irlanda, Spagna e Portogallo hanno già fatto progressi in questo senso.
I livelli dei prezzi relativi devono però scendere ancora nei paesi in deficit perché si possano riequilibrare gli squilibri e possano tornare i capitali privati.
È vera anche l'altra faccia della medaglia: Germania, Olanda e Finlandia devono accettare una buona dose di crescita dei salari e dei redditi nominali, e anche di più alta inflazione.
Con un pizzico di fortuna, è possibile che l'accettino.

Ma il meccanismo di Hume opera con lentezza, soprattutto perché i prezzi hanno bisogno di tempo per aggiustarsi e sono guidati da aspettative difficili da modificare.
Ma opera con lentezza anche perché i difetti nella costruzione dell'Eurozona ostacolano il meccanismo di Hume.
I deficit delle partite correnti non sono un male di per sé, in particolare se aiutano a superare difficoltà di consumo temporanee dovute a un anno particolarmente difficile oppure finanziano le importazioni di beni capitali per rispondere a opportunità produttive.
Tuttavia, dall'inizio della crisi finanziaria, i paesi dell'area euro con deficit cronici hanno sperimentato anche significativi deflussi di capitali e deficit di bilancia dei pagamenti.
Ai tempi del sistema di Bretton Woods, prima del 1971, il Fondo monetario internazionale avrebbe estinto questi fuochi attraverso piani di stabilizzazione fiscale: Gran Bretagna e Italia ne sono stati due esempi memorabili.
Squilibri cronici di bilancia dei pagamenti non erano tollerati perché nessuno si aspettava che un paese sovrano finanziasse in modo permanente i deficit degli altri.

I LIMITI DI UN SISTEMA

Nell’Eurozona non c’è nessuna autorità che regoli gli squilibri fra i diversi paesi sovrani:
- il trattato di Maastricht non prevede esplicitamente interventi come quelli del FMI;
- il Patto di Stabilità e crescita, progettato per prevenire gli squilibri causati dai governi, ha chiaramente fallito il suo compito;
- mentre i flussi di capitale privato in questi paesi si sono prosciugati e si sono anzi trasformati in una fuga di capitali, la BCE ha involontariamente finanziato i deficit nelle bilance dei pagamenti derivanti da questo fenomeno, attraverso il cosiddetto sistema di Target 2. 1
Queste entrate contabili nei bilanci delle banche centrali nazionali sono diventate oggetto di animate discussioni in Germania. 2
Monetizzando in modo passivo gli squilibri intra-europei, la Bce ha “messo Hume in attesa”, rimandando il necessario aggiustamento dei prezzi relativi fra regioni.
Inizialmente sottovalutato dalla maggioranza degli economisti, il problema è ormai troppo grande per essere ignorato.
I surplus della Bundesbank verso la BCE ammontano a più di 700 miliardi di euro, circa il 30 per cento del PIL tedesco.
La Germania è ormai diventata ostaggio dell’Unione monetaria, perché un’uscita unilaterale implicherebbe una nuova banca centrale con equity negativa.

In un mondo senza frontiere nazionali e senza banche centrali nazionali, non possono esserci deficit nelle bilance dei pagamenti – i deficit di conto corrente sono sempre finanziati da capitale privato.
Finché i membri dell’unione monetaria li accettano, cambiamenti di proprietà, anche di rilevante entità, degli asset nazionali all'interno dell'Unione dovrebbero essere perfettamente accettabili e lasciati ai proprietari dei flussi di capitale.

Compito dei governi dovrebbe essere quello di evitare che gli errori delle banche private e degli investitori ricadano sui contribuenti.
E la BCE dovrebbe astenersi dall'immettere liquidità direttamente su un particolare mercato.
Tuttavia, finché i “nazionalisti economici” continuano a prestarvi attenzione, i deficit e i surplus delle bilance dei pagamenti nazionali continueranno ad avere un ruolo nella formulazione delle politiche.
Nel caso di una rottura dell’euro, le entrate contabili derivate da Target2 diventerebbero espliciti attivi e passivi nazionali, aprendo la strada a ulteriori recriminazioni e a un deterioramento delle relazioni economiche e anche politiche.

Alla fine, i fondatori dell’euro hanno commesso un grave errore ignorando il non irrilevante dettaglio che Hume avrebbe certamente colto.
Decidendo di non abolire definitivamente le banche centrali nazionali, la porta sul retro è rimasta socchiusa permettendo agli interessi nazionali di interferire con il normale funzionamento del sistema finanziario e del meccanismo di Hume.
Questa svista, assieme all’incapacità di istituire una Autorità bancaria europea veramente forte, ha lasciato scoperto uno squarcio nell’integrazione monetaria e finanziaria dell’Unione Europea che ci perseguiterà nei mesi e anni a venire.

               
1 Buiter et al 2011.
2 Sinn 2012, Dullien and Schieritz 2012, Tornell and Westermann 2011.


[FINE]

Il corsivo è mio.
 

 

venerdì 17 maggio 2013

Share Button


La nemesi del libero scambio

http://goo.gl/CnERj



Nicholas Kaldor

The Nemesis of Free Trade

Kaldor, N. (1978). “Further Essays on Applied Economics”. London: Ducksworth. pp. 234-241.


La nemesi del libero scambio

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]


Lasciate che incominci con una citazione:

“Sono stato educato, come quasi tutti gli inglesi, al rispetto del Libero Scambio, non solo come una dottrina economica della quale una persona razionale e istruita non può dubitare ma quasi come un articolo della legge morale.
Consideravo ogni deviazione da esso come una idiozia e un oltraggio nello stesso tempo.
Pensavo che l’incrollabile fede dell’Inghilterra nel Libero Scambio, mantenuta per quasi cento anni, fosse sia la spiegazione di fronte agli uomini che la giustificazione di fronte a Dio della sua supremazia economica.
Ancora nel 1923 scrivevo che il Libero Scambio era basato su verità fondamentali che, affermate con le dovute limitazioni, nessuno che sia capace di comprendere il significato delle parole potrebbe mettere in discussione.”

Questo non è stato detto da John Stuart Mill, né da Alfred Marshall, e neppure da un grande statista liberale come Asquith.
E’ il paragrafo introduttivo di due articoli scritti da John Maynard Keynes e intitolati “National Self-Sufficiency” che furono pubblicati dal New Statesman and Nation nel luglio del 1933 – scritti, bisogna dirlo, quasi due anni dopo l’abbandono del gold standard da parte della Gran Bretagna.
Keynes aveva proposto l’introduzione di un “dazio sulle importazioni” [revenue tariff] due anni prima, come una alternativa all’abbandono del gold standard e come un modo per espandere di nuovo l’economia caduta in uno stato di depressione.
Ma in questi due articoli egli affrontò la questione del commercio internazionale da un punto di vista più orientato al lungo periodo, e si domandò se i vantaggi della divisione internazionale del lavoro o della specializzazione fossero così grandi nel XX Secolo come lo erano stati nel XIX Secolo, e se la posizione a favore di una maggiore autosufficienza non si rafforzi se si considerano i vantaggi che ne derivano in termini di una maggiore stabilità economica.

