Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

martedì 24 settembre 2013

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Il significato dell'euro









Rielaborazione del fotomontaggio di John Heartfield Der Sinn von Genf.



domenica 22 settembre 2013

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Talk show



Pierre-Joseph Proudhon

Che cos’è la proprietà?

1840, Traduzione di Alfredo Salsano, Editori Laterza, Bari 1967, p. 284.



Talk show

 

Un tempo la scienza, il pensiero, la parola erano confuse sotto una stessa denominazione; per designare un uomo forte di pensieri e di sapere, si diceva un uomo dalla parola pronta ed efficace.

Da molto tempo la parola è stata per astrazione separata dalla scienza e dalla ragione.


A poco a poco questa astrazione, come dicono i logici, si è realizzata nella società; cosicché noi oggi abbiamo degli scienziati di vario genere che non parlano e dei parolai che non sono dotti neanche nella scienza della parola.

Così un filosofo non è più uno scienziato, è un parolaio.
Un legislatore, un poeta un tempo erano degli uomini profondi e divini: oggi sono dei parolai.

Un parolaio è un campanello che al minimo tocco rende un suono interminabile; nel parolaio il flusso del discorso è sempre in ragione diretta della povertà del pensiero.

I parolai governano il mondo, ci stordiscono, c’importunano, ci derubano, ci succhiano il sangue e si fanno beffe di noi.

Quanto agli scienziati, essi tacciono: se vogliono dire qualcosa, si toglie loro la parola.

Che scrivano.


[FINE]


sabato 21 settembre 2013

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Uno vale uno



Beppe Grillo

Intervista a Peter Schneider del 19 settembre 2013  

Pubblicata da Die Zeit e da Repubblica qui.



Uno vale uno.                                                                                 Tutti gli altri son nessuno




Beppe Grillo riceve nella sua villa vicino a Cecina. Da buon padrone di casa concede al suo ospite molto tempo e lo invita a fare un bagno in mare. Lui non entra in acqua. Aspetta sulla spiaggia e subito è attorniato dai bagnanti. "Beppe, sei proprio tu? Sei un grande!".

Che dice Grillo, cade il governo in Italia?

"L'Italia è il paese in cui non si ha mai certezza di nulla.
Per capire la nostra Costituzione servono un esperto di sinistra e uno di destra, col risultato che non la si capisce mai.
Voglio dire: qui può succedere di tutto ma la gente non ne può più.
Mezza Italia affonda, le piccole imprese, i giovani senza lavoro.
Il nostro problema è questo: abbiamo 19 milioni di pensionati e quasi 5 milioni di impiegati statali; una parte di loro vota Berlusconi, un'altra il Pd.
Il 50% degli aventi diritto al voto non va a votare, e il 50% di quelli che votano non sanno cosa devono votare o cosa significa il loro voto.
Bisognerebbe fare un esame a chi va alle urne, chiedergli cos'è la Costituzione, di cosa tratta, quanti articoli ha, cos'è il codice penale, cos'è la libertà di stampa, cioè vedere se sanno quelle tre, quattro cose che gli danno il diritto di votare, se no il diritto di voto non ha più senso.
Credo che siamo il popolo più disinformato d'Europa".

Il suo M5S è stato il vincitore a sorpresa alle elezioni di febbraio. 
Lei avrebbe potuto entrare nel governo, ma non lo ha fatto: perché?

"Se si vuole parlare con un movimento si va dal suo leader.
Pier Luigi Bersani non lo ha mai fatto.
È stata una mancanza di rispetto, perché noi, quanto a voti, siamo il maggior movimento italiano.
Invece Bersani ha tentato di far passare dalla sua parte undici nostri senatori.
Il Pd non è guidato da Guglielmo Epifani, l'attuale segretario, bensì dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano".

Vuol dire che il presidente italiano è il capo segreto del Pd?

