Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

lunedì 24 febbraio 2014

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La sofferenza di chi?



Una lettrice, dopo aver letto l'intervista rilasciata da Pier Carlo Padoan al Wall Street Journal, nella quale il capo economista dell'OCSE affermava che:


"Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati"


ha posto, nel suo blog, la seguente domanda rivolta al neo ministro dell'economia:


"Mister Padoan, da 1 a 10, quanto ha sofferto lei?
Intendo, in che modo lei ha contribuito a produrre "risultati" soffrendo?"


Ottima domanda, che sicuramente nessun giornalista gli rivolgerà mai.


Mi ha ricordato questa foto dei tempi in cui Monti cercava di dimostrare di poter ancora passeggiare per le vie del centro di Milano, circondato dalla scorta ovviamente:









Bertolt Brecht

Breviario tedesco

1937-1938.
Bertolt Brecht, Poesie e Canzoni, A cura di Ruth Leiser e Franco Fortini,
Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p.108.



QUELLI CHE PORTANO VIA LA CARNE DALLE TAVOLE
insegnano ad accontentarsi.

Coloro ai quali il dono è destinato
esigono spirito di sacrificio.

I ben pasciuti parlano agli affamati
dei grandi tempi che verranno.

Quelli che portano all’abisso la nazione
affermano che governare è troppo difficile
per l’uomo qualsiasi.



[FINE]





domenica 23 febbraio 2014

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La follia convenzionale di un fanatico dell'austerità




Paul Krugman

Conventional Madness

The Conscience of a Liberal, 27 maggio 2010.
Pubblicazione disponibile qui



Follia convenzionale

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Ho avuto la possibilità di leggere l’ultimo Economic Outlook dell’OCSE [Volume 2010].
E’ un documento terrificante.

Perché?
Non perché offra delle prospettive spiacevoli, anche se lo fa - sebbene l’OCSE abbia rivisto al rialzo le sue proiezioni della crescita economica, prevede ancora una disoccupazione estremamente elevata per i prossimi anni.

No, quello che è terrificante è la follia assoluta, che ora passa per opinione rispettabile.

Ecco quello che dice l’OCSE sulla politica monetaria degli Stati Uniti:

Negli Stati Uniti, dove alcune misure delle aspettative di inflazione a lungo termine indicano un aumento e il mercato del lavoro si è stabilizzato prima del previsto, l’inizio della normalizzazione [con la quale intendono il rialzo dei tassi di interesse, nota di Krugman] non deve essere posposto oltre l’ultimo trimestre del 2010.
I tassi di interesse ufficiali dovranno essere ben al di sopra della metà della distanza che li separa dall’essere neutrali entro la fine del 2011, ma il percorso della convergenza verso una piena normalizzazione dovrebbe accelerare se le aspettative di inflazione a lungo termine dovessero aumentare ulteriormente.

Così l’OCSE vuole che la Fed alzi i tassi di interesse presto - nei prossimi sei mesi o prima - perché... be’, possiamo guardare alle previsioni della stessa OCSE.
Secondo le sue previsioni, nel quarto trimestre del 2011 - tra un anno e mezzo - il tasso di disoccupazione sarà ancora pari all’8,4 per cento. Invece l’inflazione sarà all’1 per cento -  ben al di sotto dell’obiettivo implicito della Fed del 2 per cento.
La mia opinione è che l’inflazione sarà più bassa di così - l’inflazione core è già al di sotto dell’1 per cento.
Ma anche ammettendo che sia corretta la previsione dell’OCSE, quale possibile ragione potrebbe esserci per una politica monetaria restrittiva ora, quando l’economia avrà ancora un ampio eccesso di capacità produttiva e l’inflazione sarà troppo bassa alla fine del prossimo anno?

L’unica spiegazione sembra essere all’inizio del passaggio citato: alcune persone, afferma il rapporto, incominciano a pensare che potrebbe esserci inflazione, così, anche se si sbagliano, secondo le nostre previsioni, vedete, dobbiamo scongiurare questa minaccia, che non esiste, e rallentare la ripresa economica... che cosa?

Quello che è così terrificante è che l’OCSE in pratica definisce la saggezza convenzionale; è un posto dove si usano i paragrafi numerati, dove un comitato deve controfirmare ogni cosa, dove si tengono sotto stretto controllo le sfumature.
Così quello che ricaviamo da questo rapporto è che tra le persone assennate l’idea che si debba sabotare la ripresa economica per calmare quelli che pensano che potrebbe esserci inflazione, anche se in effetti non c’è questa possibilità, è diventata una opinione comune, saggezza convenzionale - così convenzionale che è trattata come se fosse auto-evidente

Questo è davvero, davvero, male.



[FINE]




Paul Hannon

OECD Fears Euro-Zone May Snatch Defeat From Jaws of Victory

Wall Street Journal Blog, 29 aprile 2013.
Pubblicazione disponibile qui 



La sofferenza produce risultati

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]  