Tuttavia questi due articoli furono curiosamente insoddisfacenti – Keynes ricercò le ragioni per le quali il libero scambio aveva fallito nel produrre buoni risultati ma in quel momento non seppe come trovarle.
In particolare egli non riuscì ad afferrare le due questioni cruciali della controversia tra il libero scambio e la protezione: la questione del livello dell’occupazione e la questione del tasso di crescita dell’economia.
Queste questioni erano state le più rilevanti nel dibattito iniziato da Joseph Chamberlain trenta anni prima – nella famosa campagna per la riforma dei dazi del 1903.
Le questioni affrontate e gli argomenti esposti in quel dibattito suonano curiosamente familiari a chi ha seguito o partecipato alle recenti discussioni sulla politica economica – con la sola differenza che i protagonisti sembrano essersi scambiate le parti – quello che allora era considerato di destra oggi è considerato di sinistra e viceversa.
Forse questo è semplicistico, ed è un errore etichettare politicamente le argomentazioni economiche – Joe Chamberlain era dopotutto un radicale che divenne conservatore nell’ultima parte della sua vita.
Comunque sia, molti dei punti contenuti nei discorsi tenuti da Joe Chamberlain nel periodo 1903-1905 (e il loro tono complessivo) potrebbero oggi essere più facilmente ascoltati da un membro del gruppo Tribune piuttosto che da un membro del Partito Conservatore, mentre gli argomenti del grande oppositore di Chamberlain di allora, [il liberale] Asquith, sono molto più vicini a quelli avanzati da conservatori di destra come Keith Joseph o Brittan, o dall’attuale direttore del The Times.
E’ opportuno perciò richiamare alcune delle affermazioni di Chamberlain, e degli argomenti che furono contrapposti ad esse.

I
I.1
La principale preoccupazione di Chamberlain fu di “assicurare più occupazione a un salario equo per i lavoratori di questa nazione”. Egli disse nel 1905 (cioè trenta anni prima di Keynes!) che “la questione dell’occupazione è oggi divenuta la più importante questione del nostro tempo. Prodotti a un prezzo accessibile, più elevate condizioni di vita, salari più alti – tutte queste cose sono contenute nella parola “occupazione”. Se la mia politica vi dà più occupazione, tutte le altre cose si aggiungeranno per voi.”

I.2
La sua seconda preoccupazione fu di mantenere un tasso di crescita dell’economia soddisfacente – non solo in senso assoluto, ma anche relativamente ai concorrenti della Gran Bretagna 1.

I.3
Egli spiegò che gli effetti del declino industriale sono molto diversi per l’industriale [manufacturer] e per il lavoratore.
L’industriale può salvarsi – può investire il suo capitale all’estero, dove i profitti sono più elevati (perché lì si può operare su di un mercato nazionale protetto). “Sì, l’industriale può salvarsi [avrebbe potuto aggiungere “potrebbe diventare una multinazionale”]. Ma non è per lui che io sono maggiormente preoccupato. E’ per voi – i lavoratori – dico che per voi la perdita del lavoro significa più di quanto possa significare la perdita del capitale per un qualsiasi industriale.
Voi non avete investimenti in un paese straniero che vi consentano di vivere. Voi vivete con il lavoro delle vostre mani – e se quel lavoro vi è tolto, voi non avete alternative, eccetto forse l’imparare il francese o il tedesco.”
(Questo è proprio quello che gli oppositori di sinistra del Mercato Comune hanno detto in anni recenti).

I.4
Gli argomenti contrari, avanzati da Asquith, ruotavano tutti attorno alla proposizione secondo la quale le difficoltà della Gran Bretagna erano dovute alle sue inefficienze e che queste a loro volta erano dovute al suo ostinato conservatorismo nel campo industriale.
La protezione avrebbe con­­­­­gelato le inefficienze anziché incoraggiare il necessario trasferimento delle risorse.
Se un’attività economica diventa non profittevole, questo avviene solo perché le risorse impiegate in essa devono avere un più importante uso altrove.

Vale la pena di citare per intero la risposta di Chamberlain a questo argomento:
“Credo che tutto questo sia parte del vecchio errore a proposito del trasferimento dell’occupazione. [...] E’ colpa tua se tu non lasci il settore dell’attività economica che sta fallendo e se non entri nel settore che sta emergendo.
Be’, signori, è una teoria davvero ammirevole: è soddisfacente per tutti tranne che per una pancia vuota.

Guardate quanto è semplice.
La tua attività di raffinazione dello zucchero, una volta prospera, è finita? Tutto bene, prova con le marmellate.
Il settore dell’acciaio è in crisi? Non ti preoccupare, puoi fabbricare trappole per topi.
Il commercio del cotone è minacciato? Be’, cosa ti importa? Se provassi con gli occhi delle bambole…

Ma quanto può andare avanti tutto questo?
Perché mai supponete che lo stesso processo che ha rovinato l’attività di raffinazione dello zucchero non si applicherà nel corso del tempo alle marmellate?
E quando anche le marmellate saranno andate? Allora dovrete trovare qualcosa d’altro.
Credetemi, anche se i settori dell’attività industriale di questo paese sono numerosi, non potete andare avanti così all’infinito.
Non potete continuare ad assistere con indifferenza alla scomparsa dei vostri principali settori industriali.”

I.5
La risposta successiva di Asquith – di nuovo un argomento incontrato spesso negli anni recenti – fu che Chamberlain aveva compiuto un errore imperdonabile concentrandosi sui settori “visibili” – quelli dei beni industriali, come se questi fossero gli unici davvero importanti, mentre la Gran Bretagna aveva settori in rapido sviluppo e fonte di guadagni “invisibili” che pagavano per una quota crescente delle importazioni.
Ma Chamberlain replicò “quale tipo di esportazioni compensa le importazioni? Se importiamo qualcosa che è l’equivalente di una sterlina di lavoro, una sterlina di salari – esportiamo l’equivalente di una sterlina di salari?
La finanza, e gli altri settori invisibili dell’economia, o i redditi dall’estero, non incrementano l’occupazione nazionale, o non nello stesso modo.
I lavoratori potrebbero morire di fame nel bel mezzo di una abbondanza senza precedenti.”

II

Tuttavia l’essenza della posizione contraria al libero scambio – che non fu affatto colta o compresa da Asquith e dagli altri sostenitori del libero scambio – fu solo vagamente percepita da Chamberlain, come mostra questo passaggio:

“Quando Cohen predicava la sua dottrina, egli credeva […] che mentre le nazioni straniere ci avrebbero fornito generi alimentari e materie prime, noi gli avremmo fornito in cambio i nostri manufatti.
Ma questo è esattamente quello che noi non abbiamo fatto.
Al contrario, nel periodo che ho considerato noi abbiamo inviato sempre meno dei nostri manufatti a loro ed essi hanno inviato sempre più dei loro manufatti a noi.”
(Questo si riferisce ai primi anni del Novecento, non agli anni Settanta!)

Perché un settore dell’economia è diverso dall’altro?
La risposta è che le attività manifatturiere sono soggette a rendimenti di scala crescenti - sia di tipo statico che di tipo dinamico – e sotto queste condizioni la presunzione derivata dalla dottrina di Ricardo dei costi comparati – la presunzione che il libero scambio assicuri la migliore allocazione delle risorse per ciascuno e per tutti i partecipanti ad esso, e che ci debba essere un guadagno netto dal commercio per tutti – non è più valida.
Perché sotto queste condizioni si può dimostrare che il libero scambio può condurre a una crescita limitata, o anche all’impoverimento di alcune regioni (o nazioni) a maggiore vantaggio di altre.