"Come molti altri Napolitano ha dato per scontato che il M5S non riuscisse a superare gli ostacoli burocratici per presentarsi alle elezioni.
Credeva che vincesse il Pd.
Quando il M5S ha preso il 25%, il Presidente e i suoi compagni sono corsi ai ripari.
Noi avevamo proposto come Presidente della Repubblica Stefano Rodotà, un uomo che è tra i padri fondatori del Pd.
Se il Pd avesse accettato la sua candidatura, sarebbe stato possibile un accordo".

Ma lei contava su una vittoria alle urne?

"All'inizio no.
Ma girando l'Italia sul mio camper e vedendo spesso in piazza diecimila persone ho intuito cosa poteva succedere.
Quello che è accaduto è stato un miracolo, e noi un miracolo lo abbiamo già realizzato: abbiamo fatto impallidire i partiti".

Crede davvero che con il suo movimento potrebbe governare da solo?

"Ma certo!
Noi presenteremo agli italiani già prima delle elezioni dieci-dodici candidati con un curriculum adeguato e il nostro programma, candidati che devono far parte del nostro governo.
Non li nominiamo lì per lì come gli altri, che fanno ministri veline, massoni, e membri delle sette segrete".

Mettiamo che nelle prossime elezioni lei arrivi al 30% ...

"Allora abbiamo vinto.
L'attuale legge elettorale concede la maggioranza a chi ottiene il maggior numero di voti.
Con il proporzionale invece per governare serve il 51%".

E lei preferisce il sistema proporzionale?

"Noi abbiamo già votato contro l'attuale legge elettorale in parlamento. Noi soli. Io voglio abrogarla e introdurre il
sistema proporzionale ma solo dopo aver vinto con il sistema attuale".

Con la legge elettorale attuale sarebbe quindi più semplice per lei andare al governo?

"Sì. È così".

Ma ciò nonostante resta del parere che sia una legge ingiusta?

"Totalmente ingiusta".

Con il 28 o il 30% potrebbe governare da solo?

"Certamente.
Ma non è il problema dell'ingovernabilità in Italia che mi preoccupa.
Quello che fa paura a tanti è l'effetto che avrebbe sull'Europa e il resto del mondo il nostro modello di governo.
Ho parlato con l'ambasciatore giapponese, francese, e addirittura con l'ambasciatore cinese.
È venuto a trovarmi due volte: la prima due ore, la seconda tre. Dalle nostre conversazioni ha tratto questo sunto: in Italia sta succedendo qualcosa di insolito, un movimento dal basso, senza soldi, usa la rete e stravolge la politica italiana e forse anche quella internazionale.
Questo movimento preoccupa moltissimo noi cinesi perché potrebbe destabilizzare anche il nostro sistema. Questo ha scritto. Ed è logico che sia preoccupato".

Che ruolo immagina per l'Italia in Europa?

"Se chiedi a un italiano dell'Europa, anche solo dei capi di governo, non vien fuori niente.
In Italia l'Europa viene identificata solo con due cose: spread e Merkel.
La Ue non ha più nulla a che fare con la sua base e non possiamo ritenerci soddisfatti di far parte di un progetto che non conosciamo.
Vogliamo ridiscuterlo".

È vero che siete per l'uscita dell'Italia dall'euro?

"No. 
Il problema non è più l'euro, il problema è il debito.
Noi paghiamo ogni anno 100 miliardi di euro per il nostro debito, e questo svuota qualunque progetto economico si persegua.
Proporrò di rinegoziare il debito italiano.
Gli eurobond mi sembrano un'idea che si concilia con l'Europa che immagino, cioè con l'idea della solidarietà.
La Grecia, che rappresenta solo il due per cento del PIL europeo, si sarebbe potuta salvare a costo zero.
Ma questa Europa non esiste.
Non abbiamo un sistema finanziario comune, una Borsa comune...".

... Un'opinione pubblica comune!

"Per questo il nostro movimento fa così paura. 
Perché se vincendo assumessimo la presidenza del parlamento europeo cambieremmo la politica europea. 
Per questo ci considerano così pericolosi".

