sabato 19 ottobre 2013

La follia dell'euro



Anthony P. Thirlwall

The folly of the euro

The International Research Group on Employment - Window on Work, No.4, 1998. pp-4-9.
Pubblicazione disponibile qui.
Articolo segnalato il 7 dicembre 2011 da Alberto Bagnai su Goofynomics qui.


La follia dell’euro

[ Traduzione di Giorgio D.M. * ]



Il momento giusto per aderire all’euro è mai

Nel maggio del 1998 è stata raggiunta una decisione sugli undici stati che potranno aderire alla moneta unica. L’euro sarà introdotto dal 1 gennaio 1999, con tassi di cambio fissati irrevocabilmente, e verrà creato fisicamente nel 2002. Dal 1 gennaio del 2002 le banconote e le monete in euro incominceranno a circolare e dal 1 luglio le valute nazionali scompariranno.
Il Regno Unito ha deciso per il momento di non aderire, saggiamente dal mio punto di vista, ma il governo ha promesso di indire un referendum sulla questione quando riterrà giunto il momento giusto per aderire.
In realtà, non ha alcun senso economico dire “quando il momento è giusto” perché le nazioni non possono mai sapere quali condizioni economiche prevarranno nel futuro, e queste condizioni potranno richiedere l’uso di quelle armi della politica economica che sono proprio tutte quelle delle quali si stanno privando gli stati che stanno aderendo alla moneta unica e cioè: il tasso di cambio, la politica monetaria e la discrezionalità nella politica fiscale.


La follia dell’euro

Il fatto che gli stati che stanno aderendo all’euro abbiano soddisfatto certi criteri di convergenza è irrilevante per le loro future prospettive economiche.
I criteri di convergenza riguardanti l’inflazione, la stabilità del tasso di cambio, i tassi di interesse, il deficit di bilancio e il debito pubblico sono tutti di natura monetaria ma non c’è alcuna garanzia che la convergenza monetaria genererà una convergenza reale delle nazioni europee.
Al contrario, è probabile che sia vero proprio l’opposto, e cioè che la convergenza reale richieda una divergenza monetaria.
Le due principali variabili economiche che determinano i risultati economici di un paese e le condizioni di vita delle persone comuni sono il tasso di crescita del prodotto e il livello della disoccupazione.
Già oggi in Europa esistono grandi differenze tra i diversi paesi, nelle condizioni di vita e per quanto riguarda la disoccupazione e i tassi di crescita, differenze amplificate negli anni recenti proprio dalle politiche economiche attuate per soddisfare i criteri della convergenza monetaria.
Ora la situazione sarà resa molto più problematica dal fatto che le nazioni che adottano l’euro abbandoneranno tutti gli strumenti della politica economica, come se improvvisamente si ritenesse che questi strumenti abbiano perso tutta la loro rilevanza.
E’ questo che io chiamo “la follia dell’euro”.
Qual è dunque lo scopo di questa avventura?


Gli scopi economici e politici dell’euro, che non saranno raggiunti

Per alcuni, lo scopo della moneta unica è quello di promuovere ulteriormente il commercio in Europa riducendo i costi di transazione ed evitando le fluttuazioni dei tassi di cambio.
Si può dire subito che non c’è alcuna solida evidenza empirica che mostri che una molteplicità di monete e i tassi di cambio scoraggino il commercio.
Dove i mercati finanziari sono ben sviluppati, chi commercia internazionalmente può coprirsi contro i rischi derivanti dalle fluttuazioni delle valute.
Per più di quarant’anni dalla fine della guerra, e in particolare dalla firma del Trattato di Roma avvenuta nel 1957, il commercio in Europa è cresciuto ed è prosperato con molteplici valute, e continuerà a farlo anche senza l’euro.
In realtà, ora che le barriere commerciali tra i paesi dell’Unione Europea sono quasi del tutto scomparse, le principali determinanti del commercio saranno la maggiore specializzazione [produttiva] delle nazioni e la stessa crescita del prodotto.
Se la moneta unica creerà una zona in deflazione in Europa, come credo che accadrà, l’euro comprometterà il commercio.
L’euro potrebbe anche dare origine a sentimenti favorevoli al protezionismo.
Certo, ci saranno dei risparmi sui costi di transazione, ma essi saranno ben piccola cosa se confrontati con i potenziali costi derivanti per le nazioni dalla perdita della sovranità economica.