La zona euro rischia di strappare la sconfitta dalle fauci della vittoria abbandonando gli sforzi compiuti per tagliare i deficit di bilancio e risolvere i problemi economici aperti da lungo tempo, ha ammonito Lunedì il capo economista dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
In una intervista con il Wall Street Journal, Pier Carlo Padoan ha detto che i governi della zona euro sono vicini a stabilizzare e anche a tagliare i loro debiti in rapporto al PIL.
Ma ha avvertito che i governi che si trovano ad affrontare la resistenza degli elettori a causa della crescente disoccupazione potrebbero interrompere il consolidamento fiscale prima di raggiungere questo “notevole risultato”.
“C’è il rischio che la difficoltà delle riforme aumenti significativamente, con i governi che si trovano a dover affrontare una forte resistenza della società, e questo accade nel momento sbagliato, perché ce l’abbiamo quasi fatta”, ha detto Padoan. “”Il nostro messaggio è: abbiamo fatto molto in Europa, non sprechiamolo”.
Le dichiarazioni di Padoan giungono mentre un crescente numero di leader europei sta allentando i programmi di austerità che hanno dominato la politica in tutta Europa negli ultimi anni, concentrandosi invece su misure per promuovere la crescita.
Questo cambiamento di politica è divenuto evidente la scorsa settimana quando il presidente della Commissione Europea Jose Manuel Barroso ha dichiarato che la politica di austerità non ha più il sostegno pubblico necessario per funzionare.
Dopo di allora, i governi di Portogallo e Spagna hanno annunciato nuovi programmi che stabiliscono obiettivi più a lunga scadenza per la riduzione dei loro disavanzi di bilancio, mentre sia il Presidente francese Francois Hollande che il nuovo Primo ministro italiano Enrico Letta hanno separatamente messo in guardia contro il concentrarsi sull’austerità.
L’economia della zona euro si è andata contraendo sin dagli ultimi tre mesi del 2011, e molti politici hanno concluso che i programmi di austerità sono divenuti controproducenti [self-defeating] perché hanno avuto un impatto sulla crescita economica molto più negativo di quanto ci si aspettava.
Padoan ha detto che la sempre più diffusa opinione che l’austerità sia stata inutile non è corretta. “Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza [pain] sta producendo risultati”, ha detto.
Egli ha aggiunto che i politici della zona euro devono compiere un lavoro migliore nel comunicare i loro successi a una popolazione stanca. “C’è un problema di comunicazione”, ha dichiarato. “E’ come se noi dovessimo fare sempre di più le stesse cose senza fermarci mai. Ma noi stiamo ottenendo dei risultati, e vedremo quei risultati prima di quando ci si aspetti”.
In particolare, Padoan ha detto che i debiti pubblici smetteranno di crescere in rapporto al PIL, e in realtà inizieranno a diminuire nel 2014 e 2015. I numeri dati dall’agenzia statistica dell’Unione Europea la scorsa settimana mostrano che mentre il disavanzo di bilancio complessivo dei paesi membri della zona euro è sceso al 3,7% del PIL nel 2012 dal 4,2% del 2011, i debiti pubblici sono aumentati dall’87,3% al 90,6% del PIL
Come altre istituzioni finanziarie internazionali, Padoan ha detto che l’OCSE è pronta a tagliare le sue previsioni di crescita per la zona euro, e ora teme che l’area dell’euro possa affrontare un lungo periodo di stagnazione. “Questo è un motivo di preoccupazione”, ha detto”. “C’è il rischio che l’economia della zona euro possa rimanere ferma nel futuro.”
Padoan ha detto che le prospettive deboli giustificano un passo del consolidamento fiscale più lento rispetto al passato. “Abbiamo bisogno di un tono più morbido, proseguendo nella stessa direzione”, ha detto.
Padoan ritiene che la zona euro abbia fatto molto di più di quanto comunemente si riconosce per risolvere i suoi problemi economici fondamentali, incluse le riforme dei suoi mercati del lavoro. Ma ha detto che perché queste riforme possano dare frutti deve esserci una ripresa della domanda.
“Perché quelle riforme strutturali possano dare frutti visibili -  più crescita e [meno] disoccupazione - dobbiamo avere un certo livello dell’attività economica, una certa domanda”, ha detto. “Un consolidamento fiscale più morbido e uno sforzo continuato per le riforme avvierebbe un circolo virtuoso, e questo lo renderebbe più accettabile (per gli elettori).”
Padoan ha ripetuto la richiesta dell’OCSE per una diminuzione del tasso di interesse di riferimento applicato dalla Banca Centrale Europea. Il consiglio direttivo della BCE si riunisce Giovedì e, dopo molti mesi di inazione, ci si aspetta che finalmente agisca”. [In effetti la BCE decise all’inizio del maggio del 2013 di portare il tasso di rifinanziamento dallo 0,75% allo 0,5%]
Ma, come molti economisti, Padoan non crede che una diminuzione del tasso di interesse sarà decisiva nel cambiare le prospettive di crescita economica della zona euro.
Questo perché il “meccanismo di trasmissione” che dovrebbe legare i bassi tassi di interesse applicati dalla Banca Centrale Europea con prestiti meno cari per le imprese e le famiglie non funziona [is dysfunctional], in particolare in quelle economie nelle quali i sistemi bancari indeboliti non sono in grado di concedere prestiti.
“Il reale problema è l’aggiustamento del settore finanziario”, ha detto Padoan.
Padoan ha ammesso che l’aggiustamento del sistema bancario richiederà tempo, ma ha detto che è precisamente questo il motivo per il quale i politici e gli elettori devono essere pazienti.
“Questo è il motivo per il quale noi dobbiamo realizzare che abbiamo bisogno di un periodo di tempo perché le politiche possano dare frutti”, ha detto.



[FINE]




Paul Krugman

The Beatings Must Continue

The Conscience of a Liberal, 30 aprile 2013.
Pubblicazione disponibile qui 



Il massacro deve continuare

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]  



Qualche volta gli economisti che ricoprono posizioni ufficiali danno cattivi consigli, altre volte danno dei consigli davvero pessimi, e talvolta lavorano all’OCSE.

Sono trascorsi quasi esattamente tre anni da quando l’OCSE, la cui sede è a Parigi, diede quello che potrebbe essere considerato il peggiore consiglio mai dato dalle maggiori organizzazioni internazionali - peggiore di quelli dati dalla Commissione Europea, peggiore di quelli dati dalla Banca Centrale Europea.

Non solo l’OCSE si è associata a chi domandava l’austerità fiscale, ma ha anche chiesto che gli Stati Uniti iniziassero a far salire rapidamente i tassi di interesse per sconfiggere la minaccia dell’inflazione - anche se i suoi stessi modelli econometrici non mostravano affatto una tale minaccia.

Ed eccoci qui, tre anni dopo.
Nessuna inflazione si è sviluppata negli Stati Uniti (e la Fed sta cercando di trovare il modo di stimolare la domanda in una condizione nella quale i tassi di interesse sono nulli), l’economia dell’austerità si è schiantata ed è bruciata, e questi sono gli ultimi numeri pubblicati da Eurostat:

30.04.2013             Tasso di disoccupazione nella zona euro: 12,1%
30.04.2013             Tasso di inflazione annuale nella zona euro: 1,2%

E cosa dice il capo economista dell’OCSE (sempre la stessa persona [Pier Carlo Padoan])?