Quale ruolo vede per la Germania in Europa?

"Noi siamo per l'Europa, ma questa Europa germanocentrica di oggi non mi piace.
Non ho nulla contro i tedeschi, ma la Germania di oggi non ha nulla a che fare con la filosofia dei grandi pensatori europei.”

Lei ha ottenuto molto e vuole andare ancora oltre. Da dove le viene tanta energia?

"È il segreto della vita condividere un sogno, un'idea con altra gente. Se la tua idea viene condivisa da molti, sei vicino al segreto della vita. Cosa c'è di più bello?".



[FINE]




Post scriptum, 25 settembre.
Il titolo "Uno vale uno. Tutti gli altri son nessuno" mi suonava bene. 
Ora mi sono accorto di averlo letto a suo tempo su goofynomics qui a proposito di questa notizia
:-)




venerdì 13 settembre 2013

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A futura memoria




Silvio Berlusconi

Dichiarazione del Presidente del Consiglio del 24 Ottobre 2011  

Pubblicata qui.



A futura memoria

 

“L’Italia ha già fatto e si appresta a completare quel che è nell’interesse nazionale ed europeo, e che corrisponde al suo senso di giustizia e di equità sociale.
Onoriamo il nostro debito pubblico puntualmente, abbiamo un avanzo primario più virtuoso di quello dei nostri partner, faremo il pareggio di bilancio nel 2013 e nessuno ha alcunché da temere dalla terza economia europea, e da questo straordinario paese fondatore che tiene cara la cooperazione sovranazionale almeno quanto la sua orgogliosa indipendenza.

Quanto alle turbolenze da debito sovrano e da crisi del sistema bancario, in particolare franco-tedesco, abbiamo posizioni ferme, che porteremo al prossimo vertice dell’Unione.
L’euro è l’unica moneta che non abbia alle spalle, come il dollaro o la sterlina o lo yen, un prestatore di ultima istanza disposto a difendere strutturalmente la sua credibilità di fronte all’aggressività dei mercati finanziari.
Questa situazione va corretta una volta per tutte, pena una crisi che sarebbe crisi comune di tutte le economie europee.

Stiamo facendo qualche timido passo avanti per un governo dell’area euro, ma resta ancora molto da fare.
La Germania di Angela Merkel è consapevole di questo, e il suo lavoro si avvarrà della nostra leale collaborazione.
Nessuno nell’Unione può autonominarsi commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei.
Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner.
D’altra parte l’insieme della classe dirigente italiana, se vuol essere considerata tale, invece che un coro di demagoghi, dovrebbe unirsi nello sforzo dello sviluppo e delle necessarie riforme strutturali sulle quali il governo ha preso e sta per prendere nuove decisioni di grande importanza.

L’Italia del lavoro e dell’impresa sa come stanno le cose, vuole un deciso impulso alla libertà e alla concorrenza, e non partecipa a giochi di potere, interni ed europei.

Sarebbe un bene se l’Italia dei partiti e delle fazioni si scrollasse di dosso le vecchie abitudini negative, e per una volta si mettesse a ragionare in sintonia con il paese reale abbandonando il pessimismo e il catastrofismo.

Da qui possono partire il risanamento e la ripresa”.







[FINE]


martedì 10 settembre 2013

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Le due destre




Luigi Cavallaro

Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre"

Pubblicato il 17 febbraio 2008 su Il manifesto.
Ripreso il 20 febbraio 2008 da sinistrainrete qui.    