Questo è un punto che Adam Smith – che pose la più forte enfasi sui benefici della “divisione del lavoro” che dipende dalla “estensione del mercato” – certamente non colse, anche se egli fu perfettamente consapevole del fatto che i rendimenti crescenti – la riduzione dei costi derivante da una più ampia scala di produzione – si applicano all’industria manifatturiera, e non all’agricoltura nella quale prevalgono invece i rendimenti decrescenti.

Il pamphlet di Ricardo sull’influenza del prezzo dei cereali sui profitti * – che fu influente nel plasmare l’intero pensiero dell’Ottocento come nessun altro pamphlet di quel secolo – costituì un potente argomento contro la protezione della agricoltura.
La questione della protezione dell’attività manifatturiera non si pose perché allora la Gran Bretagna era all’avanguardia nel mondo come nazione manifatturiera, e la questione della necessità della sua industria di essere protetta era una questione che nessuno considerava.
Al contrario, la libera importazione dei cereali incrementando i redditi dei produttori stranieri aveva un effetto benefico sulle nostre esportazioni di manufatti.
Quindi nel contesto della teoria di Ricardo, e nella situazione storica della Gran Bretagna di allora, il libero scambio poteva comportare solo vantaggi: (1) prezzi minori per i prodotti alimentari; (2) salari minori in termini di beni industriali; (3) profitti più elevati e una più rapida accumulazione di capitale nel settore industriale; (4) mercati più ampi per i manufatti della Gran Bretagna, in cambio delle importazioni più elevate.
Per completezza, Ricardo avrebbe dovuto aggiungere che il libero scambio avrebbe potuto non essere ugualmente vantaggioso per le nazioni straniere che, sebbene avrebbero esportato più generi alimentari e materie prime verso la Gran Bretagna, avrebbero però potuto anche soffrire una perdita di reddito­­ a causa della contrazione delle loro attività manifatturiere.
In realtà, l’arrivo di prodotti industriali poco costosi fabbricati in Inghilterra causò effettivamente una perdita di occupazione e di produzione per i settori che operavano su piccola scala (l’artigianato) sia nei paesi europei (dove più tardi fu compensata da una industrializzazione su larga scala portata avanti con la protezione) sia e ancora di più in India e in Cina, dove non fu compensata nello stesso modo.

Mentre però il pamphlet originale di Ricardo, e le argomentazioni politiche basate su di esso, furono perfettamente fondati, la formulazione successiva da parte di Ricardo della dottrina dei “costi comparati” insinuò ulteriori assunzioni nell’argomentazione con la conseguenza sfortunata che si attribuirono al “libero scambio” più vantaggi di quelli che erano davvero giustificati.
Perché nel dimostrare, o nel tentativo di dimostrare, che tutte le nazioni avrebbero tratto benefici dal libero scambio, senza considerare se esse avessero costi elevati o bassi, se fossero ricche o povere, Ricardo introdusse (senza davvero rendersi conto della sua importanza o delle sue conseguenze) la principale assunzione neoclassica della “linearità” – l’assunzione universale di funzioni di produzione lineari-omogenee ovvero di rendimenti di scala costanti, cioè di costi per unità di prodotto costanti indipendentemente da quanto grande o piccola sia la produzione.
E’ solo sotto queste assunzioni che è valida l’ipotesi che il Portogallo sarà necessariamente reso più ricco dal libero scambio, anche se il libero scambio induce il Portogallo a specializzarsi nella produzione del vino (cioè nell’agricoltura, un settore con rendimenti di scala decrescenti) e l’Inghilterra a specializzarsi nella produzione di abiti; e sotto queste assunzioni non c’è davvero motivo per interferire con il commercio, né per quanto riguarda l’occupazione né per quanto riguarda la produttività.
Sotto queste assunzioni il libero scambio deve essere sempre una Buona Cosa, anche se è unilaterale.

III

Questa estensione formale della teoria da parte di Ricardo ha avuto delle conseguenze estremamente sfortunate delle quali soffriamo ancora oggi.
Perché mentre il libero scambio si adattò perfettamente alla Gran Bretagna allorché le servì per incrementare la quota delle imprese manifatturiere del Regno Unito nel mercato mondiale, e perciò incrementò il tasso di crescita della nostra industria manifatturiera e del nostro Prodotto Interno Lordo, accadde l’opposto quando altre nazioni – la Germania, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, per nominare solo le più importanti – incominciarono a sviluppare le loro industrie manifatturiere dietro lo scudo di dazi protettivi contro le importazioni.
Il nostro rimanere aderenti al libero scambio ha significato che tutto un insieme di nuovi settori industriali – come quello chimico o i settori basati sull’impiego dell’elettricità – non poterono svilupparsi adeguatamente nel nostro paese.
Man mano che i settori industriali tradizionali divenivano progressivamente meno profittevoli i nostri risparmi venivano sempre più investiti all’estero.
Le esportazioni della Gran Bretagna furono respinte da un posto dopo l’altro, man mano che un mercato dopo l’altro veniva chiuso – “ogni volta che incominciamo un commercio la porta ci viene chiusa in faccia con enormi dazi (Chamberlain).”
Dopo 25 prosperi anni di crescita veloce (3,5%), terminati nel 1873, abbiamo avuto 40 anni di crescita lenta (1,5%), gli ultimi 14 dei quali, in questo secolo, sono stati i peggiori – con una produttività in calo, il Prodotto Interno Lordo stagnante, gli investimenti nazionali dimezzati (fino al 5% del PIL, a fronte del 15% in Germania), l’esportazione di capitali che ha raggiunto livelli senza precedenti.
L’emigrazione netta dalla sola Gran Bretagna (senza considerare l’Irlanda) è stata pari a circa 6 milioni di persone tra il 1880 e il 1910.

La grande vittoria dei Liberali del 1906, riconfermando l’aderenza al libero scambio, rese la continuazione della stagnazione economica certa; da essa la Gran Bretagna si riprese solo con la prima guerra mondiale.
(Si può sostenere che, senza le guerre mondiali, la crisi attuale si sarebbe verificata con 50 anni di anticipo.)
Dopo di allora le cose non andarono più così male fino agli anni Settanta.
Perché la prima guerra mondiale vide una veloce re-industrializzazione della Gran Bretagna, forzata dalle necessità della guerra e dall’energia sconfinata di Lloyd Gorge; e, dopo di essa, alcuni settori industriali – i cosiddetti “settori chiave”, come la chimica, l’ottica e altri, come il settore della motoristica – rimasero protetti.
Poi, dopo un tentativo che non riuscì (da parte di Stanley Baldwin, nel 1923), i Tories finalmente ebbero successo nell’introdurre un dazio generale del 20% ad valorem su tutti i manufatti (e del 30% nei settori dell’acciaio e della chimica) nel 1932.
Dopo questo, per un certo periodo la Gran Bretagna divenne la nazione con la crescita economica più rapida al mondo. Nei 23 anni dal 1932 al 1955, la produzione industriale crebbe a un tasso composto del 4% all’anno - più velocemente di quanto abbia mai fatto prima, o dopo.

Però, a partire dal 1968, la nostra performance relativa è peggiorata come mai prima, e l’esperienza a partire dal 1972 ha dimostrato che, anche con una successione di svalutazioni in un regime di tassi di cambio flessibili, non siamo stati in grado di ribaltare l’andamento negativo che ci affligge nel commercio mondiale, con una continua contrazione della domanda per i prodotti britannici.