Se lo scopo della moneta unica è quello di completare il Programma per il Mercato Unico [Single Market Programme] iniziato nel 1986, di nuovo non c‘è alcuna ragione per cui la mancanza di una moneta unica dovrebbe impedire lo smantellamento delle barriere al commercio non tariffarie e la libera circolazione dei fattori della produzione, il lavoro e il capitale, se si ritiene che questa circolazione sia desiderabile.
La mobilità del lavoro dipende dalle opportunità di impiego, dai costi di trasporto, dalla disponibilità di abitazioni e dalle barriere linguistiche, non dal fatto che attraversando i confini nazionali si debba o no cambiare valuta
Le determinanti dei movimenti di capitali in una zona con una valuta unica sono più interessanti.
In assenza di opportunità speculative e di differenziali tra i tassi di interesse dei quali avvantaggiarsi, la mia supposizione è che ci sarà un dirottamento di capitali dai flussi interni all’Europa verso i flussi tra l’Europa e altre parti del mondo.
Questo porrà dei problemi per la stabilità dell’euro e, di conseguenza, per la politica del tasso di interesse necessaria per assicurare l’equilibrio esterno, se la nuova Banca Centrale Europea a capo della politica monetaria perseguirà un obiettivo legato al tasso di cambio.
Se il desiderio è quello di mantenere un euro forte, in parte come strumento di contrasto all’inflazione e in parte per competere con il dollaro come valuta di riserva, i tassi di interesse potrebbero crescere e rimanere elevati esacerbando i problemi interni di economie già depresse.

L’argomento secondo il quale la moneta unica è necessaria per il completamento del Mercato Unico è, di fatto, il rovesciamento della tradizionale teoria delle aree valutarie ottimali [optimum currency areas] secondo la quale una area valutaria ottimale dipende essa stessa dal grado di mobilità dei fattori.
Se la mobilità è bassa, in particolare se è bassa la mobilità del lavoro, una moneta unica non sarà ottimale perché potranno persistere grandi sacche di disoccupazione, riducendo il benessere.
[L’idea che una elevata mobilità dei fattori incrementi il benessere] A, a sua volta, presuppone che la mobilità dei fattori porti sempre a un equilibrio.
Io non credo affatto che sia così.
Quando la migrazione dei fattori della produzione ha luogo dalle regioni depresse alle regioni più prospere, essa tende a mettere in moto delle forze cumulative B che rinforzano lo [squilibrio] C iniziale.
La domanda cade nelle regioni depresse e si espande nelle regioni prospere.
Le imprese, quando decidono dove insediarsi, preferiscono i luoghi dove sono già insediate altre attività (per sfruttare le economie di scala esterne) e dove il mercato si espande più velocemente, a meno che non siano indotte ad andare altrove da sussidi generosi.
Questa è l’essenza dei problemi regionali in tutte le nazioni, e il motivo che giustifica l’adozione di politiche regionali.
Tutte le regioni, e le nazioni da questo punto di vista, funzionano in presenza di forti forze centrifughe che rafforzano il più forte e indeboliscono il più debole, arricchiscono il più ricco e impoveriscono (relativamente) il più povero.
Dunque, anche se la moneta unica fosse un aiuto per la mobilità dei fattori della produzione, la mobilità dei fattori della produzione non può essere considerata come una panacea per le regioni depresse o per le nazioni che non possono impiegare le armi della politica economica per proteggersi. D
Dopo decenni di emigrazione dal Nord al Sud della Gran Bretagna, e dal Sud al Nord dell’Italia, i divari tra le regioni in questi paesi sono rimasti notevoli.

Al di là del campo economico, per molti sostenitori della moneta unica lo scopo è politico: promuovere l’unione politica che alla fine condurrà agli Stati Uniti d’Europa, per eliminare una volta per tutte la prospettiva dei conflitti intestini che per secoli hanno afflitto le nazioni europee.
Questa era la visione dei padri fondatori della Comunità Europea, ed è indubbiamente il piano del Cancelliere Kohl e di altri pesi massimi in Europa che sono stati la forza trainante nei vari passaggi dell’Unione Economica e Monetaria.
Possiamo tutti unirci nel desiderio della pace e delle cooperazione in Europa, come possiamo farlo intorno alle virtù della maternità o per una torta di mele ma l’euro, come strada che conduce all’unione politica, anche se questa fosse desiderabile, è irta di pericoli, e potrebbe nello stesso modo portare alla disintegrazione economica e politica dell’Europa.
Le velleità politiche [political wishful thinking] spesso possiedono la cattiva abitudine di respingere il buon senso economico.
I pericoli sono molteplici.