Le due destre



Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre".
Vi si sosteneva che lo scenario politico italiano vedeva contrapporsi non una destra e una sinistra, bensì due destre, una tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra], l'altra populista e plebiscitaria [il centrodestra].
Che entrambe avevano l'obiettivo di offrire una sponda al processo di ristrutturazione in corso nel mondo produttivo, smantellando le regole e le garanzie su cui si era costruito il compromesso socialdemocratico della seconda metà del '900.
Che entrambe rimettevano al centro del discorso politico l'impresa, in pro della quale si prefiggevano privatizzazioni del patrimonio industriale pubblico, flessibilizzazione del mercato del lavoro e tagli delle prestazioni sociali (dalle pensioni alla sanità alla scuola).
E che, unite nei fini, esse si distinguevano nei mezzi, la destra tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra] puntando essenzialmente alla mobilitazione dei ceti medi riflessivi in un progetto di società individualizzata e competitiva, la destra populista e plebiscitaria [il centrodestra] rivolgendo invece la propria offerta politica alle fasce sociali che più avrebbero sofferto del crollo della domanda indotto dalla dissoluzione del precedente patto sociale, vale a dire la piccola e media impresa, i disoccupati, i precari, i sommersi (e mai salvati).

Si poteva eccepire che l'analisi non teneva conto di alcune oggettive contraddizioni tra gli interessi della grande e della piccola industria.
Che non considerava adeguatamente il ruolo frenante che, rispetto al disegno liberalizzatore, avrebbero giocato potenti interessi costituiti, taluni dei quali interni alla stessa area del lavoro dipendente (specie pubblico).
Che non sviscerava fino in fondo le premesse economiche su cui si era retto il compromesso sociale precedente, che rimandavano alla costituzione economica impostasi in tutto l'Occidente durante gli anni Trenta del secolo scorso.
Ma nell'insieme, si trattava di un'analisi corretta e lungimirante, tanto più se si pensa che, nel 1996, le uniche privatizzazioni di rilievo che si erano avute concernevano il sistema bancario e le "controriforme di struttura" avevano toccato la sanità e le pensioni, ma non ancora il mercato del lavoro.

Invece, dopo breve tempo, quell'analisi cadde nel dimenticatoio.
Troppo forte era il contrasto fra l'opinione che analisti, dirigenti ed elettori avevano del centrosinistra (e dei Ds in primis) e l'acuta ipotesi di Revelli secondo cui proprio il centrosinistra sarebbe stato l'hardware su cui avrebbe girato il software della destra tecnocratica ed elitaria: occorreva una capacità di straniamento analoga a quella che portò Copernico a intuire (e poi a dimostrare) che non era il sole che girava intorno alla terra, ma l'esatto contrario.
Proprio per ciò, la tesi di Revelli subì negli anni successivi uno slittamento concettuale e di campo affatto radicale: le "due destre" scomparvero e lasciarono il posto a due sinistre, l'una "moderata" e l'altra "radicale" (o "antagonista"), che competevano per l'egemonia della rappresentanza politica e sociale del mondo del lavoro.

La nouvelle vague delle "due sinistre" trovò seguito soprattutto nell'entourage politico e intellettuale della cosiddetta "sinistra radicale", che non poteva tollerare il dubbio di cercare insistentemente accordi di desistenza o programmatici con il proprio opposto, e certo giovò ai dirigenti della "sinistra moderata" per convincere il proprio elettorato che no, non c'era alcun "tradimento" della causa del mondo del lavoro e che si trattava solo di "modernizzare" il proprio patrimonio culturale per stare al passo coi nuovi tempi.
Sennonché, mentre il palcoscenico della politica si sforzava di rappresentare al meglio quel copione, il precipitare degli eventi s'incaricava di smentirne ogni possibile parvenza di plausibilità, specie in relazione a quell'inoppugnabile cartina di tornasole che è la politica economica.

In effetti, se ci chiediamo quale politica economica sia lecito attendersi da un governo di centrosinistra, la risposta è semplice: all'incirca, dovrebbe aumentare la pressione fiscale e la spesa sociale, adoperarsi per la diminuzione della povertà e della disoccupazione, imprimere una più rigida regolazione al mercato del lavoro, ridurre l'occupazione "atipica" e il lavoro nero, guardarsi bene dal privatizzare il patrimonio pubblico, promuovere la transizione tecnologica della nostra struttura produttiva e mantenere nei confronti dei conti dello stato un atteggiamento non più "rigoroso" di quello di Lord Keynes (per il quale preoccuparsi del bilancio invece che dei disoccupati era degno di un malato di mente).

