Carlo Azeglio Ciampi
Considerazioni finali - 1981
Banca d’Italia,
Considerazioni finali - 1960-1981, pp. 891-897.
Pubblicazione
disponibile qui
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Il colpo di Stato riuscito. Il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia nelle parole dei congiurati - Ciampi
PER UNA MONETA STABILE
Il ricupero del bilancio pubblico
come strumento di politica economica sta al vertice principale del triangolo
che figuratamente racchiude gli elementi necessari a riconquistare una buona
moneta, agli altri due trovandosi la coerenza dei comportamenti che regolano la
dinamica dei redditi e l’autonomia della creazione di moneta dai centri di
spesa.
Negli anni settanta l’aumento delle
uscite della pubblica amministrazione è stato rapido e tumultuoso. Nel 1981, in
rapporto al prodotto interno lordo, esse hanno per la prima volta superato
quelle dei principali paesi europei, mentre le entrate sono rimaste sensibilmente
inferiori.
Si sostiene, giustamente, che nel
valutare la pressione fiscale non si può non tener conto del più basso livello
del reddito pro capite dell’Italia. Ma lo stesso ragionamento dovrebbe in prima
istanza essere addotto per contenere le spese, fin quando quel livello non si
sarà sufficientemente elevato.
Se i disavanzi avessero per origine
uno sforzo di accumulazione volto ad ampliare e a rafforzare la struttura
produttiva, e quindi a generare reddito nell’avvenire, si potrebbe ritenere che
siano destinati a chiudersi nel tempo. Ma essi per oltre la metà sono
rappresentati dal divario tra incassi e pagamenti correnti; gli altri grandi
paesi industriali hanno chiuso il 1981 con un avanzo corrente.
Gli stretti legami tra la politica
monetaria, il fabbisogno pubblico e le sue forme di copertura, che di recente
la dottrina ha riesaminato e approfondito, sono in fondo riconducibili a un
principio elementare: per nessuna unità economica le spese correnti possono a
lungo eccedere le entrate.
Il vincolo del bilancio impone
l’aggiustamento all’individuo e all’impresa; alla pubblica amministrazione la
capacità primaria di credito consente di rinviarlo, non di eluderlo
indefinitamente.
Il tentativo di eluderlo non può che
inasprire l’imposta perversa dell’inflazione.
Occorre dunque tornare al rispetto di
principi che pongano limiti diretti e invalicabili al sistematico assorbimento
di risparmio da parte del settore pubblico.
Il vincolo del pareggio del bilancio
corrente attiverebbe meccanismi di controllo della qualità e della quantità
delle spese, costringendo a operare un diretto raffronto tra i benefici e i
costi delle prestazioni richieste alla pubblica amministrazione.
Si eviterebbe, altresì, il rinvio di vere
soluzioni ai problemi di fondo dell’economia, che spesso è favorito dal poterne
far ricadere gli oneri sul settore pubblico.
Per dare inizio al cammino verso il
pareggio è necessario realizzare un più stretto collegamento tra il bilancio
annuale e quello pluriennale; quest’ultimo dovrà essere il frutto di una
valutazione delle entrate e delle spese attenta e coerente con l’evoluzione
prevista dell’economia.
La prima norma da introdurre, nello
spirito dell’articolo 81 della Costituzione, è l’obbligo di un’integrale
copertura tributaria, sia per l’esercizio in corso sia per quelli successivi,
di ogni spesa corrente decisa in aggiunta a quelle già considerate nel bilancio
pluriennale.
Non va certo affidato al gioco
automatico dell’inflazione e del drenaggio fiscale il compito di accrescere la
pressione tributaria, ma non si può pensare di neutralizzare la progressività
delle imposte e di trascurare al tempo stesso le dimensioni globali del problema.
Non si tratta solo di intensificare risolutamente la lotta all’evasione, ma di restituire
all’area impositiva settori che hanno finito con l’esserle sottratti.
Squilibri gravi si annidano nel
sistema previdenziale e in quello sanitario.
In assenza di decisi interventi essi
determineranno nel volgere di pochi anni una pressione insostenibile sulle
risorse, soprattutto per l’invecchiamento della popolazione e il pieno dispiegarsi
degli automatismi introdotti anche di recente.
Nel settore sanitario, con l’attuazione
del decentramento si sta perdendo il controllo dei flussi di spesa; non vi è chiarezza
nella determinazione dei limiti posti agli organi locali; gli sconfinamenti finanziari
che si accumulano finiscono con il riversarsi al centro, dove le possibilità di
intervento sono ridotte.
Non si conseguiranno risultati
significativi se non si abbandonerà la pretesa secondo cui lo Stato debba e
possa farsi carico di ogni bisogno del cittadino.
Sono indispensabili riforme che non
si limitino alla correzione delle attuali incongruenze.
