Alberto Bagnai
L’uscita dall’euro prossima ventura
Il
manifesto, 22 agosto 2011.
Disponibile
inizialmente sul sito de Il manifesto, qui,
poi cancellato.
Ripubblicato e
commentato dall’Autore il 29 novembre 2011 sul blog Goofynomics, qui.
Il teorema della piscina
Un anno fa, discorrendo
con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto
orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli
interessi del suo elettorato?
Una domanda simile a
quella di Rossanda.
Aristide, economista di
sinistra, mi raggelò:
“caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono
noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non
potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare
costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro.
Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire,
mettendoli in una impasse dalla quale
non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti
verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.”
Insomma: “il popolo non
sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo
contro la sua volontà”.
Ovvero: so che non sai
nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida
liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare.
Decisione che prenderai
dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo
in acqua.
Bella democrazia in un
intellettuale di sinistra!
Questo agghiacciante
paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe
esserlo.
“Bello è di un regno come
che sia l’acquisto”, dice re Desiderio.
Il cattolico Prodi
l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui.
Proseguendo, avrebbe
visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik
finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi.
La nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i
problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non
si analizza la reale natura delle tensioni attuali.
Il debito pubblico non c’entra.
Sgomenta l’unanimità con
la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico.
Che lo faccia la destra
non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato
nell’economia è il fulcro della “controriforma”
seguita al crollo del muro.
Questo a Rossanda è
chiaro.
Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la
sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito
pubblico (il 60% di cui parla lei).
Il dibattito sulla
“convergenza fiscale” è nato dopo
Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate.
Maastricht è un manifesto
ideologico: meno Stato (ergo più
mercato).
Ma perché qui (cioè a
sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione?
Questo Rossanda non lo
nota e non se lo chiede.
Se il problema fosse il
debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al
110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania
(66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori.
Ma la crisi è esplosa
prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo
(65%), e solo dopo Grecia e Italia.
Cosa accomuna questi
paesi?
Non il debito pubblico
(minimo nei primi paesi colpiti,
altissimo negli ultimi), ma
l’inflazione.
Già nel 2006 la Bce
indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava
convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”.
I Pigs erano un club a
parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo
sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione
non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).
Inflazione e debito estero.
Se in X i prezzi crescono
più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre
più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti.
La valuta di X,
necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende,
cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo
squilibrio si allevia.
Effetti uguali e contrari
si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza.
Ma se X è legato ai suoi
partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire
l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi
partner in surplus inflazionano.
Nella visione keynesiana
i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus
e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se
nessuno è in deficit).
Ai tagli nel paese in
deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus.
Ma la visione prevalente
è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono
“buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso
i buoni.
E se, come i Pigs, non ci
riescono?
Le entrate da
esportazioni diminuiscono e ci si indebita con l’estero per finanziare le
proprie importazioni.
I paesi a inflazione più
alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007:
Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62).
Con il debito crescono
gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare
gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.
Lo spettro del 1992.
E l’Italia?
Dice Rossanda: “il nostro
indebitamento è soprattutto all’interno”.
Non è più vero.
Pensate veramente che ai
mercati interessi con chi va a letto Berlusconi?
Pensate che si
preoccupino perché il debito pubblico è “alto”?
Ma il nostro debito
pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno
folcloristici, sono stati spesso più instabili.
Non è questo che
preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il
nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come
nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero,
che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65%
delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata).
Cui Prodest?
Calata nell’asimmetria
ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista
(inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio
diventa strumento di lotta di classe.
Se il cambio è fisso, il
peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o
riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non
dipende da noi) o aumentando la produttività.
Precarietà e riduzioni
dei salari sono dietro l’angolo.
La sinistra che vuole
l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena.
Chi non deflaziona
accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per
evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni,
trasformandoli in debiti pubblici.
Alla privatizzazione dei
profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter
incolpare a posteriori i bilanci
pubblici.
La scelta non è se
deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno.
Una scelta ristretta, ma
solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo
squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla
causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando).
Alla domanda di Rossanda
“non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non
c’è stato nessun errore.
Lo scopo che si voleva
raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà
“di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi
“tecnici” a guida democristiana accomodatevi.
Lo dice il manuale di
Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati.
Più Europa?