IV

La nemesi del credo nel libero scambio e nella libertà dei mercati, dopo un secolo di fallimenti, ci perseguita ancora.
Certamente nessuno dei grandi iniziali sostenitori del libero scambio – Combden in particolare – avrebbe pensato possibile che l’abolizione delle restrizioni sulle importazioni avrebbe portato a una contrazione della produzione industriale e dell’occupazione.
Sotto le particolari condizioni prevalenti nella prima metà, o anche nei primi tre quarti, dell’Ottocento, essi avevano certamente ragione.
Ma la grande vittoria ideologica dei sostenitori del libero scambio ha significato che i loro argomenti hanno continuato ad essere utilizzati con successo, sino ad oggi – testimone la propaganda a proposito dei grandi “benefici dinamici” di un mercato interno di 250 milioni di persone che ha preceduto il nostro ingresso in Europa – per molto tempo dopo che avevano cessato di essere validi.
Oggi è l’industria della Germania, non quella inglese, che gode dei grandi benefici derivanti dal “mercato interno di 250 milioni di persone”. L’industria della Gran Bretagna è minacciata da una continua contrazione e da un progressivo declino.

V

Supponendo che noi non avessimo sposato ideologicamente il libero scambio e che avessimo adottato una politica diretta a sostenere la crescita delle nostre industrie manifatturiere con gli stessi metodi che la Germania, la Francia, gli Stati Uniti e il Giappone hanno impiegato per sostenere la crescita delle loro industrie – cioè principalmente con dei dazi protettivi e anche con uno sviluppo pianificato della capacità industriale di base – cosa sarebbe successo?

Non avremmo certamente potuto mantenere la preminenza industriale della quale godemmo a metà dell’Ottocento.
Era abbastanza inevitabile che le tecniche della produzione industriale su larga scala e di impiego della potenza meccanica si diffondessero al resto dell’Europa e al Nord America.
Era inevitabile inoltre che i paesi giunti più tardi e con successo all’industrializzazione avrebbero in qualche modo sorpassato la Gran Bretagna per il solo fatto di beneficiare dell’apprendimento dalla nostra esperienza senza lo svantaggio di tradizioni ben radicate, come avviene con “l’apprendimento sul lavoro” rispetto a una più formale istruzione tecnica.

Però ho pochi dubbi sul fatto che con un mercato interno protetto noi avremmo goduto di tassi di crescita molto più alti e di conseguenza avremmo oggi condizioni di vita più elevate e una occupazione più sicura.
Anche un 1% addizionale rispetto al nostro tasso di crescita annuale nel secolo trascorso dal 1873 avrebbe significato che le nostre condizioni di vita oggi sarebbero circa tre volte più elevate di quanto sono.
Se avessimo seguito queste politiche, le altre nazioni industriali non sarebbero state in grado di crescere a nostre spese – o almeno non così tanto. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda la Germania nel periodo 1880-1914 e per quanto riguarda il Giappone nel periodo 1950-1975.
Questo non implica necessariamente che il tasso di crescita complessivo della produzione industriale mondiale sarebbe stato minore e non maggiore a causa di una politica protezionista da parte della Gran Bretagna.

Comunque sia, è inutile speculare su cosa sarebbe potuto succedere.
Il tempo è irreversibile, e anche se noi iniziassimo domani, il tempo perduto non potrebbe mai essere completamente recuperato.


____


Originariamente una conferenza pubblica tenuta all’Università di Leeds il 21 marzo 1977.
Sono in debito con Robert Skidelsky per aver attirato la mia attenzione sui passaggi citati dei discorsi di Joseph Chamberlain e Herbert Asquith, che sono stati tratti da Charles W. Boyd (ed.) Mr. Chamberlain’s Speeches, ii, 1914, pp.120-372; Speeches by the Earl of Oxford and Asquith, 1927, pp.45-81.

1 Chamberlain era convinto che un tasso di crescita industriale relativamente basso costituisse un grave svantaggio in se stesso nella competizione con le industrie delle nazioni con una crescita più elevata.


[FINE]


* Ricardo, D. (1815). An Essay on the Influence of a low Price of Corn on the Profits of Stock. Qui



domenica 5 maggio 2013

Share Button


Il risparmio è uguale all’investimento

http://goo.gl/3p5D3



Abba P. Lerner

Saving Equals Investment

The Quarterly Journal of Economics, Vol.52, No. 2 (Feb., 1938), pp. 297-309.



Il risparmio è uguale all’investimento

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]


I

In un recente articolo 1 pubblicato da questa rivista, Myra Curtis attacca la formulazione avanzata da Keynes nel suo libro 2, e ripetuta da me in un articolo 3, secondo la quale il risparmio e l’investimento, per l’economia nel suo complesso, sono sempre uguali.
Questa uguaglianza è apparsa paradossale a molti economisti, e molte difficoltà hanno impedito che fosse accolta da tutti.
Nella prima parte di questo articolo tenterò di chiarire alcune di queste difficoltà. Nella seconda parte esaminerò diffusamente due delle critiche avanzate dalla Curtis; e nella sezione conclusiva discuterò della possibilità di salvare un punto che non è interamente dovuto a una incomprensione dell’argomentazione di Keynes.

[I.1]

Keynes e io e la massima parte delle persone diremmo che una persona risparmia qualcosa in un certo periodo di tempo se spende per il consumo (consuma) in quel periodo di tempo meno di quello che è il suo reddito in quello stesso periodo di tempo.
L’unica misura certa dell’ammontare del suo risparmio [saving] è data dalla sottrazione del suo consumo (della sua spesa per il consumo) in quel periodo di tempo dal suo reddito [income] in quello stesso periodo di tempo.
y (reddito) – c (consumo) = s (risparmio) per definizione.
Se una persona consuma più di quello che è il suo reddito, sta facendo l’opposto di risparmiare, sta consumando i suoi risparmi, e noi possiamo nello stesso modo misurare l’ammontare della diminuzione dei suoi risparmi sottraendo il suo reddito dal suo consumo [consumption].
cy = – s è la stessa equazione (con i segni cambiati) nella quale – s è la diminuzione dei risparmi [dissaving].

L’investimento è il denaro speso per fini diversi dal consumo.
Non c’è alcuna ragione per la quale, per un singolo individuo, debba esserci una particolare relazione tra il suo investimento (i) da un lato e dall’altro elementi come il suo reddito (y), il suo consumo (c) e il suo risparmio (s) dei quali abbiamo parlato prima.
Però quando consideriamo l’economia nel suo complesso, assumendo che sia una economia chiusa, vediamo che emerge una relazione tra questi elementi che non sembra esistere per il singolo individuo.

L’equazione yc = s, essendo vera per ogni individuo nell’economia, deve essere vera anche per ogni coppia di individui, infatti se per il primo individuo è  y1c1 = s1 e per il secondo è                y2c2 = s2 allora per i due individui deve essere ( y1+ y2 ) – ( c1 + c2 ) = ( s1 + s2 ), e lo stesso deve essere per un numero qualsiasi di individui nell’economia.
Se noi mettiamo insieme tutti gli individui e sommiamo i loro redditi, i loro consumi e i loro risparmi (usando delle lettere maiuscole per rappresentare queste somme riferite all’intera economia), abbiamo che YC=S.
Da questo punto di vista, quindi, l’economia nel suo complesso è come un singolo individuo.