La zona euro rischia di strappare la sconfitta dalle fauci della vittoria abbandonando gli sforzi compiuti per tagliare i deficit di bilancio e risolvere i problemi economici aperti da lungo tempo, ha ammonito Lunedì il capo economista dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
Padoan ha detto che la sempre più diffusa opinione che l’austerità sia stata inutile non è corretta.
“Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati” ha detto.
Egli ha aggiunto che i politici della zona euro devono compiere un lavoro migliore nel comunicare i loro successi a una popolazione stanca.

Credo che questa sia l’eurolingua per dire che “il massacro continuerà finché il morale si risolleverà”.



[FINE]




Paul Krugman

In Front of Their Noses

New York Times, 16 settembre 2013.
Pubblicazione disponibile qui  



Davanti agli occhi

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]  



Antonio Fatas, come me, ha scritto sul suo blog a proposito della apparente incapacità dell’OCSE di anche solo contemplare la possibilità che i pessimi risultati economici dell’Europa siano il risultato dell’austerità fiscale.

A un certo livello, ovviamente, questo è perfettamente comprensibile.
L’OCSE in generale, e in particolare Pier Carlo Padoan, in qualità di capo economista, sono stati tra i più grandi e tra i primi sostenitori accaniti [cheerleaders] dell’austerità; quindi è chiaro perché non vogliano ammettere che di fatto hanno spinto l’Europa in un disastro.

Tuttavia, è deprimente.
Quello che abbiamo avuto nella zona euro è così vicino a un esperimento naturale sulla politica fiscale come non ne vedrete probabilmente altri, e i risultati di questo esperimento danno un sostegno schiacciante alle tesi di Keynes.
Ci si potrebbe quindi aspettare un certo riconoscimento di questo, una certa revisione delle opinioni.

Ma non è così che va il mondo.

George Orwell lo sapeva bene: 

Il punto è che tutti noi siamo capaci di credere a cose che sappiamo essere non vere e poi, quando finalmente si dimostra che siamo in errore, di ribaltare impudentemente i fatti in modo tale da mostrare che avevamo ragione.
Intellettualmente, è possibile portare avanti questo processo per un periodo di tempo indefinito: l’unico limite è che prima o poi una credenza falsa si scontra contro la solida realtà, usualmente su di un campo di battaglia...
Vedere quello che sta davanti agli occhi richiede uno sforzo costante.

Non molte delle persone influenti compiono questo sforzo.



[FINE]



giovedì 20 febbraio 2014

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Socialismo nazionale




Enrico Corradini

Relazione al I Congresso Nazionalista

1910.
Estratto dalla relazione pubblicato in Ottavio Barié, “Le origini dell’Italia contemporanea”, Cappelli, Rocca San Casciano 1966, pp.100-101.   



Socialismo nazionale




Dobbiamo partire dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi.
Ciò premesso, il nazionalismo deve anzitutto batter sodo su questa verità: l'Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria.
Ed è proletaria nel periodo avanti la riscossa, cioè nel periodo preorganico, di cecità e di debilità vitale.
Sottoposta alle altre nazioni è debole, non di forze popolari, ma di forze nazionali.
Precisamente come il proletariato prima che il socialismo gli si accostasse.

I muscoli de' lavoratori erano forti come ora, ma che volontà avevano i lavoratori di elevarsi?
Erano ciechi sul loro stato.
Or che cosa accadde quando il socialismo disse al proletariato la prima parola?
Il proletariato si risvegliò, ebbe un primo barlume sul suo stato, intravide la possibilità di mutarlo, concepì il primo proposito di mutarlo.
E il socialismo lo trasse con sé, lo spinse a lottare, formò nella lotta la sua unione, la sua coscienza, la sua forza, le sue stesse armi, il suo nuovo diritto, la sua volontà di vincere, il suo orgoglio di stravincere, l'affrancò, lo portò a dettar la sua legge di classe alle altre classi, alla nazione, alle nazioni.

Ebbene, amici, il nazionalismo deve fare qualcosa di simile per la nazione italiana.
Deve essere... il nostro socialismo nazionale.
Cioè, come il socialismo insegnò al proletariato il valore della lotta di classe, così noi dobbiamo insegnare all'Italia il valore della lotta internazionale.

Ma la lotta internazionale è la guerra?

Ebbene, sia la guerra!
E il nazionalismo susciti in Italia la volontà della guerra vittoriosa.

E’ superfluo avvertire che la nostra guerra non è un precipitarsi alle armi, e che la nostra guerra vittoriosa non è un'ingenuità poetica, o profetica, ma un ordine morale.
Noi insomma proponiamo un «metodo di redenzione nazionale» e con un'espressione estremamente riassuntiva e concentrata la chiamiamo «necessità della guerra».
La guerra è l'atto supremo, ma l'affermare la necessità della guerra comprende il riconoscere la necessità di preparare la guerra e del prepararsi alla guerra, cioè comprende un metodo tecnico e un metodo morale.
Un metodo di disciplina nazionale.
Un metodo per creare la ragione formidabile e ineluttabile della necessità della disciplina nazionale.
Un metodo per creare la necessità inesorabile di ritornare al sentimento del dovere.
Preme al cuore dei nazionalisti che le scuole e le ferrovie facciano il loro dovere.
Un metodo per restituir credito soprattutto alle virtù e all'esercizio delle virtù, che i borghesi e la loro opinione pubblica e il loro buon senso e le classi dirigenti e gli uomini politici, o il parlamentarismo... misero da banda per rispetto alla vita della nazione italiana.
Un metodo finalmente per rinnovare un patto di solidarietà di famiglia tra le classi della nazione italiana.
Un metodo per provare la necessità e l'utile di questo patto.



