mercoledì 2 gennaio 2013

Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia - Ciampi




Carlo Azeglio Ciampi

Considerazioni finali - 1981

Banca d’Italia, Considerazioni finali - 1960-1981, pp. 891-897.
Pubblicazione disponibile qui .


Il colpo di Stato riuscito.                                                                       Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia nelle parole dei congiurati - Ciampi



PER UNA MONETA STABILE
Il ricupero del bilancio pubblico come strumento di politica economica sta al vertice principale del triangolo che figuratamente racchiude gli elementi necessari a riconquistare una buona moneta, agli altri due trovandosi la coerenza dei comportamenti che regolano la dinamica dei redditi e l’autonomia della creazione di moneta dai centri di spesa.
Negli anni settanta l’aumento delle uscite della pubblica amministrazione è stato rapido e tumultuoso. Nel 1981, in rapporto al prodotto interno lordo, esse hanno per la prima volta superato quelle dei principali paesi europei, mentre le entrate sono rimaste sensibilmente inferiori.
Si sostiene, giustamente, che nel valutare la pressione fiscale non si può non tener conto del più basso livello del reddito pro capite dell’Italia. Ma lo stesso ragionamento dovrebbe in prima istanza essere addotto per contenere le spese, fin quando quel livello non si sarà sufficientemente elevato.
Se i disavanzi avessero per origine uno sforzo di accumulazione volto ad ampliare e a rafforzare la struttura produttiva, e quindi a generare reddito nell’avvenire, si potrebbe ritenere che siano destinati a chiudersi nel tempo. Ma essi per oltre la metà sono rappresentati dal divario tra incassi e pagamenti correnti; gli altri grandi paesi industriali hanno chiuso il 1981 con un avanzo corrente.
Gli stretti legami tra la politica monetaria, il fabbisogno pubblico e le sue forme di copertura, che di recente la dottrina ha riesaminato e approfondito, sono in fondo riconducibili a un principio elementare: per nessuna unità economica le spese correnti possono a lungo eccedere le entrate.
Il vincolo del bilancio impone l’aggiustamento all’individuo e all’impresa; alla pubblica amministrazione la capacità primaria di credito consente di rinviarlo, non di eluderlo indefinitamente.
Il tentativo di eluderlo non può che inasprire l’imposta perversa dell’inflazione.
Occorre dunque tornare al rispetto di principi che pongano limiti diretti e invalicabili al sistematico assorbimento di risparmio da parte del settore pubblico.
Il vincolo del pareggio del bilancio corrente attiverebbe meccanismi di controllo della qualità e della quantità delle spese, costringendo a operare un diretto raffronto tra i benefici e i costi delle prestazioni richieste alla pubblica amministrazione.
Si eviterebbe, altresì, il rinvio di vere soluzioni ai problemi di fondo dell’economia, che spesso è favorito dal poterne far ricadere gli oneri sul settore pubblico.

Per dare inizio al cammino verso il pareggio è necessario realizzare un più stretto collegamento tra il bilancio annuale e quello pluriennale; quest’ultimo dovrà essere il frutto di una valutazione delle entrate e delle spese attenta e coerente con l’evoluzione prevista dell’economia.
La prima norma da introdurre, nello spirito dell’articolo 81 della Costituzione, è l’obbligo di un’integrale copertura tributaria, sia per l’esercizio in corso sia per quelli successivi, di ogni spesa corrente decisa in aggiunta a quelle già considerate nel bilancio pluriennale.
Non va certo affidato al gioco automatico dell’inflazione e del drenaggio fiscale il compito di accrescere la pressione tributaria, ma non si può pensare di neutralizzare la progressività delle imposte e di trascurare al tempo stesso le dimensioni globali del problema. Non si tratta solo di intensificare risolutamente la lotta all’evasione, ma di restituire all’area impositiva settori che hanno finito con l’esserle sottratti.

Squilibri gravi si annidano nel sistema previdenziale e in quello sanitario.
In assenza di decisi interventi essi determineranno nel volgere di pochi anni una pressione insostenibile sulle risorse, soprattutto per l’invecchiamento della popolazione e il pieno dispiegarsi degli automatismi introdotti anche di recente.
Nel settore sanitario, con l’attuazione del decentramento si sta perdendo il controllo dei flussi di spesa; non vi è chiarezza nella determinazione dei limiti posti agli organi locali; gli sconfinamenti finanziari che si accumulano finiscono con il riversarsi al centro, dove le possibilità di intervento sono ridotte.