Secondo la teoria
economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi
sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da
quelli in espansione a quelli in recessione.
Una “soluzione” che
interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli
squilibri esterni).
È il famoso “più Europa”.
Un esempio: festeggiamo
quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del
nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare?
Ma 150 anni dopo la
convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un
indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè
sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto
d’Italia).
Dopo cinquanta anni di
integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie
verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area
euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania.
L’integrazione fiscale
non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri,
soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con
il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”.
Siano greci, turchi, o
ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri.
Deutschland über alles.
Le soluzioni “a valle”
dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche
quelle “a monte”.
La convivenza con l’euro
richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista.
Bisognerebbe prevedere
simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di
inflazione.
Il coordinamento del
quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo.
Ma il peso dei paesi
“virtuosi” lo impedirà.
Perché l’euro è l’esito
di due processi storici.
Rossanda vede il primo
(il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new
deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per
dotarsi di un mercato di sbocco.
Ci si estasia (a destra e
a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che
cresce intercettando la domanda dei
paesi emergenti.
Ma i dati che dicono? Dal
1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui
156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24).
I giornali dicono che la
Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita.
I dati dicono il
contrario.
La domanda dei paesi
europei, drogata dal cambio fisso,
sostiene la crescita tedesca.
E la Germania non
rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando.
Ma perché i governi
“periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania?
Lo dice il manuale di
Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica”
che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili,
cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci
siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?).
Il fine (della lotta di
classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania).
La svalutazione rende ciechi.
È un film già visto.
Ricordate lo Sme
“credibile”?
Dal 1987 al 1991 i cambi
europei rimasero fissi.
In Italia l’inflazione
salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non
domavano l’inflazione?).
La Germania viaggiava su
una media del 2%.
La competitività italiana
diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991
l’Italia dovette svalutare.
Svalutazione!
Provate a dire questa
parola a un intellettuale di sinistra.
Arrossirà di sdegnato
pudore virginale.
Non è colpa sua.
Da decenni lo bombardano
con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno
sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo.
Non è strano che un
sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere
abbastanza una bugia perché diventi una verità.
Ma cosa accadde dopo il 1992?
L’inflazione scese di
mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94.
Il rapporto debito
estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil).
La bolletta energetica
migliorò (da -1.1 a -1.0 punti).
Dopo uno shock iniziale,
l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001.
La lezioncina sui danni
della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non
ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa.
Irreversibile?
Ma tutto questo Rossanda
non lo sa.
Sa che la svalutazione
non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste,
quindi...
Quindi cosa?
Veramente Rossanda è così
ingenua da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un
espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di
una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta
umana e politica (e come tale reversibile)?
Certo, la svalutazione
renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera.
Ma porterebbe da una
situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo
risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992.
Se non lo fossero,
rimarrebbe la possibilità del default.
Prodi vuol far sostenere
una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”?
Bene: il modo più diretto
per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della
Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il
default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo.
È già successo e
succederà.
“I mercati ci puniranno,
finiremo stritolati!”.
Altra idiozia.
Per decenni l’Italia è
cresciuta senza ricorrere al risparmio estero.
È l’euro che, stritolando
i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a
indebitarsi con l’estero.
Il risparmio nazionale
lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora
fino a toccare il 16% del reddito.
Nello stesso periodo le
passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%.
Rimuoviamo l’euro, e
l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere
bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani.
Non faccia la sinistra ciò che fa la destra.
Dall’euro usciremo,
perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta.
Sta alla sinistra
rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata.
Non sto parlando delle
prossime elezioni.
Berlusconi se ne andrà:
dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale
deve ora lavorare a pieno regime.
E gli schizzi di sangue stonano meno sul
grembiule rosso.
Sarà ancora una volta concesso
alla sinistra della Realpolitik di
gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica
economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua
dice di essere di sinistra.
Ma gli elettori
cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo
dall’euro.
Cara Rossanda, gli operai
non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo.
“Peccato e vergogna non
restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen.
Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si
tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di
ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta
fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo
con il quale è stata imposta.
Si espongono così alle
incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di
democrazia più compiuta, e presto anche da noi.
Perché le politiche di
destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra.
Ma mi rendo conto che in
un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il
lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di
sinistra.
Questo spiega tanta
unanimità di vedute.
[FINE]