[FINE]



venerdì 14 febbraio 2014

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Il liberismo è di sinistra




Claudio Cerasa

La sfida di Renzi a Bersani

Il Foglio.it, 8 giugno 2012.
Pubblicazione disponibile qui



Il liberismo è di sinistra




 “Sì, è vero: adesso ci siamo.
Le primarie, almeno così sembra, alla fine si faranno; e noi, quando Pier Luigi Bersani ufficializzerà la sua scelta, saremo pronti a giocarci la nostra partita.
Lo faremo per sfidare il segretario, certo, ma soprattutto lo faremo per affermare le nostre idee, per dare una scossa al partito e per provare una buona volta a rivoluzionare, e a innovare, questo PD.
E però, carini, non fatevi illusioni: ché se qui noi siamo in campo non lo facciamo per partecipare, ma solo perché sappiamo che noi, oggi, in questa gara, possiamo vincere davvero”.

[...] questa mattina alle dieci in punto nella sede del PD [...] il segretario del partito, Pier Luigi Bersani [...] ufficializzerà una data che Renzi, come molti altri nel PD, aspettava da tempo.
Una data importante: 14 ottobre, giorno di primarie.

“E’ la scelta giusta – dice Renzi in questa conversazione con il Foglio – ed è una nostra vittoria dato che noi le primarie le chiedevamo da tempo. [...]

So che non sarà uno scherzo, naturalmente. So che la sfida sarà aperta e che le primarie non saranno come quelle di Firenze, e che per vincerle sarà necessario conquistare cifre mostruose, più o meno, diciamo un milione e mezzo di voti, ovvero cento volte i voti che ottenni tre anni fa a Firenze. Lo so, ma non ho paura: il nostro progetto è forte, e io ho le idee molto chiare su come poter costruire una piccola impresa”. [...]

“Vedete – continua Renzi – dico ‘noi’ non perché io ci tenga a fare l’acrobata con le parole ma solo perché so che nei prossimi mesi se dovesse emergere una candidatura più forte della mia io sono pronto a farmi da parte. E qui non si tratta di essere diplomatici: si tratta semplicemente di avere la consapevolezza che a guidare la partita deve essere qualcuno che ha la possibilità di vincere, e non di fare una mezza comparsata, sul modello Rosy Bindi, come è successo nelle ultime primarie del centrosinistra”. [...]

“Poco importa la formula. Qui contano i contenuti. E i contenuti della nostra battaglia saranno chiari: sono quelli che abbiamo elencato lo scorso anno alla Leopolda e sono quelli che ribadiremo a fine giugno a Firenze.

Non parleremo mai di alleanze, parleremo molto di liberismo, di merito, di Europa, ambiente e proveremo a dimostrare che per essere il principe dell’innovazione il PD non ha bisogno di ammanettarsi a qualche inutile lista civica”.

Renzi entra nel merito e prova a elencare alcuni punti del programma.

Primo: “Non faremo una sciocca campagna contro Mario Monti, ma spiegheremo per quale motivo, per la classe dirigente del PD, Monti è diventato un alibi per non ammettere una verità: che se il PD perde voti non è perché appoggia Monti ma perché fino a oggi non è riuscito a presentarsi di fronte agli elettori come un’alternativa credibile per guidare questo paese”.

Secondo: “Faremo una campagna sul merito, e cercheremo di dimostrare che un partito riformista, di fronte per esempio a riforme suggestive come quella suggerita dal ministro Francesco Profumo, non può permettersi di essere percepito come il partito che si preoccupa di non dare spazio al talento”.

Terzo: “Spiegheremo che senza chiarire i problemi legati all’Europa, e senza impegnarci per dare vita agli Stati Uniti d’Europa e dare la possibilità alla Bce di stampare moneta, i problemi del nostro paese, e non solo quelli economici, non verranno mai risolti”.

Quarto: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore”.

Quinto: “Mai più il modello Vasto e mai più coalizioni fatte per vincere, farsi ricattare e naturalmente non governare”.

Il cronista fa notare che alcuni tratti del programma coincidono con quelli del segretario ma su questo punto Renzi ha le idee chiare, e sostiene che ora come non mai è il momento di mostrare ed esplicitare qual è “il fallimento più grande di questa classe dirigente”.
“E’ qui la vera questione – dice Renzi – oggi non si tratta solo di rottamare qualcuno. Si tratta di spiegare che c’è un’intera generazione politica che fa parte di una squadra che negli ultimi vent’anni ha contribuito a portare il paese verso l’abisso in cui siamo precipitati. Finora i Bersani, i D’Alema e gli altri mostri sacri del PD hanno avuto l’occasione di realizzare le riforme che oggi dicono di voler fare un domani. L’occasione l’hanno avuta e non l’hanno sfruttata.

Ora tocca a noi: e se si vince bene, e se si perde faremo un sorriso e torneremo a Firenze e nelle nostre rispettive città. Tranquilli, però: se scendiamo in campo non lo facciamo per fare i bischeri: lo facciamo per vincere, e vedrete che ce la faremo”.


 [FINE]


domenica 9 febbraio 2014

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Vita tragica di un ministro polrugarese




Isaac Deutscher  

Eretici e rinnegati  

1950. Longanesi, Milano 1970, pp. 37-54. Traduzione di Elsa Pelitti.   




Vita tragica di un ministro polrugarese



 
La Polrugaria non è necessariamente definita da precise coordinate geografiche.
Basta sapere che si trova da qualche parte nelle zone orientali dell’Europa.
E nemmeno è il caso di andare a cercare nel Chi è? internazionale il nome di Vincent Adriano, altro funzionario polrugarese, perché si tratta di un personaggio per metà reale e per metà immaginario.
I suoi tratti fisici e morali si potrebbero tuttavia ritrovare in alcune delle persone che attualmente governano i paesi satelliti della Russia e nessuna delle sue esperienze raccontate qui di seguito è stata inventata.
Non è nemmeno necessario precisare quale carica Vincent Adriano occupa nel governo del suo paese.
Potrebbe essere il presidente oppure il presidente del Consiglio o il vice presidente del Consiglio, o anche soltanto il ministro degli Interni o quello della Pubblica Istruzione.
In ogni caso però è membro del Politburo e noto come un pilastro della democrazia popolare in Polrugaria.
Le sua azioni e le sue parole vengono riportate dalla stampa di tutto il mondo.