I pericoli dell’euro
L’abolizione della democrazia e la privazione dei diritti civili

In primo luogo, la moneta unica è profondamente antidemocratica [undemocratic] perché la Banca Centrale Europea non è tenuta ad alcun tipo di responsabilità democratica [democratic accountability].
La politica monetaria sarà determinata da un gruppo di banchieri centrali non eletti che decideranno il tasso di interesse di breve periodo che si applicherà in tutta l’area della moneta unica senza riguardo per le circostanze specifiche di ciascuna nazione.
Il tasso di interesse di lungo periodo potrà variare in una certa misura secondo la rischiosità e le scadenze delle attività, ma per tutti gli intendimenti e gli scopi coloro che presteranno e coloro che prenderanno in prestito si troveranno ad affrontare lo stesso tasso di interesse indipendentemente dal fatto che siano a Madrid, a Monaco o a Milano.
Osservazioni casuali dello stato d’animo politico in Europa suggeriscono che questo non è quello che le persone vogliono.
I cittadini europei aspirano sempre di più a un maggiore controllo democratico sul loro personale destino economico, e comprensibilmente.
Gli scozzesi e i gallesi hanno recentemente votato per avere le loro proprie Assemblee; la Lega nell’Italia del Nord continua ad avere un forte supporto, e i disoccupati in Francia sono stanchi del fatto che le loro vite siano sottoposte alla dittatura della Bundesbank di Francoforte.
La moneta unica viene lanciata nonostante l’opposizione popolare di massa contro di essa in alcuni dei paesi coinvolti.
La disaffezione che nelle diverse regioni sarà causata dal deteriorarsi delle condizioni economiche, in paesi che non avranno più gli strumenti politici per affrontare le crisi economiche, può troppo facilmente trasformarsi in terreno fertile per il nazionalismo, per il fascismo e per il risentimento politico, come abbiamo visto nell’Europa degli anni Venti e Trenta.
Sembra che coloro che ignorano la storia siano condannati a riviverla.
Con tutti i mezzi si faccia in modo che vi sia un maggiore coordinamento delle politiche economiche in Europa, e che le nazioni europee si sforzino per una maggiore cooperazione in aree come la difesa, i diritti umani e le relazioni con gli altri paesi, ma non si costringano le nazioni in una camicia di forza sulla quale non esiste un controllo democratico e dalla quale non c’è via di uscita.
Questa è una ricetta per il disordine politico e la frammentazione dell’Europa.


L’abbandono degli strumenti della politica economica

In secondo luogo, la moneta unica significa l’abbandono di tutte quelle armi della politica economica che in passato hanno servito gli stati ragionevolmente bene.
Questo non ha alcun senso dal punto di vista economico, e quindi non ne ha neppure dal punto di vista politico.
E’ difficile immaginare come gli stati europei se la sarebbero cavata negli anni del dopoguerra senza un uso attivo delle politiche monetaria e fiscale e del tasso di cambio.
Ci sarebbe stata l’anarchia economica.
Consideriamo questi strumenti di politica economica uno alla volta.


La politica monetaria

Come è già stato detto, l’euro implica un solo tasso di interesse per tutti i paesi che l’adottano, indipendentemente dalle condizioni economiche delle singole nazioni.
Questa può essere descritta solo come l’economia dei folli [economics of the mad-house, l’economia del manicomio].
Il tasso di interesse è un’arma potente per influenzare il livello dell’attività economica, e in modo particolare il bilanciamento tra i consumi e gli investimenti.
Non c’è alcuna ragione per supporre che i cicli economici dei diversi paesi saranno mai così sincronizzati che tutte le nazioni richiedano nello stesso momento lo stesso tasso di interesse per regolare il livello dell’attività economica o il tasso di inflazione.
Affinché vi sia una convergenza reale, è anche necessario che alcuni paesi crescano più rapidamente di altri e questo significa incoraggiare gli investimenti a spese dei consumi.
Questo a sua volta richiede in alcuni paesi dei tassi di interesse più bassi che in altri paesi.
Il tasso di interesse deciso della Banca Centrale Europea sarà un qualche tasso di compromesso che non si adatterà ad alcuna nazione in particolare, fissato principalmente per raggiungere un tasso di inflazione a livello europeo, quando anche la scelta tra inflazione e disoccupazione è differente nei diversi paesi, così che il costo della stabilità dei prezzi in una nazione potrà essere due o tre volte più elevato che in un’altra, in termini di disoccupazione.
Gli individui all’interno degli stati nazionali aderenti alla moneta unica non potranno più decidere per loro stessi se desiderano che le loro economie si espandano o contraggano.
I loro redditi, i prezzi dei loro prodotti, i prezzi delle loro case e i tassi dei loro mutui saranno decisi per loro.
La privazione dei diritti civili conduce alla rivolta.