Però per l’intera economia vale anche un’altra relazione.
La somma dei redditi di tutti gli individui nell’economia, Y, è uguale alla somma delle spese che i singoli individui compiono, di qualsiasi tipo esse siano, perché queste spese non sono nient’altro che i pagamenti, l’incasso dei quali costituisce tutti i redditi.
La somma di tutti i pagamenti deve essere pari alla somma di tutti gli incassi in un dato periodo di tempo, perché questi sono la stessa cosa, solo guardata da un punto di vista diverso.
La somma di tutte le spese, qualsiasi sia il loro tipo, che è pari a alla somma di tutti i redditi Y, deve consistere della somma di tutte le spese per consumo C più la somma di tutte le spese per fini diversi dal consumo I, perché queste due somme, C e I, comprendono tutte le possibili spese.
Questo ci porta all’equazione Y=C+I o YC=I.
Sappiamo che YC è anche uguale S, e poiché quantità che sono uguali alla stessa quantità sono uguali tra di loro, abbiamo il risultato che S=I.
La somma dei risparmi di tutti gli individui in dato un periodo di tempo è uguale alla somma dei loro investimenti nello stesso periodo di tempo.

[I.2]

La resistenza che questo esercizio di aritmetica veramente semplice incontra presso molte persone può normalmente essere fatta risalire a una o più delle cinque cause seguenti:

[Prima causa - Flussi e stock]

1. Un fallimento nel riconoscere il fatto che tutto quello che si considera sono i pagamenti (o le differenze tra i pagamenti) effettuati in un dato periodo di tempo, e mai quantità esistenti in un certo istante temporale (come all’inizio o alla fine o in un certo istante intermedio del periodo di tempo al quale la nostra proposizione si riferisce).
Gli elementi considerati sono tutti flussi [flows] che possono essere misurati o come quantità in un dato periodo di tempo (come nel caso più semplice esaminato sopra) o come quantità per unità di tempo (se supponiamo che i flussi continuino nello stesso modo per diverse unità di tempo).
I flussi non possono mai essere misurati come quantità esistenti in un singolo istante temporale. Questo può essere fatto solo per gli stock, non per i flussi, e la nostra proposizione riguarda solo i flussi.

Questo fallimento nell’evitare considerazioni irrilevanti sulle quantità (di denaro) può assumere la forma di:
a) una insistenza nella discussione sulla velocità di circolazione della moneta.
La velocità di circolazione non è nient’altro che il rapporto tra un qualche totale dei pagamenti in denaro effettuati in un certo periodo di tempo (totale che, essendo un flusso, potrebbe riguardare la nostra proposizione) e un qualche stock di moneta esistente in un certo istante temporale (che, essendo uno stock, è su di un piano differente e può non avere alcuna rilevanza per la nostra proposizione).
b) una insistenza nella discussione sulla “accumulazione” [hoarding] ( e sulla “disaccumulazione”).
Talvolta “accumulazione” indica una diminuzione della velocità di circolazione della moneta, la cui irrilevanza è già stata mostrata. Talvolta significa semplicemente il mantenere delle scorte di denaro. Talvolta indica l’incremento della quantità di denaro detenuta. E frequentissimamente indica misteriosamente tutte e tre queste cose nello stesso tempo, e inoltre la lunghezza del periodo di tempo per il quale si detengono particolari monete o banconote.
Il concetto di stock contenuto in tutti questi suoi usi rende irrilevante lo stabilire in quale particolare modo sia effettivamente impiegato il termine “accumulazione”.

La mancanza di chiarezza sull’oggetto della discussione, se siano gli stock o i flussi, ha avuto una grande parte nell’alimentare discussioni inutili tra gli economisti nel passato. Il fondo salari è un esempio notevole di una espressione ambigua utilizzata per coprire questo tipo di confusione, e nella teoria moderna del capitale la stessa confusione costituisce un grandissimo ostacolo.
La proposizione I=S è una proposizione che riguarda i flussi e non ha nulla a che fare con gli stock.

[Seconda causa - Apparente libertà individuale e necessità sociale]

2. Un fallimento nel comprendere il paradosso per il quale, mentre ogni individuo considerato separatamente è libero di risparmiare di più o di meno di quello che investe, tutti gli individui considerati complessivamente non sono liberi di fare la stessa cosa, perché la somma dei loro investimenti I è sempre uguale alla somma dei loro risparmi S.
Come funziona questa costrizione? Se non vincola un individuo come può vincolare l’economia nel suo complesso, che è semplicemente la somma degli individui che la compongono?

Comprendere paradossi di questo tipo è lo speciale campo di applicazione degli economisti, e molti altri simili paradossi con il loro essere divenuti familiari hanno smesso di terrorizzare e sono divenuti parte del bagaglio di conoscenze proprio di tutti gli economisti.
Ogni nazione è libera di importare più beni di quanti non ne esporti o viceversa, ma a livello mondiale le esportazioni devono sempre essere uguali alle importazioni (più i costi di trasporto , etc.).
Ogni individuo può ritirare domattina tutti i suoi soldi dalla banca dove li ha depositati, ma non è possibile che lo facciano tutti gli individui insieme.
E abbiamo anche il paradosso opposto. Una banca, o un paese, non può espandere il suo credito indefinitamente, ma tutte le banche, o tutte le nazioni, agendo congiuntamente, possono farlo.
Affermare che quello che è vero per ogni individuo deve essere vero anche per tutti gli individui nel loro insieme è un semplice errore di composizione [fallacy of composition].

Ma come funziona questa costrizione, se non agisce sui singoli individui?
Questa domanda mette a disagio molti studenti.
La risposta è che l’individuo non è affatto così libero di decidere quanto risparmiare come si crede.
Ci sono pochissime persone che non vorrebbero avere un reddito più alto di quello che effettivamente hanno e così  poter risparmiare di più.
Ogni individuo è costretto a risparmiare quello che effettivamente risparmia dall’ammontare del suo reddito; e l’ammontare del suo reddito è determinato da quanto le altre persone spendono per i beni che egli produce [o per i servizi che rende].
Ogni individuo considera il suo reddito come dato e indipendente dalla sua spesa (dal momento che in una grande comunità le ripercussioni sul reddito di un qualsiasi individuo delle variazioni della sua spesa sono generalmente così piccole da essere legittimamente trascurate); e, non essendo interessato all’effetto che la sua spesa ha nel creare reddito per qualcun altro, un individuo non vede la connessione esistente tra il suo reddito e la sua spesa.
Questo però non significa affatto che questa connessione non esista per il singolo individuo.
Significa solo che l’individuo non se ne preoccupa, come se la sua spesa non contribuisse al reddito di altre persone (anche se egli potrebbe avere un vivo interesse nell’effetto che la spesa delle altre persone ha sul suo reddito).
L’economista ha una visione più ampia, deve preoccuparsi anche dei redditi di tutti gli individui, e così deve riconoscere che per la comunità considerata nel suo complesso l’eccesso dei redditi totali rispetto a quella parte dei redditi che è stata generata dalla spesa per consumi deve essere stato generato dalla spesa per investimenti (ovvero dalla spesa per fini diversi dal consumo), così che I=S.