Si suole riferirsi a individui dello stampo di Adriano definendoli “servi di Stalin”, “fantocci della Russia” e “capi della quinta colonna del Cominform”.
Ma se etichette del genere bastassero a descriverlo esaurientemente, non varrebbe davvero la pena di dedicargli un’attenzione particolare.
Senza dubbio, com’è inevitabile, Adriano è fino a un certo punto un fantoccio e un agente di una potenza straniera, ma è molto più di questo.

Vincent Adriano è sotto i cinquanta o li ha passati da poco.
La sua età è importante perché gli anni della sua formazione sono stati quelli della febbre rivoluzionaria seguita alla prima guerra mondiale.
Uscito da una famiglia della media borghesia che prima del 1914 aveva goduto di una certa prosperità e creduto nella stabilità delle dinastie, dei governi, della moneta e dei principi morali, tra i quindici e i vent’anni Vincent aveva visto crollare tre vasti imperi senza che nessuno versasse una lacrima.
In seguito vide i governi costituirsi e cadere in successione così rapida che era quasi impossibile tener dietro al conto.
In media, ne passavano da dodici a venti in un anno e l’avvento di ogni nuovo governo era salutato come l’inizio di una nuova era; ogni nuovo primo ministro era applaudito come il salvatore.
Dopo qualche settimana, o qualche giorno, lo si fischiava e lo si cacciava a pedate come un inetto, un ribaldo, un imbecille.

La moneta della Polrugaria, come quella di tutti i paesi limitrofi, perdette valore da un mese all’altro, poi da un giorno all’altro, infine da un’ora all’altra.
Il padre di Adriano vendette la casa all’inizio di un anno: alla fine di quello stesso anno col denaro ricavato avrebbe potuto comprarsi sì e no due scatole di fiammiferi.
Nessuna combinazione politica, nessuna istituzione, nessuna tradizione, nessuna ideologia tradizionale sembrava in grado di sopravvivere.
Anche i principi morali si liquefacevano.
La realtà pareva perdere la chiarezza dei contorni e questo si rifletteva nella nuova arte, poesia, pittura, scultura.

Il giovane Vincent si convinse facilmente di assistere al disfacimento di un decrepito ordine sociale, di vedere con i propri occhi il capitalismo che soccombeva all’attacco dell’insanabile follia che portava in sé.
Si entusiasmò per gli incandescenti manifesti dell’Internazionale comunista firmati da Lenin e da Trotzky e ben presto si iscrisse al partito comunista, che a quel tempo in Polrugaria era ferocemente perseguitato (le pene per gli iscritti potevano variare da cinque anni di carcere alla condanna a morte).
Chi aderiva al partito in quei giorni, non lo faceva certo per motivi di lucro personale o di carriera.

Adriano rinunciò senza esitare alla prospettiva di una carriera sicura in campo accademico per diventare rivoluzionario di professione, spinto a ciò da un ideale fratellanza per gli oppressi e da qualcosa che egli chiamava “convinzione scientifica”.
Lo studio dei classici del marxismo lo aveva condotto alla ferma convinzione che la proprietà privata dei mezzi di produzione e il concetto dello Stato nazionale erano ormai sorpassati; di più, erano destinati ad essere soppiantati da una società socialista internazionale che avrebbe potuto scaturire soltanto da una dittatura del proletariato.

Dittatura del proletariato non significava governo dittatoriale di un’oligarchia e men che meno di un capo singolo, ma predominio politico e sociale delle classi lavoratrici, “la dittatura di una maggioranza preponderante su un pugno di sfruttatori, di proprietari terrieri semifeudali e di grandi capitalisti”.
Lungi dal rinnegare la democrazia, la dittatura del proletariato, pensava Adriano, ne rappresentava anzi la sublimazione.
Avrebbe riempito con la sostanza dell’uguaglianza sociale il guscio vuoto dell’uguaglianza formale, il massimo che la democrazia borghese potesse offrire.
Con questa visione del futuro, Adriano si gettò a tuffo nel movimento rivoluzionario clandestino.

Non è necessario riferire in tutti i suoi particolari la carriera rivoluzionaria di Adriano che seguì, fino a un certo punto, lo schema tipico.
Vi furono gli anni della pericolosa attività clandestina, quando Vincent visse come un uomo braccato, senza nome né domicilio e organizzò scioperi, scrisse articoli per i giornali clandestini, viaggiò per il paese intero, studiandone le condizioni sociali e creando organizzazioni.
Poi vennero gli anni del carcere e della tortura, della solitudine impaziente.
La visione del futuro che lo aveva ispirato si inquinò un poco, per necessità, con gli espedienti, i ripieghi tattici, i sotterfugi organizzativi: la routine quotidiana dell’uomo politico, anche di quello che è al servizio di una rivoluzione.
Ma nonostante tutto ciò, il suo entusiasmo e il suo idealismo non avevano ancora cominciato a evaporare.

Persino in carcere si diede da fare per mantenere vivi nei compagni convinzioni, speranze, orgoglio dei propri sacrifici.
Una volta organizzò uno sciopero della fame tra centinaia di detenuti politici, sciopero che durò sei o sette settimane e fu uno dei più lunghi che mai si fossero fatti.
Il direttore della prigione sapeva che per spezzarlo doveva prima spezzare Vincent Adriano.
Le guardie carcerarie trascinarono per i piedi il detenuto, esausto ed emaciato, giù per la scala di ferro, dalla sua cella al sesto piano, facendogli sbattere la testa su ognuno degli scalini taglienti e rugginosi, finché egli non svenne.
Vincent Adriano divenne un eroe leggendario.

Riuscì finalmente a evadere dal carcere con alcuni compagni e a rifugiarsi in Russia.
E siccome trascorse poi parecchi anni a Mosca, ora si dice e si scrive spesso di lui che appartiene al “nucleo intransigente di agenti istruiti a Mosca che controllano la Polrugaria”.
Parole che, se gli capitano sotto gli occhi, fanno salire alle sue labbra un triste, ironico sorriso.