Non si conseguiranno risultati significativi se non si abbandonerà la pretesa secondo cui lo Stato debba e possa farsi carico di ogni bisogno del cittadino.
Sono indispensabili riforme che non si limitino alla correzione delle attuali incongruenze.
Esse dovranno avere per fondamento la distinzione tra prestazioni essenziali, a carico della collettività, e forme integrative, a carattere assicurativo e volontario, i cui oneri vanno coperti con risparmio privato, come avviene in quasi tutti i paesi della CEE.
Nonostante l’entità delle spese, l’Italia continua a soffrire di servizi pubblici insoddisfacenti o addirittura carenti. La soluzione non sta nell’espandere senza limite il numero degli addetti, ma nella ricerca di efficienza e nella riqualificazione dei servizi.
Senza erigere a vincolo assoluto la copertura con le tariffe delle spese d’esercizio delle imprese di pubblica utilità, il vaglio dei casi in cui è nell’interesse generale consentire l’uso di determinati servizi a prezzi inferiori ai costi dovrà essere severo; le sovvenzioni, da iscrivere tra le spese correnti, dovranno essere chiaramente individuate, definite negli importi, collegate alle prestazioni fornite e non risultare dalla semplice copertura a posteriori di qualsiasi disavanzo.
I finanziamenti concessi alle imprese a partecipazione statale, attualmente compresi nel conto capitale, solo in parte si riferiscono a veri investimenti: in parte ripianano perdite della gestione corrente.
Anche qui occorrerà fare chiarezza nei conti.

La voce della spesa pubblica che ha mostrato negli ultimi anni la dinamica più accentuata è costituita dagli interessi sul debito.
Nel 1981 essi sono ammontati a 30.000 miliardi, triplicandosi in quattro anni. L’espansione è dipesa sia dalla lievitazione dei tassi sia dalla crescita del debito, che alla fine dell’anno ascendeva a 275.000 miliardi.
V’è chi sostiene che l’aggiustamento dovrebbe cominciare proprio con interventi volti a ridurre i pagamenti per interessi, proponendo alcuni di allentare la restrizione monetaria, altri di introdurre forme di indicizzazione reale dell’indebitamento pubblico che concentrerebbero l’onere del servizio alla data di scadenza dei titoli.
Alla prima proposta rispondono le considerazioni appena svolte sulla congiuntura interna e internazionale e sui motivi che costringono a mantenere un orientamento di rigore monetario. Non si deve confondere tra cause primarie e secondarie del disavanzo e dell’inflazione, o addirittura tra cause ed effetti.

I tassi d’interesse reali positivi frenano la domanda interna e favoriscono l’accumulazione di attività finanziarie.
Certo sono essi stessi elementi di costo e il loro aumento ha conseguenze indesiderate sull’inflazione; ma questi effetti sono di gran lunga inferiori a quelli di segno opposto derivanti dal controllo della domanda e dal sostegno del cambio.
Né si può ignorare che tassi reali negativi sono un sussidio al debitore e una spoliazione del creditore.

Rimaniamo anche contrari all’indicizzazione del debito pubblico ai prezzi, pur condividendone l’obiettivo di equità verso i risparmiatori.
Ma l’equità deve essere garantita ponendo fine alla distruzione di risparmio, non promettendo frutti che mai matureranno sulla pianta secca di un cronico disavanzo corrente.
Gli obiettivi di ridurre l’incertezza non solo del creditore ma dello stesso debitore e di favorire il finanziamento con scadenza medio-lunga possono essere perseguiti senza ampliare l’area delle indicizzazioni.
I finanziamenti a tasso variabile, che la Banca ha promosso e gli operatori perfezionato con tecniche innovative, hanno consentito di mantenere aperti i canali di raccolta oltre il breve termine del Tesoro e dell’economia anche nella recente difficile congiuntura.

Al di là degli oneri per interessi, destinati a ridursi al progredire del riequilibrio nell’economia, altri ben individuati fattori, operanti soprattutto nel sistema previdenziale e in quello sanitario, stanno sgretolando la struttura del bilancio.
È urgente disattivare questi meccanismi dirompenti.
Ne trarrà decisivo sostegno la lotta all’inflazione sia direttamente sia per l’impatto che l’avvio di un risanamento credibile delle finanze pubbliche avrà di per sé sulle aspettative e sugli stessi tassi d’interesse.
Sono misure che si impongono anche per contrastare gli effetti di ampliamento del disavanzo dovuti ai tempi diversi di reazione delle spese e delle entrate al recedere dell’inflazione.
Sarebbe grave errore muovere verso l’indicizzazione del debito pubblico ai prezzi senza aver eliminato gli scompensi di fondo del bilancio.
Si aggraverebbero per le generazioni future i costi dell’uso presente di risorse e si attenuerebbero gli stimoli al riequilibrio acuendo le difficoltà complessive.