Il fallimento nel prendere atto del paradosso della necessità sociale corrispondente alla apparente libertà individuale talvolta assume la forma del tentativo di estrarre dal totale del risparmio effettivo di un individuo (cioè dall’eccesso del suo reddito in un dato periodo di tempo rispetto al suo consumo nello stesso periodo di tempo) una parte che si identifica come realmente “libera” o “volontaria” o “ex ante” dichiarando che il resto del suo risparmio è “forzato” o “involontario” o “in realtà il risparmio di qualcun altro” (cioè il risparmio di chi ha investito producendo qualcosa che non può essere consumato) così che questa parte del risparmio non debba essere conteggiata.
Tutti questi tentativi necessariamente falliscono per l’impossibilità di identificare un periodo di tempo, che possa servire da riferimento, nel quale l’individuo possa essere considerato con un minimo di plausibilità libero di decidere quanto risparmiare o anche più libero rispetto al periodo preso in esame.
E’ molto più soddisfacente riconoscere che in un determinato universo tutto il risparmio, come ogni altra cosa, è “forzato” e che la libertà di scelta non è nient’altro che una confortevole illusione.

Collegata con questa difficoltà è l’assunzione inconsapevole – fatta dal punto di vista del singolo individuo e illegittimamente applicata alla società – che, quando la spesa varia, il reddito rimanga lo stesso.
Da questa assunzione deriverebbe che un incremento del risparmio significa sempre una riduzione del consumo 4 (e mai un incremento del reddito a parità di consumo).
L’assunzione della costanza del reddito è poi lasciata cadere e si consente alla diminuzione del consumo di provocare una diminuzione del reddito, così che ogni incremento del risparmio sembra necessariamente comportare una diminuzione del reddito. 5
Da questo tipo di argomentazioni seguono naturalmente un certo numero di sorprendenti risultati, come il fatto che se c’è un incremento del risparmio (al quale è dovuta la diminuzione della spesa) allora non c’è una variazione del risparmio (perché il reddito è diminuito tanto quanto il consumo). 6

[Terza causa - Il riferimento è a un dato periodo di tempo]

3. Una tendenza a considerare la spesa non come un flusso in un certo periodo di tempo coincidente con il flusso dei redditi nello stesso periodo di tempo, ma come un qualcosa che viene “fuori” dai redditi percepiti in quel periodo di tempo.
Il “risparmio” da questo punto di vista è il reddito percepito in un periodo di tempo meno la spesa compiuta “con” quel reddito.

Un possibile significato di questo è semplicemente che deve essere considerata solo quella spesa che è compiuta dopo che è stata percepita una parte del reddito, o tutto il reddito.
Se le ambiguità presenti in questa formulazione sono superate – come possono essere superate – con una qualche arbitraria assunzione sul quando si debba iniziare a rilevare le spese, si troverà, certamente, che il “risparmio S” così definito è maggiore dell’investimento I per un importo pari a tutte quelle spese che sono state compiute troppo presto nel periodo di tempo preso in esame per poter essere considerate come sostenute “con” il reddito percepito in quel periodo, e che quindi non sono state conteggiate.
Se questa procedura fosse portata alla sua logica conclusione, queste spese, non essendo sostenute “con il reddito”, dovrebbero essere considerate come una diminuzione del risparmio e sottratte del risparmio “S” così da ridurlo esattamente allo stesso valore dell’investimento I.
Tuttavia, normalmente la procedura non è portata alla sua logica conclusione ed è considerata come una dimostrazione della falsità della nostra proposizione che I=S.

Un altro significato dell’insistenza nel conteggiare C, I e S solo fintanto che essi “provengono” dal reddito percepito nel periodo di tempo considerato è che noi dobbiamo considerare solamente la spesa (o il risparmio) delle particolari monete e banconote ricevute come reddito nel periodo.
Così se qualcosa è acquistato con denaro ricevuto prima dell’inizio del periodo, allora non è una spesa compiuta “con” il reddito di quel periodo.
Con questa linea di analisi, Peter, che ha portato la sua ultima busta paga dal droghiere, ha speso tutto il suo reddito non risparmiando nulla, mentre Paul, che ha messo al sicuro la sua ultima busta paga e portato la busta paga del periodo precedente dal droghiere, ha invece risparmiato tutto il suo reddito.
A questo punto dell’argomentazione non è ancora necessario che I sia uguale a S.
Certamente, se questo metodo di calcolo fosse portato alla sua logica conclusione e la spesa delle monete non ricevute come reddito nel periodo fosse considerata come una diminuzione del risparmio di nuovo ci ritroveremmo con il nostro risultato aritmetico che I=S. Ma fare questo significherebbe distruggere completamente lo scopo di questo nuovo metodo di calcolo.

Legata all’obiezione contro il conteggiare come spesa quella che non è compiuta “con il reddito” del periodo considerato c’è l’obiezione contro il conteggiare come risparmio il reddito non speso con il quale una persona è sorpresa al termine di un dato periodo di tempo, anche se egli potrebbe non aver avuto assolutamente l’intenzione di risparmiarlo. 7
Questa sembra una cosa molto diversa dall’idea che una persona comune ha del risparmio, e ha suggerito a Robertson un’altra delle sue deliziose citazioni da “Alice nel paese delle meraviglie”. 8
Questo sarebbe giustificato se considerassimo risparmio particolari monete o banconote ricevute come reddito e non spese.
Però noi non siamo interessati a monete o banconote particolari, e quello che è compreso nel risparmio di un individuo, oltre al risparmio che ha utilizzato per acquistare attività diverse dal denaro, è l’eccesso del denaro che possiede al termine del periodo di tempo considerato rispetto al denaro che possedeva al suo inizio.
Se un uomo all’inizio del periodo di tempo considerato possedeva 20 sterline e alla fine dello stesso periodo di tempo si ritrova con 25 sterline, non è in contrasto con il senso comune dire che in questo periodo di tempo egli ha risparmiato 5 sterline, anche se la sua intenzione è quella di spendere tutte le 25 sterline (o anche di più) nel periodo di tempo successivo.
Certamente, se consideriamo periodi di tempo molto artificiali – ad esempio di dieci minuti ciascuno – le nostre definizioni possono anch’esse apparire artificiali. Dovremmo allora dire che nell’intervallo di tempo di dieci minuti nel quale un uomo riceve il suo stipendio settimanale egli lo risparmia (quasi) interamente, e che nei rimanenti intervalli di dieci minuti nei quali compie delle spese egli consuma i suoi risparmi. Però, se consideriamo degli intervalli di tempo ragionevoli, questo artificio scompare.

C’è, certamente, una idea valida alla base della nozione di considerare solo quelle spese che sono compiute dopo che è stato ricevuto o “con” il reddito. L’idea è che la spesa di un individuo sia determinata più dal reddito che egli ha percepito nel passato, che è noto ed è stato incassato, che dal reddito corrente, che è incerto.
Questo può essere vero fino a un certo punto, ma anche l’effetto del reddito che una persona può prevedere di percepire sulla sua spesa non deve essere ignorato.
Questa idea è importante, per i problemi economici reali che si hanno nel prevedere la spesa e i redditi, ed è un argomento che trova il suo posto nella teoria economica, molto più importante del nostro semplice esercizio di aritmetica; ma non può essere impiegato per dimostrare che due più due fa cinque.