Quando arrivò a Mosca, nel 1931 o ’32, Adriano non era uno dei capi del partito polruganese, e non gli importava gran che del proprio posto nella scala gerarchica.
Lo preoccupava molto di più la confusione sorta nella sua mente da quando aveva potuto confrontare il quadro che s’era fatto della società futura con la vita nell’Unione Sovietica sotto Stalin.
Non osava ammettere nemmeno con se stesso la portata della propria delusione e anche questa fu un’esperienza tipica degli uomini come lui, così che non è nemmeno necessario attardarsi a discuterne.
E tipici furono pure i luoghi comuni, le mezze verità, la volontà di illudersi con i quali cercò di blandire la propria conturbata coscienza comunista.
La secolare povertà della Russia, il suo isolamento nel cuore di un mondo capitalista, i pericoli che la minacciavano dall’esterno, l’analfabetismo delle masse, la loro pigrizia e la mancanza di senso civico... questo e altro ancora ricordava a se stesso per spiegarsi come mai la vita in Russia fosse così dolorosamente vuota di ideali.

“Oh”, sospirava, “se la rivoluzione avesse invece trionfato per la prima volta in un paese più civile e progredito! Ma la storia deve essere accettata così com’è e la Russia merita se non altro il rispetto e la gratitudine dovuti ai pionieri, quali che siano i loro errori e le loro manchevolezze.”
E faceva di tutto per non vedere le realtà della vita che lo circondavano.

Poi vennero le grandi purghe del 1936-38.
Molti capi del partito polruganese furono fucilati come spie, sabotatori e agenti della polizia politica del loro paese e prima di morire furono costretti (come vi furono costretti i loro familiari, mogli, fratelli e sorelle) a testimoniare l’uno contro l’altro.
Fra gli uomini così disonorati e giustiziati ve n’era uno che più di ogni altro aveva destato l’entusiasmo di Adriano e sostenuto il suo coraggio, che lo aveva iniziato ai più difficili problemi della teoria marxista, che Adriano aveva sempre considerato amico sicuro e guida spirituale.

Anche a Vincent Adriano furono mosse le consuete accuse, ma per un capriccio della fortuna, o forse del capo della GPU, Yezhov, o di uno dei suoi scagnozzi, non lo portarono davanti al plotone di esecuzione.
Lo deportarono invece in un campo di lavoro forzato, in un punto imprecisato del circolo subpolare, dove si trovò in numerosa compagnia (seguaci di Trotzky, di Zinoviev e di Bucharin, kulaki, nazionalisti ucraini, banditi e ladri, ex generali, ex professori universitari e organizzatori del partito) e fu impiegato come gli altri ad abbattere alberi e a trasportarli da una foresta a un lontano deposito.
Il gelo, la fame e le malattie decimavano i deportati, ma il loro posto veniva sempre riempito dai nuovi arrivati.

Adriano vedeva i suoi compagni ridursi dapprima a lottare come animali per sopravvivere, poi perdere la volontà di lottare e di sopravvivere e infine crollare e morire come mosche.
Ma chissà come, la sua vitalità non cedette.
Vincent continuò a maneggiare con le dita congelate la sua ascia, a mettersi ogni tre o quattro giorni, con altri compagni di prigionia, fra le stanghe di un carro carico di tronchi per trascinarlo attraverso la pianura coperta di neve e ghiaccio, fino al deposito distante parecchi chilometri.
Erano queste le ore peggiori.
Adriano non sapeva rassegnarsi al fatto di essere usato come una bestia da soma, nel paese dei suoi sogni, lui, il fiero rivoluzionario.

Ancora oggi, quando pensa a quei giorni, sente una fitta dolorosa al cuore e per questo legge con un sorriso triste i riferimenti al suo misterioso “addestramento nelle attività da quinta colonna” che avrebbe ricevuto in Russia.

In un angolo del cervello cercava di dipanare il groviglio di circostanze che lo avevano portato a quella degradazione e di notte ne discuteva con gli altri deportati.
Il problema era vasto e confuso oltre ogni limite di comprensione.
Alcuni deportati comunisti sostenevano che Stalin aveva compiuto una controrivoluzione, distruggendo tutto ciò che era stato fatto dalla rivoluzione di Lenin.

Altri sostenevano invece che le basi della rivoluzione (proprietà pubblica ed economia collettivistica) erano rimaste intatte, ma che invece di una libera società socialista su quelle basi si era costruito un mostruoso sistema di socialismo combinato con la schiavitù.
Le prospettive erano quindi assai più gravi di quanto essi avrebbero mai potuto immaginare, ma sussisteva forse ancora qualche speranza, se non per la loro generazione, per quella successiva.
Lo stalinismo, era vero, stava gettando enorme discredito sull’ideale socialista, ma forse si sarebbe potuto ancora salvare dal naufragio quel che del socialismo era rimasto.
Adriano non sapeva che pensare, ma propendeva piuttosto per questa seconda tesi.

Poi gli eventi presero a un tratto una piega tanto fantastica che nemmeno l’immaginazione più fertile avrebbe potuto concepirla.
Un giorno, verso la fine del 1941 (gli eserciti di Hitler erano appena stati ricacciati dalle porte della capitale russa), Adriano fu liberato dal campo di concentramento e condotto con i massimi onori a Mosca.
Il Cremlino aveva bisogno urgente di comunisti dell’Europa centrale e orientale in grado di trasmettere messaggi radio ai paesi occupati dai nazisti e di stabilire contatti con i movimenti clandestini alle spalle delle linee nemiche e a questo scopo erano particolarmente ricercati i polrugaresi, data l’importanza strategica della loro patria.
Ma non uno dei capi del partito comunista polrugarese era rimasto vivo.
I pochi esponenti meno importanti, sparsi nei vari campi di concentramento, furono ricondotti d’urgenza a Mosca, riabilitati e messi al lavoro.
La riabilitazione avvenne sotto forma di scuse da parte della polizia di sicurezza, la quale dichiarò che la deportazione del compagno Tal dei Tali era stata un deplorevole errore.