Ebbene, tutti i dati dei dieci anni trascorsi - inclusi gli ultimi due - ci dicono non soltanto che i governi dell'Ulivo e dell'Unione non hanno fatto nulla del genere, ma che hanno fatto esattamente l'opposto.
Per dirla tutta, i dati evidenziano che il governo di centrodestra è stato nel complesso abbastanza "keynesiano", per quanto si possa certamente discutere dell'uso che ha fatto della spesa pubblica.
Ma questo non dovrebbe sorprendere chi appena ricordi in quale complessa temperie ideologica maturarono le prime realizzazioni del keynesismo (o più semplicemente quali siano i trascorsi ideologici di Giulio Tremonti).

Oggi la scelta del PD di sopprimere ogni riferimento alla "sinistra" e di "correre da solo" alle elezioni consente finalmente di far chiarezza.
Per riprendere la metafora, è come se tutti noi fossimo stati d'improvviso proiettati al di fuori del nostro sistema solare, in modo da vedere che non è il sole a girare intorno alla terra, ma appunto il contrario.
Non c'è nulla di polemico in queste considerazioni: la realtà è realtà, e solo chi ha interesse a nasconderla (o magari a non vederla) può scambiare la sua analisi con un attacco ad personam, come fece la Chiesa quando Galileo disse che Copernico aveva ragione.

Resta piuttosto da dire che la dimostrazione ex post factum della fondatezza dell'ipotesi delle "due destre", oltre a spiegare al meglio i pressanti rumors di "grande coalizione", costringe la sinistra a un'analoga operazione chiarificatrice.
Troppe volte essa ha invocato i rapporti di forza sbilanciati a favore della "sinistra moderata" (cioè della destra tecnocratica) per mascherare un proprio deficit programmatico e culturale.
Le difficoltà in cui si dibatte il processo di costruzione de "la Sinistra l'Arcobaleno" ne sono sintomo eloquente: senza una sintesi ordinatrice, non si possono tener insieme diritti sociali e pratiche di autogestione, eguaglianza di opportunità e differenze identitarie, lotta alla povertà ed ecologismo "radicale", programmazione economica e libertarismo.

Se il programma economico su cui le "due destre" stanno fondando la loro convergenza potesse nel medio periodo funzionare, più o meno come funzionò il "fascismo democristiano" negli anni 50, potremmo rinviare la questione a data da destinarsi.
Ma quel programma, come ha argomentato Emiliano Brancaccio su queste colonne, è costruito sull'argilla, e può franare al minimo scossone della congiuntura internazionale.
Dunque bisogna chiarirsi, qui e ora.



[FINE]



Il testo aggiunto è indicato tra parentesi quadrate.


domenica 8 settembre 2013

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8 settembre 2013












:-)

Un popolo, una Costituzione, una moneta.

sabato 7 settembre 2013

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Scopo dell’austerità è lo smantellamento dello Stato sociale




Paul Krugman

The Austerian Mask Slips

Pubblicato il 3 settembre 2013 sul blog “The Conscience of a Liberal”, qui.


Scopo dell’austerità è lo smantellamento dello Stato sociale

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]


Simon Wren-Lewis guarda alla Francia, e nota che si sta impegnando in una forte politica di austerità fiscale - molto più forte di quella che sarebbe giustificata dalla sua situazione macroeconomica.
Egli osserva, comunque, che la Francia ha eliminato il suo disavanzo primario strutturale principalmente innalzando le imposte piuttosto che riducendo la spesa pubblica.

Olli Rehn - che dovrebbe lodare i francesi per la loro responsabilità fiscale, per la loro volontà di sfidare la macroeconomia dei libri di testo adottando il Vangelo dell’austerità 1 - è furioso, e dichiara che il rigore fiscale deve essere attuato attraverso tagli della spesa pubblica.