[Quarta causa - I=S è una proposizione analitica]

4. Il fallimento nel rendersi conto che la proposizione I=S è solo una proposizione analitica, e non riguarda affatto il mondo reale.
Questa proposizione, presa come una affermazione sul mondo reale escogitata stando seduti in poltrona, è naturalmente considerata con sospetto.
La nostra proposizione non è basata sull’osservazione del mondo reale.
Essa quindi non può dirci nulla che noi già non sapessimo; e non può neppure rivelarsi sbagliata.
E’ una proposizione che discende direttamente ed è implicita nelle nostre definizioni di reddito, consumo, risparmio e investimento, e dal postulato che in ogni periodo di tempo il denaro pagato è uguale al denaro incassato.
E’ una proposizione dello stesso ordine della proposizione che afferma che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui suoi cateti.
E’ stata chiamata una ovvietà, spesso con un tono di disprezzo, che non ci dice nulla se non che qualcosa è uguale a se stesso.
In un certo senso questa accusa è giustificata.
Tutte le proposizioni della matematica sono nello stesso modo delle ovvietà, perché non ci dicono nulla che non sia implicato dalle definizioni basilari e dai postulati.
A una persona che sia in grado di vedere queste implicazioni nei postulati stessi, l’enunciazione delle proposizioni della matematica appare come nient’altro che una serie di ovvietà e una perdita di tempo, e io posso capire che ci siano dei matematici nati per i quali proposizioni come quelle di Pitagora e le tabelline delle moltiplicazioni siano assolutamente inutili.
L’utilità delle proposizioni che hanno una natura matematica di questo tipo è una funzione inversa della loro ovvietà.
La grande discussione cresciuta attorno alla proposizione, resa famosa da Keynes, che S=I, costituisce una abbondante prova del fatto che la sua verità non è istantaneamente ovvia per tutte le persone; e se, senza addurre nessun’altra nuova informazione, essa conduce queste persone a vederne delle implicazioni prima trascurate, allora essa serve allo scopo per il quale è stata introdotta.

[Quinta causa - I=S è una proposizione sempre vera]

5. Una convinzione che l’equilibrio di breve periodo, del quale si discute nell’analisi compiuta con la nostra proposizione, sia una condizione necessaria per la realizzazione dell’uguaglianza.
Questo in effetti sarebbe sospetto, perché la prova dell’uguaglianza – come ad esempio è stata data all’inizio di questo articolo – non menziona l’equilibrio.
Questo sembra accordarsi con la convinzione che il vero obiettivo di Keynes e dei suoi seguaci sia di mostrare che I=S e poi di ritirarsi dal mondo dell’economia.
L’uguaglianza di I e S non ha assolutamente nulla a che fare con un qualsiasi tipo di equilibrio.
Dell’equilibrio si discute come di una condizione per un qualche tipo di stabilità di Y e di C (e di conseguenza di I e S).
L’equazione I=S è sempre vera e serve come un controllo, perché qualunque risultato che contenga valori diversi per I e per S deve essere dovuto a un errore o logico o di calcolo.

II

Una prima lettura dell’articolo della Curtis dà l’impressione di un coraggioso attacco contro la proposizione che I=S.
Un esame più approfondito, tuttavia, mostra che la Curtis avanza tutte le obiezioni e le difficoltà discusse nella prima sezione di questo articolo (oltre ad alcune incomprensioni di minore rilevanza proprie dell’autrice) e che, volendo scartare la proposizione come una ovvietà, alla fine ella deve ammettere che essa è vera.
L’autrice fa questo a pagina 616 dove per la prima volta definisce il risparmio nello stesso modo di Keynes (S’’ nella sua notazione), dopo aver speso più di metà dell’articolo nel tentativo di mostrare che l’equazione non è vera per altre definizioni del risparmio (risparmio “sul reddito” come discusso nel punto I (3) più sopra, non portato alla sua logica conclusione; e un ibrido tra questo e uno stock di denaro come discusso nel punto I (1) più sopra – “ammontare totale non speso per il consumo nel periodo” a p.615).
Ci sono tuttavia due punti nel suo articolo che devo discutere più in profondità.

[II.1]
[Il reddito totale non può mai essere interamente speso]

Il principale scivolone della Curtis è nella sua affermazione che “una condizione nascosta è legata alle equazioni – cioè che tutto il reddito (e nulla da altre fonti) sia speso nel periodo di tempo considerato” (p.607). “La condizione, tuttavia, non può ritenersi soddisfatta uniformemente. Perché se così fosse, la spesa sarebbe costante e i redditi non cambierebbero mai.” (p.610).
Quest’affermazione appare inizialmente come una negazione del fatto che il reddito totale deve essere uguale alla spesa totale (Y =C+I). Tuttavia la Curtis mostra di non compiere un errore così banale.
In realtà, ella dice: “sebbene tutta la spesa divenga reddito, non tutto il reddito diviene necessariamente spesa” (p.608), e, nei suoi esempi numerici, che hanno lo scopo di mostrare la falsità della nostra proposizione, ella saggiamente evita ogni contraddizione interna indicando dappertutto il reddito (Y) come pari alla spesa totale (Y+C) nello stesso periodo di tempo. Ella non nega che i redditi e la spesa totale in ogni periodo di tempo devono essere uguali gli uni all’altra.
Quello che la Curtis nega è che i redditi devono essere uguali alla spesa compiuta “con” i redditi percepiti. Questa condizione, ella dice, “non può essere ritenuta uniformemente soddisfatta” (p.610); “il reddito percepito… può essere trasferito nel periodo di tempo considerato interamente, in parte, o per nulla, per divenire il reddito di altre persone.” (p.608). Su questo punto la Curtis non si dilunga di più.

E’ impossibile che tutti i redditi percepiti siano “trasferiti”, qualunque sia l’intervallo di tempo che si considera, perché l’atto del trasferire il reddito per una persona è l’atto del ricevere il reddito per l’altra persona, e qualunque sia l’istante nel quale il gong suoni per segnalare la fine del periodo che stiamo considerando, ci deve sempre essere qualcuno che è rimasto con un reddito non speso.
Nel gioco delle sedie musicali, i giocatori non possono battere l’orchestra, per quanto velocemente possano correre.
La condizione descritta dalla Curtis come una condizione che “non può essere considerata uniformemente soddisfatta” è una condizione che non può mai essere soddisfatta.
Fortunatamente non c’è alcuna necessità che questa condizione impossibile sia soddisfatta.
Il significato nascosto dietro la conclusione della Curtis che se questa (come abbiamo visto impossibile) condizione fosse soddisfatta “la spesa sarebbe costante e il reddito non varierebbe mai” sarà esaminato nella prossima sezione.

[II.2 ]
[Dato l’investimento, il desiderio di conseguire un risparmio maggiore messo in atto con  una riduzione della spesa conduce a una corrispondente diminuzione dei redditi. Consumi e redditi diminuiscono insieme finché i percettori dei redditi non si accontentano del risparmio corrispondente all’investimento.]