Esse dovranno avere per fondamento la
distinzione tra prestazioni essenziali, a carico della collettività, e forme
integrative, a carattere assicurativo e volontario, i cui oneri vanno coperti
con risparmio privato, come avviene in quasi tutti i paesi della CEE.
Nonostante l’entità delle spese,
l’Italia continua a soffrire di servizi pubblici insoddisfacenti o addirittura
carenti. La soluzione non sta nell’espandere senza limite il numero degli
addetti, ma nella ricerca di efficienza e nella riqualificazione dei servizi.
Senza erigere a vincolo assoluto la
copertura con le tariffe delle spese d’esercizio delle imprese di pubblica
utilità, il vaglio dei casi in cui è nell’interesse generale consentire l’uso
di determinati servizi a prezzi inferiori ai costi dovrà essere severo; le
sovvenzioni, da iscrivere tra le spese correnti, dovranno essere chiaramente individuate,
definite negli importi, collegate alle prestazioni fornite e non risultare
dalla semplice copertura a posteriori di qualsiasi disavanzo.
I finanziamenti concessi alle imprese
a partecipazione statale, attualmente compresi nel conto capitale, solo in
parte si riferiscono a veri investimenti: in parte ripianano perdite della
gestione corrente.
Anche qui occorrerà fare chiarezza
nei conti.
La voce della spesa pubblica che ha
mostrato negli ultimi anni la dinamica più accentuata è costituita dagli
interessi sul debito.
Nel 1981 essi sono ammontati a 30.000
miliardi, triplicandosi in quattro anni. L’espansione è dipesa sia dalla
lievitazione dei tassi sia dalla crescita del debito, che alla fine dell’anno
ascendeva a 275.000 miliardi.
V’è chi sostiene che l’aggiustamento
dovrebbe cominciare proprio con interventi volti a ridurre i pagamenti per
interessi, proponendo alcuni di allentare la restrizione monetaria, altri di
introdurre forme di indicizzazione reale dell’indebitamento pubblico che
concentrerebbero l’onere del servizio alla data di scadenza dei titoli.
Alla prima proposta rispondono le
considerazioni appena svolte sulla congiuntura interna e internazionale e sui
motivi che costringono a mantenere un orientamento di rigore monetario. Non si
deve confondere tra cause primarie e secondarie del disavanzo e
dell’inflazione, o addirittura tra cause ed effetti.
I tassi d’interesse reali positivi
frenano la domanda interna e favoriscono l’accumulazione di attività
finanziarie.
Certo sono essi stessi elementi di
costo e il loro aumento ha conseguenze indesiderate sull’inflazione; ma questi
effetti sono di gran lunga inferiori a quelli di segno opposto derivanti dal
controllo della domanda e dal sostegno del cambio.
Né si può ignorare che tassi reali
negativi sono un sussidio al debitore e una spoliazione del creditore.
Rimaniamo anche contrari
all’indicizzazione del debito pubblico ai prezzi, pur condividendone
l’obiettivo di equità verso i risparmiatori.
Ma l’equità deve essere garantita
ponendo fine alla distruzione di risparmio, non promettendo frutti che mai matureranno
sulla pianta secca di un cronico disavanzo corrente.
Gli obiettivi di ridurre l’incertezza
non solo del creditore ma dello stesso debitore e di favorire il finanziamento
con scadenza medio-lunga possono essere perseguiti senza ampliare l’area delle
indicizzazioni.
I finanziamenti a tasso variabile, che
la Banca ha promosso e gli operatori perfezionato con tecniche innovative,
hanno consentito di mantenere aperti i canali di raccolta oltre il breve
termine del Tesoro e dell’economia anche nella recente difficile congiuntura.
Al di là degli oneri per interessi,
destinati a ridursi al progredire del riequilibrio nell’economia, altri ben
individuati fattori, operanti soprattutto nel sistema previdenziale e in quello
sanitario, stanno sgretolando la struttura del bilancio.
È urgente disattivare questi
meccanismi dirompenti.
Ne trarrà decisivo sostegno la lotta all’inflazione
sia direttamente sia per l’impatto che l’avvio di un risanamento credibile delle
finanze pubbliche avrà di per sé sulle aspettative e sugli stessi tassi
d’interesse.
Sono misure che si impongono anche
per contrastare gli effetti di ampliamento del disavanzo dovuti ai tempi
diversi di reazione delle spese e delle entrate al recedere dell’inflazione.
Sarebbe grave errore muovere verso
l’indicizzazione del debito pubblico ai prezzi senza aver eliminato gli
scompensi di fondo del bilancio.
Si aggraverebbero per le generazioni
future i costi dell’uso presente di risorse e si attenuerebbero gli stimoli al riequilibrio
acuendo le difficoltà complessive.