Sappiamo bene che un’economia già largamente indicizzata, e nella quale l’inflazione a due cifre imperversa da un decennio, vive in uno stato di contraddizione, e che introdurre nuove clausole del genere può apparire come un atto di razionalità.
Ma ci rifiutiamo all’idea che ancora una volta, per cercare di uscire dalla contraddizione, venga data al sistema una spinta verso quel vero abbandono della moneta che è l’indicizzazione generalizzata, anziché porre mano a una seria riforma delle pubbliche finanze e procedere alla riduzione delle indicizzazioni esistenti.
In questa direzione stanno procedendo altri paesi europei, nei quali operano meccanismi di adeguamento automatico dei salari, al fine di riportare la contrattazione collettiva a essere strumento di governo dell’evoluzione dei redditi.
È questo il secondo vertice del triangolo che conduce al ricupero dell’equilibrio monetario.
V’è crescente coscienza del fatto che una dinamica del costo del lavoro superiore a quella della produttività non può che portare alla coesistenza del ristagno con l’inflazione.
Le parti sociali devono darsi carico di una nuova politica delle contrattazioni collettive e di una revisione di meccanismi resi obsoleti da mutate condizioni obiettive.
Il presidio del salario reale va ricercato nel rispetto delle regole che conducono a una buona moneta, e non in comportamenti che determinano una spirale tra prezzi e salari.
L’operare dei meccanismi di scala mobile finisce col nuocere a tutti: a chi preme sul mercato del lavoro, che subisce l’incapacità del sistema di favorire gli investimenti di ampliamento del potenziale produttivo; a chi è occupato, che paga il tentativo di difesa del reddito reale con crescenti incertezze sul mantenimento del posto di lavoro; alle organizzazioni dei lavoratori, schiacciate nelle loro rivendicazioni dalla parte automatica degli aumenti e sotto il contraccolpo di scelte che allontanano la prospettiva di maggiore occupazione.

Il triangolo in cui si iscrive il ritorno alla stabilità monetaria si chiude restituendo alla banca centrale piena autonomia nella creazione di moneta.
V’è chi crede che l’esercizio di questa autonomia in senso inflessibilmente restrittivo sia condizione sufficiente per assicurare l’equilibrio e per contenere gli stessi disavanzi pubblici.
La tesi, se poteva esser vera in presenza di mercati atomistici e di un’amministrazione pubblica con peso e funzioni assai più limitati di quelli attuali, non è vera oggi.
Non c’è una mano invisibile che operi un rapido e duraturo riequilibrio della dinamica salariale e del disavanzo pubblico in risposta al controllo della moneta.

Una rigorosa politica del credito fa emergere le contraddizioni tra domanda monetaria e crescita reale e tra fabbisogno pubblico e capacità di risparmio.
È dunque di fondamentale importanza, in particolare allorché i disavanzi pubblici sono ampi e crescenti, che la banca centrale possa esercitare una piena responsabilità nel governo dei flussi monetari e finanziari.
Un importante progresso è stato compiuto con l’abbandono della pratica secondo la quale l’istituto di emissione fungeva da acquirente residuale dei BOT offerti alle aste.
Pur non risolvendo di per sé i problemi di fondo, il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, che sarà perfezionato con l’introduzione delle aste competitive, meglio consente il rispetto del principio di rilevanza costituzionale che pone precisi limiti al diretto finanziamento monetario del disavanzo pubblico.
L’autonomia delle decisioni riguardanti il controllo monetario da quelle attinenti alla gestione del debito pubblico non deve essere intesa come rigida separazione nello svolgimento delle rispettive funzioni. La composizione per scadenze e per caratteristiche di rendimento delle attività finanziarie influenza il comportamento degli operatori agendo sulla spesa e sui movimenti dei capitali con l’estero.
Il riscontro reciproco della politica monetaria e della gestione del debito è necessario al perseguimento della combinazione migliore tra finalità del governo della moneta, da un lato, e minimizzazione del costo e allungamento della scadenza del debito pubblico, dall’altro.
A questi criteri, nella distinzione dei compiti, Tesoro e Banca d’Italia hanno continuato a improntare la loro azione anche dopo che è cessato l’impegno da parte di quest’ultima di assorbire alle aste i BOT non collocati sul mercato.
Nondimeno, quando le spinte destabilizzanti del disavanzo pubblico si manifestino con particolare forza, nelle scelte della banca centrale l’obiettivo del controllo monetario non può non prevalere su quello della composizione del debito pubblico secondo la scadenza.
Esso è elemento prioritario per contenere l’inflazione; d’altra parte, solo arrestando il degrado monetario si può ottenere un durevole ritorno dei privati sui titoli a lunga e ottemperare al dettato della tutela del risparmio.


[FINE]

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