La politica fiscale

Poi c’è il tema della politica fiscale.
Anche la capacità di regolare le imposte e la spesa pubblica e di impiegare i deficit di bilancio sono potenti armi della politica economica.
Al vertice di Dublino del 1996, tuttavia, è stato firmato un patto di stabilità che impone agli stati aderenti alla moneta unica di non avere deficit di bilancio maggiori del 3% del PIL, pena una sanzione pari allo 0,2% del PIL incrementata dello 0,1% del PIL per ogni punto di deficit oltre il limite del 3%.
E’ allucinante l’analfabetismo economico dei funzionari che hanno potuto immaginare una formula così meccanica per punire una dissolutezza solo apparente.
Se il deficit stesso è il risultato di uno shock recessivo, il patto di stabilità aggraverà la deflazione, e la multa, in condizioni di questo tipo, renderà ancora maggiore il deficit.
Come minimo, i deficit ciclici devono essere distinti dai deficit strutturali, come già fa l’OCSE per gli stati.


Il tasso di cambio

Veniamo ora al tasso di cambio.
I tassi di cambio tra gli stati che adotteranno l’euro ovviamente scompariranno di colpo quando le valute nazionali cesseranno di avere valore legale, a partire dal 1 luglio 2002.
Per tutti gli scopi pratici tuttavia i tassi di cambio come strumento della politica economica scompariranno dal 1 gennaio 1999, quando i tassi di cambio saranno fissati in modo irrevocabile.
Con la scomparsa dei tassi di cambio tuttavia non scompariranno gli squilibri tra le esportazioni e le importazioni.
Quando le importazioni eccederanno le esportazioni il tasso di cambio non sarà più lì ad assorbire le tensioni, e i problemi della bilancia dei pagamenti non si manifesteranno attraverso una valuta che si deprezza, incoraggiando le esportazioni e scoraggiando le importazioni, ma attraverso una caduta della produzione e dell’occupazione e con una maggiore disoccupazione.
I problemi regionali interni alle nazioni, relativi a una bassa crescita e a un’elevata disoccupazione, sono essenzialmente problemi legati alla bilancia dei pagamenti che, per definizione, non possono essere alleviati da movimenti dei tassi di cambio perché le regioni all’interno di uno stato sono già parte di un’area con una moneta unica.
Nello stesso modo, una moneta unica europea trasformerà de facto le nazioni europee in regioni, altrettanto prive di difese quanto lo sono le regioni all’interno di uno stato, con lo svantaggio aggiuntivo che il bilancio europeo per affrontare le situazioni di deprivazione materiale e di disoccupazione è molto più ridotto in rapporto all’area che probabilmente sarà colpita di quanto lo siano i bilanci nazionali in rapporto ai problemi regionali interni a ciascun paese.
Non è stato previsto alcun meccanismo che automaticamente trasferisca e ridistribuisca risorse tra i diversi stati, come quello che ad esempio esiste tra gli Stati degli Stati Uniti d’America.
Sono disposto ad ammettere che il tasso di cambio ha spesso una utilità limitata nell’incrementare permanentemente il tasso di crescita di un paese, a meno che non si riesca a mettere in atto un continuo deprezzamento del tasso di cambio reale, ma esso rimane una inestimabile arma per combattere gli shock interni ed esterni, o una competitività che si deteriori gradualmente.
Chi può sapere da dove verranno in futuro gli shock, e come colpiranno in modo diversificato i differenti paesi, come sicuramente accadrà?
Le conseguenze dell’adozione di una moneta unica (equivalente a tassi di cambio fissi) di fronte a un deterioramento della competitività possono danneggiare seriamente l’economia reale, comportando una perdita di produzione e di posti di lavoro.
 