Sappiamo bene che un’economia già
largamente indicizzata, e nella quale l’inflazione a due cifre imperversa da un
decennio, vive in uno stato di contraddizione, e che introdurre nuove clausole
del genere può apparire come un atto di razionalità.
Ma ci rifiutiamo all’idea che ancora
una volta, per cercare di uscire dalla contraddizione, venga data al sistema
una spinta verso quel vero abbandono della moneta che è l’indicizzazione
generalizzata, anziché porre mano a una seria riforma delle pubbliche finanze e
procedere alla riduzione delle indicizzazioni esistenti.
In questa direzione stanno procedendo
altri paesi europei, nei quali operano meccanismi di adeguamento automatico dei
salari, al fine di riportare la contrattazione collettiva a essere strumento di
governo dell’evoluzione dei redditi.
È questo il secondo vertice del
triangolo che conduce al ricupero dell’equilibrio monetario.
V’è crescente coscienza del fatto che
una dinamica del costo del lavoro superiore a quella della produttività non può
che portare alla coesistenza del ristagno con l’inflazione.
Le parti sociali devono darsi carico
di una nuova politica delle contrattazioni collettive e di una revisione di
meccanismi resi obsoleti da mutate condizioni obiettive.
Il presidio del salario reale va
ricercato nel rispetto delle regole che conducono a una buona moneta, e non in
comportamenti che determinano una spirale tra prezzi e salari.
L’operare dei meccanismi di scala
mobile finisce col nuocere a tutti: a chi preme sul mercato del lavoro, che
subisce l’incapacità del sistema di favorire gli investimenti di ampliamento
del potenziale produttivo; a chi è occupato, che paga il tentativo di difesa
del reddito reale con crescenti incertezze sul mantenimento del posto di
lavoro; alle organizzazioni dei lavoratori, schiacciate nelle loro
rivendicazioni dalla parte automatica degli aumenti e sotto il contraccolpo di
scelte che allontanano la prospettiva di maggiore occupazione.
Il triangolo in cui si iscrive il
ritorno alla stabilità monetaria si chiude restituendo alla banca centrale
piena autonomia nella creazione di moneta.
V’è chi crede che l’esercizio di
questa autonomia in senso inflessibilmente restrittivo sia condizione
sufficiente per assicurare l’equilibrio e per contenere gli stessi disavanzi pubblici.
La tesi, se poteva esser vera in
presenza di mercati atomistici e di un’amministrazione pubblica con peso e
funzioni assai più limitati di quelli attuali, non è vera oggi.
Non c’è una mano invisibile che operi
un rapido e duraturo riequilibrio della dinamica salariale e del disavanzo
pubblico in risposta al controllo della moneta.
Una rigorosa politica del credito fa
emergere le contraddizioni tra domanda monetaria e crescita reale e tra
fabbisogno pubblico e capacità di risparmio.
È dunque di fondamentale importanza,
in particolare allorché i disavanzi pubblici sono ampi e crescenti, che la
banca centrale possa esercitare una piena responsabilità nel governo dei flussi
monetari e finanziari.
Un importante progresso è stato
compiuto con l’abbandono della pratica secondo la quale l’istituto di emissione
fungeva da acquirente residuale dei BOT offerti alle aste.
Pur non risolvendo di per sé i
problemi di fondo, il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia,
che sarà perfezionato con l’introduzione delle aste competitive, meglio consente
il rispetto del principio di rilevanza costituzionale che pone precisi limiti
al diretto finanziamento monetario del disavanzo pubblico.
L’autonomia delle decisioni
riguardanti il controllo monetario da quelle attinenti alla gestione del debito
pubblico non deve essere intesa come rigida separazione nello svolgimento delle
rispettive funzioni. La composizione per scadenze e per caratteristiche di
rendimento delle attività finanziarie influenza il comportamento degli operatori
agendo sulla spesa e sui movimenti dei capitali con l’estero.
Il riscontro reciproco della politica
monetaria e della gestione del debito è necessario al perseguimento della
combinazione migliore tra finalità del governo della moneta, da un lato, e
minimizzazione del costo e allungamento della scadenza del debito pubblico,
dall’altro.
A questi criteri, nella distinzione
dei compiti, Tesoro e Banca d’Italia hanno continuato a improntare la loro
azione anche dopo che è cessato l’impegno da parte di quest’ultima di assorbire
alle aste i BOT non collocati sul mercato.
Nondimeno, quando le spinte
destabilizzanti del disavanzo pubblico si manifestino con particolare forza,
nelle scelte della banca centrale l’obiettivo del controllo monetario non può
non prevalere su quello della composizione del debito pubblico secondo la
scadenza.
Esso è elemento prioritario per
contenere l’inflazione; d’altra parte, solo arrestando il degrado monetario si
può ottenere un durevole ritorno dei privati sui titoli a lunga e ottemperare
al dettato della tutela del risparmio.
[FINE]
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