Come nota Wren-Lewis, Rehn in questo modo si è spinto in modo assolutamente chiaro al di là dei suoi compiti: la Francia è una nazione sovrana, con un governo regolarmente eletto - e non sta, per altro, chiedendo alcun aiuto speciale alla Commissione Europea.
Dunque Rehn non ha proprio alcun motivo per dire alla Francia quanto ampia deve essere la sua spesa pubblica.

Ma la questione fondamentale qui, certamente, è che Rehn ha lasciato cadere la maschera.
La questione non è la responsabilità fiscale, non lo è mai stata.
La questione è sempre stata l’utilizzo strumentale di esagerazioni sui pericoli del debito pubblico per ottenere lo smantellamento dello Stato sociale. 2
Come osa la Francia prendere alla lettera le false preoccupazioni sul deficit pubblico, e rifiutarsi di rimodellare la sua società adottando i precetti liberisti?


[...]


[FINE]




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L'ossessione per le esportazioni stritola la Germania




Adam S. Posen

Germany Is Being Crushed by Its Export Obsession

Pubblicato il 3 settembre 2013 sul Financial Times.
Pubblicazione disponibile sul sito del Peterson Institute for International Economics, del quale Posen è il presidente, qui.


L'ossessione per le esportazioni stritola la Germania 

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Se il modello economico tedesco è il futuro dell’Europa dobbiamo tutti essere molto preoccupati.
Ma sembra proprio che sarà così.
La campagna, apparentemente di successo, per la rielezione di Angela Merkel, il cancelliere cristiano democratico, promette “il futuro della Germania in buone mani”.
Ancora di più, in altre parole, della stessa cura.
La risposta politica alla crisi della zona euro è probabile che rimanga un programma per indurre gli Stati che ne fanno parte a seguire la via tedesca alla competitività: la riduzione del costo del lavoro.
Non c’è un errore; proprio la riduzione del costo del lavoro è stata la base del successo delle esportazioni della Germania negli ultimi dodici anni, e le esportazioni hanno costituito la sua unica fonte di crescita in questo periodo.
Ma una nazione ricca non dovrebbe competere sulla base di salari bassi.
A partire dal 2003, la diminuzione del tasso di disoccupazione è stata la conseguenza della creazione di un grande numero di posti di lavoro con salari bassi e part-time o con orari flessibili, privi dei benefici e delle tutele garantite alle precedenti generazioni nel dopoguerra.
La Germania oggi ha la quota più elevata, nell’Europa occidentale, di lavoratori con salari inferiori al reddito nazionale mediano.
Gli incrementi medi dei salari nell’ultimo anno sono stati maggiori dell’inflazione e del tasso di crescita della produttività per la prima volta dopo più di un decennio di stagnazione.
Idealmente, un paese ricco dovrebbe rimanere competitivo attraverso la ricerca e sviluppo, e gli investimenti di capitale.
Invece, gli investimenti fissi lordi totali sono diminuiti continuamente in Germania, dal 24 per cento a meno del 18 per cento del PIL, a partire dal 1991.
La recente indagine economica dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) afferma che gli investimenti in Germania sono stati permanentemente ben al di sotto dei tassi delle altre principali economie del G-7 a partire dal 2001 (e non solamente a causa delle bolle della metà degli anni Duemila negli Stati Uniti e nel Regno Unito).
Anche il piccolo miracolo dell’occupazione e il boom delle esportazioni iniziati nel 2003 non sono stati tali da indurre gli imprenditori tedeschi ad incrementare gli investimenti - e gli investimenti in infrastrutture pubbliche sono stati ancora più scarsi.
L’altro modo con il quale una nazione ricca può rimanere in cima alla catena del valore aggiunto, e competere così sulla base della produttività, è l’investimento nel capitale umano - cioè istruire la sua forza lavoro.
In Canada, Francia, Giappone, Polonia, Spagna, Inghilterra e negli Stati Uniti, la quota di lavoratori giovani con un’istruzione avanzata è più alta che in Germania di almeno il 10% - nella maggior parte di essi del 20% o anche di più.