Parecchie volte la settimana Adriano, messo davanti a un microfono, gridò all’etere la propria fiducia nella Terra del Socialismo, esaltò Stalin e la sua opera, esortò i polrugaresi a sollevarsi dietro le linee nemiche e a prepararsi per la liberazione.

Adriano era profondamente cosciente dell’assurdità di quella situazione.
Era diventato il propagandista dei suoi carcerieri e torturatori, di color che avevano denigrato e distrutto i capi del comunismo polrugarese, compreso l‘uomo che era stato per lui amico e guida.
In cuor suo, non poteva dimenticare né perdonare le sofferenze e le vergogne delle purghe.
E con una parte del suo cervello non poteva distaccarsi dagli infelici che erano rimasti lassù, al nord.

Ma non poteva rifiutare l’incarico.
Un rifiuto sarebbe stato giudicato come sabotaggio dello sforzo bellico e punito con la condanna a morte o alla deportazione.
Tuttavia non fu soltanto per salvare la pelle che Adriano si prestò a fare quel lavoro.
Bramava contribuire alla disfatta del nazismo e per questo, pensava, era giusto dare la mano “al demonio e a sua nonna”... e a Stalin.

Ma il desiderio di sconfiggere il nazismo non era tutto.
Nonostante le sue dolorose esperienze, Adriano era tuttora attaccato alle proprie vecchie idee e speranze.
Era ancora comunista.
Anticipava con la mente il fermento rivoluzionario che dopo la guerra sarebbe dilagato in tutto il mondo capitalista.
Quanto più grave era la delusione inflittagli dall’Unione Sovietica, tanto più intensa era la sua speranza che la vittoria del comunismo in altri paesi avrebbe rinnovato il suo spirito e lo avrebbe liberato dall’infida tutela del Cremlino.

Gli stessi motivi lo indussero ad accettare una proposta che Stalin gli fece personalmente dopo qualche mese, quella di organizzare un comitato di liberazione della Polrugaria e divenirne il segretario.
Era certo che prima o poi l’armata rossa sarebbe entrata in Polrugaria.
Il comitato di liberazione sarebbe entrato nella sua scia per diventare il nucleo di un governo provvisorio.

Adriano era sovraccarico di lavoro.
Quale incaricato dei contatti con la resistenza polrugarese, impartiva istruzioni agli emissari che penetravano fra le linee nemiche o venivano paracadutati alle loro spalle; riceveva i rapporti dai guerriglieri sparsi nei paesi occupati e li trasmetteva ai superiori; provvedeva perché i capi dei partiti non comunisti e persino anticomunisti potessero espatriare clandestinamente e raggiungere Mosca.
Riuscì persino a convincerne alcuni a entrare nel comitato di liberazione.

Il seguito lo conoscono tutti.
Il comitato di liberazione divenne il governo provvisorio, poi il governo effettivo della Polrugaria.
I partiti non comunisti vennero estromessi l’uno dopo l’altro e poi soppressi.
La Polrugaria divenne una democrazia popolare.
Adriano è uno dei pilastri del nuovo governo e niente finora lascia prevedere una sua probabile eclissi.
Non ha potuto uscire dalla trappola, ma non v’è rimasto schiacciato.

Esistono due Vincent Adriano ora.
Uno pare non avere mai avuto un attimo di dubbio o di incertezza.
La sua ortodossia stalinista non ha mai destato sospetti, la sua devozione al partito non ha mai vacillato, le sue doti di capo e di statista sono ritenute insuperabili.
L’altro Adriano è torturato quasi senza soste dalla propria coscienza comunista, sempre in preda a scrupoli e paure, a illusioni e delusioni.
Il primo è eloquente ed espansivo, il secondo rimugina in silenzio e non si confida nemmeno con i più vecchi amici.
Il primo agisce, il secondo non smette mai di riflettere.

Dal 1945 al 1947 i due Adriano vissero quasi in pace l’uno con l’altro.
In quegli anni il partito polrugarese attuò alcune delle riforme radicali che aveva in programma da decenni.
Attaccò il problema del latifondo.
Divise tra i contadini affamati di terre gli immensi possedimenti semifeudali.
Diede il via a piani grandiosi per lo sviluppo industriale di un paese gravemente sottosviluppato.
Promosse una vasta legislazione sociale progressista e un’ambiziosa riforma scolastica.
Quei provvedimenti riempirono di gioia e di orgoglio il cuore di Adriano.
Proprio per quello, in fin dei conti, egli aveva languito nelle prigioni del suo paese.

In quegli anni poi, anche Mosca, per ragioni sue, andava dicendo ai polrugaresi che non dovevano uniformarsi troppo al modello sovietico, che dovevano cercare e seguire una loro “via nazionale al socialismo”.
Per Adriano questo significava che alla Polrugaria sarebbero stati risparmiati le purghe e i campi di concentramento, l’abbietto servilismo e le paure.
Comunismo, intenso sviluppo industriale e scolastico, una certa autentica libertà di discussione e di critica... pareva proprio il raggiungimento dell’ideale.

Lo turbava solo lo scarso entusiasmo per la rivoluzione mostrato dalla popolazione polrugarese.
Certo, tutti ne vedevano i vantaggi e nel complesso li approvavano.
Ma si risentivano per il fatto che la rivoluzione venisse compiuta dall’alto da persone che essi non avevano scelto, che spesso non si degnavano nemmeno di consultarli e che avevano tutta l’aria di essere strumenti di una potenza straniera.

Adriano sapeva bene quanto la presenza dell’armata rossa avesse facilitato la rivoluzione.
Senza il suo appoggio, le forze della controrivoluzione, con l’aiuto delle democrazie borghesi occidentali, si sarebbero riaffermate attraverso una sanguinosa guerra civile, com’era accaduto dopo la prima guerra mondiale.
Ma rifletteva che una rivoluzione che non abbia dietro a sé un genuino entusiasmo popolare è già sconfitta a mezzo.
Tende a non fidarsi del popolo che dovrebbe servire.
E la mancanza di fiducia potrebbe generare paure e terrore com’era accaduto in Russia.