Verso la deflazione

L’Europa per un periodo lungo almeno quanto l’ultimo decennio è già stata una delle regioni del mondo più stagnanti, con una crescita del prodotto che in media non è stata maggiore del 2% all’anno e una disoccupazione che in media è stata maggiore del 10% della forza lavoro.
Il perseguimento della moneta unica è il principale responsabile.
La stagnazione continuerà con il lancio dell’euro.
E’ probabile che il tasso di interesse sarà fissato in modo tale da mantenere il tasso di inflazione al di sotto del 2%, senza riguardo per il livello della disoccupazione, e per mantenere un tasso di cambio forte così che l’euro possa competere con il dollaro come valuta di riserva, cosa che potrebbe avvenire perché il commercio dell’Unione Europea conta per più del 20% del commercio mondiale e le sue riserve valutarie sono pari a 350 miliardi di dollari (a fronte dei 50 miliardi di dollari di riserve valutarie degli Stati Uniti).
Il patto di stabilità fiscale, se verrà rispettato, rafforzerà le pressioni verso la deflazione.
I patti e le condizioni che governano l’Unione Economica e Monetaria non prevedono alcuna salvaguardia contro politiche deflazionistiche, come quelle dei governi che portano in avanzo il bilancio pubblico o che adottano altre politiche che conducono alla diminuzione dei prezzi o all’aumento della disoccupazione. E
Le “regole del gioco” sono asimmetriche, distorte contro l’inflazione, come in effetti lo sono a livello internazionale con il Fondo Monetario Internazionale che penalizza le nazioni che hanno un deficit della bilancia dei pagamenti ma non quelle che hanno una bilancia dei pagamenti in surplus, imponendo perciò una distorsione deflazionistica all’economia mondiale.
Gli euro-scettici per la maggior parte non sono keynesiani, ma potrebbero anch’essi essere d’accordo con la famosa frase di Keynes secondo la quale “in un mondo impoverito, provocare la disoccupazione è peggio che deludere chi percepisce una rendita finanziaria”. F
Nelle condizioni attualmente prevalenti in Europa è difficile dissentire da questa affermazione.


Il fallimento dell’euro è inevitabile

Il futuro economico che ho dipinto per l’area dei paesi che adotteranno l’euro è tetro, ma io non vedo alcuna possibilità di redenzione.
Ci sarà solo qualche piccolo risparmio per le imprese e i turisti che potranno evitare di cambiare valuta.
I rischi politici ed economici sono enormi, a fronte di vantaggi così insignificanti.
Le regioni e le nazioni hanno la necessità, per quanto è possibile, di politiche studiate per i loro bisogni, adatte alle loro particolari esigenze.
Questa è la direzione nella quale la politica economica dovrebbe muoversi per il successo economico e per una maggiore armonia dell’Europa, non nella direzione opposta di imporre una politica economica unica che dovrebbe andare bene per tutti.
Non funzionerà e potrebbe provocare dei danni irreparabili alla causa dell’integrazione europea.



Il Regno Unito deve evitare questa rischiosa avventura

Per quanto riguarda il Regno Unito, i benefici promessi di una sempre più stretta unione con il resto dell’Europa sono sempre stati esagerati.
Quando nel 1975 si tenne il referendum sul Mercato Comune per decidere se il Regno Unito avrebbe dovuto accettare la revisione dei termini dell’adesione, io (insieme ad altri sette milioni) votai contro, non perché io sia un anti-europeo in un senso strettamente nazionalistico, ma perché pensavo che i nuovi termini avrebbero ancora danneggiato gli interessi di lungo periodo della nazione.
Credo che lo scetticismo fosse giustificato.
E’ molto difficile dimostrare che il Regno Unito abbia tratto benefici significativi dalla piena adesione alla Comunità Europea.
I benefici commerciali avrebbero potuto essere ottenuti con lo status di paese associato senza l’adesione alla Politica Agricola Comune e agli altri accordi che hanno reso il Regno Unito uno dei maggiori contribuenti al bilancio della Commissione Europea.
Fu per la massima parte merito di Margaret Thatcher l’aver rinegoziato i termini del nostro contributo al bilancio, ma non si valuta ancora abbastanza il fatto che ogni famiglia di quattro persone del Regno Unito paga, in media, mille sterline all’anno in più per la spesa alimentare rispetto a quanto spenderebbe se gli stessi prodotti fossero acquistati sul libero mercato.
Anche per quanto riguarda il commercio, i nostri partner europei hanno penetrato il mercato del Regno Unito con molto più successo di quanto i produttori britannici abbiano penetrato il mercato europeo con la conseguenza che si sono verificati massicci deficit commerciali che hanno contribuito significativamente alla deindustrializzazione del Regno Unito.
Il tasso di crescita del prodotto dall’adesione alla Comunità Europea avvenuta nel 1973 non è stato quel miracolo che era stato promesso nei diversi Libri Bianchi pubblicati dal governo prima dell’entrata.
Il tasso di crescita medio dal 1973 non è stato più del 2% all’anno, più basso che nel periodo dal 1950 al 1973, e diminuito, ovviamente, dalla profonda recessione che si verificò tra il 1990 e il 1992 come conseguenza dell’aver rinchiuso la sterlina nel Sistema Monetario Europeo a una tasso di cambio non competitivo.
Questo stesso fatto dovrebbe costituire un salutare avvertimento per coloro che premono affinché la Gran Bretagna abbandoni la sterlina per adottare l’euro il prima possibile.