La Germania inoltre è una delle due uniche economie avanzate nelle quali la quota dei giovani tra i 25 e i 34 anni con i titoli di studio più elevati è la stessa, o è minore, che nelle generazioni precedenti (l’altra sono gli Stati Uniti).
La Germania non ha investito nel suo sistema universitario pubblico mentre il settore privato ha mantenuto ma non ampliato l’offerta dei suoi famosi apprendistati.
Il risultato è che la crescita della produttività in Germania è stata bassa nel confronto con i paesi ad essa pari.
La crescita del PIL per ora lavorata è stata del 25 per cento al di sotto della media dei paesi OCSE, sia risalendo fino alla metà degli anni Novanta che considerando solo l’ultimo decennio - e sia includendo che escludendo gli anni della bolla per quanto riguarda gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Con questi risultati per quanto riguarda la produttività, non meraviglia il fatto che le imprese tedesche competano solo per mezzo della riduzione dei salari relativi e spostando la produzione a est.
Gli esempi di aziende eccellenti nel settore Mittelstand - il settore delle imprese medie e delle aziende a conduzione familiare - e le loro esportazioni di manufatti verso la Cina non devono oscurare la realtà.
Come Lawrence Edwards e Robert Lawrence del Peterson Institute mostrano nel loro nuovo libro “Rising Tide”, la quota del settore manifatturiero sul totale dell’occupazione è diminuita dello stesso ammontare negli ultimi 40 anni, di circa il 15%, in quasi tutte le economie avanzate - inclusa la Germania.
Le uniche due economie ricche nelle quali l’occupazione nel settore manifatturiero è diminuita di meno sono l’Italia e il Giappone, nessuna delle quali è un motore della crescita.
Le ragioni di scambio per la produzione industriale - cioè il valore relativo dei prodotti industriali fabbricati da un paese confrontato con quello di tutte le sue importazioni di prodotti industriali - sono aumentate nello stesso modo sia per gli Stati Uniti che per la Germania a partire dal 1990.
Non c’è alcuna evidenza di un particolare successo della Germania nel settore manifatturiero.
Qualcuno potrebbe dire che la Germania sta semplicemente affrontando meglio la situazione nella quale si trovano le economie più ricche in un mondo globalizzato - in particolare per quanto riguarda la pressione al ribasso esercitata sui salari dei lavoratori poco qualificati in Occidente.
Certamente, la Germania non è da sola con la sua crescente disuguaglianza e la riluttanza delle sue imprese ad investire.
Una tale valutazione, tuttavia, ci rende ciechi di fronte ai vantaggi che deriverebbero da una agenda di riforme di diverso tipo, possibile sia per la Germania che per la zona euro.
Il sottoinvestimento della Germania è il risultato di profondi problemi strutturali dell’economia, che non sono colpa del suo mercato del lavoro ora più flessibile.
L’ossessione per le esportazioni ha distolto l’attenzione dei politici dalla ricapitalizzazione delle banche tedesche, dalla deregolamentazione del settore dei servizi e dall’incentivazione della riallocazione del capitale verso nuovi settori.
Inoltre, gli investimenti pubblici in infrastrutture, l'istruzione e lo sviluppo tecnologico potrebbero contribuire ad ampliare gli investimenti privati ​​profittevoli, il che porterebbe a una crescita con salari più alti.
La dipendenza dalla domanda estera ha privato i lavoratori tedeschi di quello che hanno guadagnato, e dovrebbero essere capaci di risparmiare e spendere.
Questo li mantiene dipendenti dalle esportazioni per la crescita, in un circolo vizioso che si auto-rinforza.
Ancora più importante, questo significa che i lavoratori tedeschi si muovono verso il basso lungo la catena del valore, in termini relativi, non verso l’alto.
Il perseguimento della stessa politica da parte dei partner commerciali europei della Germania rafforzerà queste pressioni.
La compressione dei salari non è una strategia di crescita che avrà successo per il futuro della Germania o dell’Europa.


[FINE]