Tuttavia, pur rendendosi conto di quei pericoli, Adriano sperava che attraverso un’onesta e attiva dedizione a favore delle masse, il nuovo governo polruganese sarebbe riuscito a conquistarsi la loro fiducia e a destare il loro entusiasmo.
Allora il nuovo ordine sociale avrebbe potuto reggersi coi propri mezzi. Prima o poi l’esercito sovietico se ne sarebbe tornato in Russia.
Doveva esservi un’altra via al socialismo, pensava, forse non esattamente polrugarese, ma nemmeno russa o staliniana.

Frattanto, Vincent Adriano prese alcuni provvedimenti che furono compresi solo dagli iniziati.
Promosse in Polrugaria una vasta azione intesa a glorificare la memoria del suo vecchio amico giustiziato in Russia, benché Mosca non ne avesse riabilitato ufficialmente il nome.
La biografia del capo defunto è tuttora esposta nelle librerie, accanto alla biografia ufficiale di Stalin.
E siccome nel libro non si parla delle circostanze che accompagnarono la morte del martire, soltanto i più vecchi comunisti conoscono le implicazioni recondite di questo omaggio.

Adriano ha anche istituito un ente speciale per l’assistenza alle famiglie di tutti i comunisti polrugaresi giustiziati a Mosca come “spie e traditori”.
L’ente si chiama Fondazione dei Veterani e dei Martiri della Rivoluzione.
Questi provvedimenti danno a Vincent Adriano una certa soddisfazione morale, egli sa benissimo che dal punto di vista politico la loro importanza è irrilevante.

Ma quando i due campi opposti, oriente e occidente, cominciarono a schierare le proprie forze e quando i capi delle due parti, ognuno alla propria maniera, misero tutti di fronte a un categorico “chi non è con me è contro di me” le prospettive di Adriano si fecero oscure.
Avesse potuto fare a suo modo, Vincent avrebbe risposto con un cordiale: “All’inferno voi e loro!”.
L’uomo che era stato un reietto nella Russia di Stalin, una bestia da soma in un campo di concentramento, l’uomo cui ogni copia della Pravda con i suoi dissennati inni a Stalin dà un acuto senso di nausea, ha visto rabbrividendo la sua “via nazionale al socialismo” diventare sempre di più la via staliniana.
Ma non vede come potrebbe distaccarsene.

E’ certo che l’occidente non abbia da offrire all’Europa centrale e orientale altro che la controrivoluzione.
L’occidente può pure esaltare la libertà e la dignità dell’uomo (e chi più di Adriano ha avuto modo di esplorare tragicamente, fino al fondo, il significato di quegli ideali?), ma gli occhi di Vincent sono fissi al baratro ch’egli vede tra le promesse occidentali e il loro adempimento.
Crede fermamente che nella sua parte di mondo ogni tentativo di ribellione aggraverà anziché alleggerire l’oppressione, peggiorerà anziché lenire la degradazione dell’uomo.

E’ disposto a concedere che quanti parlano in favore dell’occidente siano sinceri nelle loro promesse, ma aggiunge di avere conservato la vecchia abitudine marxista di non tenere conto dei desideri e delle promesse degli statisti, per tenere l’occhio sulle realtà sociali a politiche.
Chi in Polrigaria, si domanda, sarebbe pronto ad arruolarsi sotto le bandiere dell’occidente?
Sì, ci sarebbe forse anche qualche onesto in buona fede, ma questi sarebbero i minchioni.

I più energici e attivi alleati dell’occidente in Polrugaria sono coloro che avevano qualcosa in gioco nel vecchio ordine sociale, i privilegiati della dittatura d’anteguerra, i vecchi soldateska, i grandi proprietari terrieri espropriati e i loro simili.
Se dovesse prevalere l’occidente, costoro sarebbero a capo del nuovo governo e, in nome della libertà e della dignità dell’uomo, scatenerebbero un terrore bianco del quale non si è mai visto l’uguale.
Adriano ha già sperimentato anche il loro terrore.
Ma a quel tempo la vecchia classe dirigente era convinta che quel regime sarebbe durato in eterno e questa fiducia la tratteneva dallo scatenare fino alla follia quel terrore.
Ora, se tornasse al potere, sarebbe fuori di sé per la paura e il desiderio di vendetta.
La vera scelta, secondo Adriano, non è fra la tirannia e la libertà, ma fra la tirannia stalinista, riscattata in parte dal progresso sociale ed economico, e una tirannia reazionaria che non sarebbe riscatta da niente.

A volte Adriano sarebbe felice di poter rinunciare al suo alto incarico e sparire nell’oscurità.
Ma il mondo è diventato troppo piccolo.
Un uomo come lui non può cercare rifugio in occidente.
Secondo lui, sarebbe un vero e proprio tradimento, non verso la Russia, ma verso l’ideale comunista ch’egli ha sempre sognato.
Le dimissioni e il ritiro a vita privata sarebbero un gesto di opposizione e di sfida, e questo il regime che lui stesso ha concorso a stabilire non potrebbe permetterlo.

Che cosa hanno ancora in comune il giovane che un tempo si gettò nella mischia con ardore da Prometeo per vincere la follia della storia quale si manifestava nel sistema capitalistico, e il ministro di mezza età che intuisce come le forze irrazionali della storia abbiano sopraffatto anche la rivoluzione, trascinando pure lui, incidentalmente, in una trappola?
Adriano fa quanto può per conservare il rispetto di se stesso, per convincersi che come statista, come alto funzionario e come capo egli è sempre lo stesso uomo che sposò la causa degli oppressi e che per essa soffrì nelle patrie galere.
Ma talvolta, mentre riceve in forma solenne una delegazione di contadini o saluta un pittoresco corteo, una nota fitta di dolore gli trapassa il cuore e il ministro sente a un tratto di essere soltanto un patetico rottame, la bestia da soma del circolo subpolare.


[FINE]