Al di fuori dei confini dall’area della moneta unica, la Gran Bretagna ha meravigliose opportunità di divenire la storia di successo economico dell’Europa.
Non c’è alcun motivo per supporre che il commercio, gli investimenti dall’estero o la City di Londra subirebbero conseguenze negative dal rimanere fuori.
Al World Economic Forum tenutosi a Davos, in Svizzera, nel 1998 tutti i paesi del mondo, inclusi quelli europei, hanno indicato con ammirazione i risultati in termini di crescita delle economie britannica e statunitense nel corso degli ultimi anni.
Quello che conta soprattutto per i risultati economici delle nazioni è una politica macroeconomica sensata, sostenuta da un solido fondamento microeconomico.
Una conduzione sbagliata della politica macroeconomica può facilmente impedire che si realizzino i benefici di qualsiasi riforma microeconomica.
Questo non fu mai così evidente come nel Regno Unito nei primi anni ’80 quando politiche macroeconomiche totalmente sbagliate annullarono completamente i potenziali benefici di alcune riforme microeconomiche molto sensate, producendo più di tre milioni e mezzo di disoccupati nel 1985.
Questo deve costituire un avvertimento per l’Unione Europea, nella quale la disoccupazione in media è al di sopra del 10%, che nessuna riforma del mercato del lavoro, per quanto ampia sia e per quanto riduca le imperfezioni del mercato, creerà posti di lavoro se c’è una domanda di lavoro inadeguata nel sistema economico.
L’Europa ha la necessità urgente di una strategia di crescita che non sarà prodotta dall’euro.

Se la Gran Bretagna mantiene il controllo del suo tasso di cambio, ed è capace di decidere il suo tasso di interesse e la sua politica fiscale, ha la prospettiva di continuare ad ottenere i risultati economici degli ultimi quattro anni.
Aderire all’euro, e perdere il controllo delle armi della politica economica, a mio parere non avrebbe alcuna utilità pratica.
Sarebbe sgarbato augurare il fallimento all’euro ma temo che provocherà gravi danni per le economie europee e per il nobile obiettivo di una maggiore armonia e cooperazione in Europa.
Il governo del Regno Unito farebbe bene ad evitare questa rischiosa avventura, anche ben oltre la scadenza del mandato dell’attuale parlamento.



[FINE]



* Note:
Ho suddiviso l’articolo in paragrafi introducendo i titoli indicati in rosso.
A Credo di interpretare correttamente così un “this” estremamente sintetico, riferito al “welfare” della frase precedente.
B Qui il riferimento implicito è chiaramente a Gunnar Myrdal, si veda ad esempio il libro del 1957 “Economic Theory and Under-developed Regions”, tradotto in italiano con il titolo “Teoria economica e paesi sottosviluppati”. Il terzo capitolo del libro, "The Drift towards Regional Economic Inequalities in a Country", in inglese, è disponibile qui.
C Il testo dice “equilibrio” ma mi sembra un evidente refuso, dato che si discute di una condizione di disequilibrio.
D “Il diritto di proteggersi contro il contagio della depressione”, scriveva Beveridge nell’introduzione a “La piena occupazione in una società libera”.
E Qui il riferimento implicito è ovviamente alla Germania e alla politica economica ispirata all’”ordoliberismo” da essa adottata dopo la fine della seconda guerra mondiale. Oltre ai due articoli già tradotti qui di Bibow, "Oltre l'Europa tedesca: trasferimenti fiscali o rottura dell'euro", e di Posen, "L'ossessione per le esportazioni stritola la Germania", si legga il post di Alberto Bagnai su Goofynomics “Cosa sapete della slealtà?”.
F Citazione dall’articolo di Keynes del 1923 intitolato “Social Consequences of Changes in the Value of Money”, ripubblicato in “Essays in Persuasion”. Il testo in inglese è disponibile qui.



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