L’altro punto ha a che fare con una critica rivolta sia a Keynes che a me per il nostro parlare di “tentativi” di risparmiare e “desideri” di risparmiare quantità diverse dalla quantità totale degli investimenti.
La Curtis ha, ovviamente, assolutamente ragione nel suggerire (p.619) che “tentativi” e “desideri” di spendere in se stessi non hanno assolutamente alcun effetto su nulla, se non si tramutano in spesa corrente.
Non è però su di una base solida che ella applica lo stesso argomento al risparmio o, nel suo linguaggio, al “trattenimento del reddito”.
Il risparmio o il “trattenimento del reddito” non è una azione che ha lo stesso effetto e che può essere paragonata a un semplice “tentativo” o “desiderio” di risparmiare nello stesso modo in cui la spesa effettiva di denaro può essere confrontata con il semplice desiderio di spendere.
Le persone che ricevono un reddito sono libere di spendere per il consumo quel tanto o quel poco che desiderano (entro certi limiti, ovviamente) ma esse non sono, prese nel loro insieme, libere di risparmiare qualsiasi ammontare desiderino altrettanto semplicemente di come sono libere di spendere qualsiasi ammontare desiderino.
Questo perché il loro risparmio dipende non solo dalla loro spesa, ma anche dal loro reddito, perché il risparmio è la differenza tra il reddito e la spesa.
Con un dato tasso di investimento (sia esso deciso da altre persone o determinato da altre forze) i percettori di un reddito non possono decidere di risparmiare né di più né di meno di quanto è l’investimento.
Essi possono desiderare di risparmiare di più e possono anche tentare di tradurre in realtà questo desiderio spendendo realmente di meno.
Questo tuttavia ha l’effetto di diminuire i redditi esattamente dello stesso ammontare della riduzione della spesa, così che mentre c’è stata una reale diminuzione della spesa (e una corrispondente reale diminuzione dei redditi), l’incremento del risparmio è tuttavia rimasto un desiderio.
Nello stesso modo un desiderio di risparmiare meno può risultare in un incremento della spesa e in un incremento dei redditi, ma non in una qualsiasi diminuzione del risparmio – quella diminuzione del risparmio rimane sempre nel mondo dei desideri.

Si raggiunge un equilibrio, ma non traducendo in realtà il desiderio di un maggiore (o minore) risparmio, così soddisfacendo il desiderio e quindi vincendo le forze che si oppongono a quell’equilibrio desiderato.
L’equilibrio è raggiunto con quella diminuzione (o con quell’aumento) dei redditi e del consumo che è necessaria perché i percettori di reddito rinuncino ai loro desideri.
Se essi sono ostinati, tutto quello che ottengono è di rendere maggiore la caduta (o l’incremento) dei redditi necessaria per convincerli a cambiare idea.
Quando si rassegnano, abbiamo l’equilibrio.
La realtà non si è aggiustata per soddisfare i desideri; i desideri si sono aggiustati per adeguarsi alla realtà.

Equilibrio qui significa solo che non c’è più alcuna tendenza per il reddito Y e per il consumo C a muoversi insieme verso il basso (o verso l’alto).
Supporre, come fa la Curtis (p.620), che questo equilibrio sia necessario perché l’uguaglianza I=S sia valida è fraintendere completamente il punto.
Quella uguaglianza non ha nulla a che fare con l’equilibrio e non varia, per quanto violenti possano essere i movimenti verso l’equilibrio, se davvero lo si raggiungerà mai.
Perché il movimento parallelo del reddito Y e del consumo C non influisce in alcun modo sulla differenza tra di essi che è il risparmio S uguale all’investimento I.
L’esame di tutto questo movimento verso l’equilibrio non è affatto compiuto con l’obiettivo di dimostrare il nostro piccolo esercizio di aritmetica (anche se esso può essere riscontrato qui come ovunque) ma ha il fine di considerare l’effetto che hanno sull’economia i desideri degli individui che percepiscono un reddito di variare l’ammontare del loro risparmio – non con la telepatia ma attraverso i cambiamenti nella loro spesa effettiva che derivano da quei desideri.

III

Sembra esserci un punto che forse la Curtis tenta di sollevare che non dipende completamente da una incomprensione.
Quando ella dice che la definizione del risparmio data da Keynes (l’eccesso del reddito sulla spesa per beni di consumo) “non ha nulla a che fare con il risparmio inteso nel senso comune del trattenere una parte del denaro percepito non spendendolo in consumi” (p.616), può intendere che la spesa delle persone in un dato periodo di tempo è una funzione più stabile del reddito percepito in un certo tempo o in un certo periodo di tempo nel passato che del reddito percepito nello stesso periodo di tempo.
Gli individui considerano, ad esempio, il reddito della settimana scorsa quando devono decidere quanto spendere in questa settimana, e ritengono di risparmiare la differenza tra lo stipendio della settimana scorsa e quello che spendono in questa settimana.
Una interpretazione di questo tipo dà un senso alla impossibile condizione posta dalla Curtis “se… tutto il reddito del periodo (e non più di questo reddito) è speso e rigenera se stesso come reddito nel periodo” (p.610), e dà validità alla altrimenti infondata sua conclusione che “la spesa sarebbe costante e il reddito non varierebbe mai”.
Perché se la spesa (qui la spesa totale, C2+I2) nel periodo Due è uguale al reddito (Y1) nel periodo Uno, il reddito nel periodo Due (Y2=C2+I2) è uguale al reddito del periodo Uno (Y1) e il reddito non è variato.
Questo salvataggio dell’argomentazione della Curtis, tuttavia, comporta l’adozione di una tecnica di analisi in termini di periodi di tempo successivi, del tipo di quella sviluppata da Robertson e dagli autori svedesi.
Di questo non c’è traccia nell’articolo della Curtis, che dall’inizio alla fine considera solo “il periodo di tempo”.
La differenza tra gli autori che usano questa tecnica di analisi da un lato e Keynes e i suoi seguaci dall’altro è su di un piano ancora diverso. Sono piuttosto scettico a proposito dell’utilità dell’analisi in termini di periodi di tempo o “giorni” successivi, perché mi sembra che complichi e confonda le cose piuttosto che chiarirle. Ma questa è solo una mia sensazione a proposito di quale sia la strada più promettente (o forse più attrante!) per la ricerca. Posso facilmente sbagliarmi su questo e sono pronto ad accogliere qualsiasi risultato che coloro che apprezzano questa tecnica possano ottenere. In questo non c’è una questione di giusto o sbagliato o di errori logici commessi.

La Curtis tuttavia rivendica non una differenza della tecnica impiegata ma la correzione di un errore.
E’ quindi meglio mettere da parte il nostro tentativo di salvataggio e dire che la negazione, da parte della Curtis, della proposizione I=S è semplicemente il risultato di idee confuse.
Le sue varie definizioni del risparmio, se portate alla loro logica conclusione, tutte giungono alla stessa definizione data da Keynes, e l’equazione si applica nello stesso modo alle sue definizioni come a quella data da Keynes.


London School of Economics




1 “Is Money Saving Equal to Investment?” Quarterly Journal of Economics, August, 1937.
2 The General Theory of Employment Interest and Money.
3 ”Mr. Keynes’ “General Theory of Employment”, I.L.O. Review, October, 1936.
4 Ad esempio “un aumento del risparmio deve essere accompagnato da una diminuzione della spesa per beni di consumo” – Curtis, Quarterly Journal of Economics, August, 1937, p.617.
5 Ad esempio “un aumento del risparmio deprime il reddito” – Ibid., p.617
6 La Curtis sembra ritenere che anche l’opposto della proposizione citata nella nota 4 sia vero, e supporre che io abbia la stessa convinzione. Così dice che quando io parlo di una diminuzione del consumo devo intendere un incremento del risparmio (“altrimenti perché una riduzione del consumo totale e del reddito?” – Ibid., p.617). Questo le consente, quando si accorge del fatto che la contraddizione tra le due proposizioni citate conduce alle assurdità notate nel testo del mio articolo, di attribuire a me la stessa confusione.
7 Sono grato a H. W. Singer per aver attirato la mia attenzione su questa forma del terzo tipo delle difficoltà da me individuate – una importante forma che avevo trascurato.
8 Economic Journal, September, 1937.


[FINE]