Paul Krugman
Adjustment and the dollar
24 ottobre 2009
Pubblicazione
disponibile qui
.
Gli squilibri internazionali e i tassi di cambio
[
Traduzione di Giorgio D.M. * ]
Ogni volta che nella discussione si
torna a parlare di tassi di cambio, certi zombie - idee errate che tu hai
ucciso ripetutamente ma che si rifiutano di morire - inevitabilmente fanno la
loro comparsa.
Quella che ora mi capita spesso di
sentire è la vecchia idea che i tassi di cambio non abbiano nulla a che vedere
con gli squilibri internazionali: il deficit del commercio con l’estero è la
differenza tra la spesa per investimenti e il risparmio, e questo è tutto
quello che c’è da sapere.
E’ un errore che John Williamson,
dell’Institute for International Economics, chiama la dottrina dei
trasferimenti immacolati [immaculate transfer].
Lasciate dunque che provi ad uccidere
lo zombie una volta di più.
Il punto di partenza è immaginare come
sarebbe il mondo (1) se si ritornasse a una condizione vicina al pieno impiego,
e (2) se si verificasse una significativa riduzione degli squilibri
internazionali - in particolare se gli Stati Uniti avessero un deficit molto
minore nel commercio con l’estero.
Perché gli Stati Uniti possano avere
un deficit molto minore nel commercio con l’estero (2), essi devono iniziare a spendere
rimanendo di più nei limiti dei loro mezzi, cioè la spesa totale negli Stati
Uniti deve diminuire in rapporto al PIL. La spesa del resto del mondo deve
aumentare in modo corrispondente [affinché la spesa totale mondiale non
diminuisca e una condizione vicina al pieno impiego si mantenga (1)].
Ma questa non è la fine della storia.
Supponete che la spesa degli Stati
Uniti diminuisca di 500 miliardi di dollari e che la spesa del resto del mondo
aumenti di 500 miliardi di dollari.
A parità delle altre condizioni, la
massima parte della diminuzione della spesa degli Stati Uniti ricadrebbe su
prodotti e servizi degli Stati Uniti stessi.
Ricordatevi che anche se comprate
prodotti cinesi da Walmart, gran parte del prezzo di quei prodotti rappresenta
i costi della distribuzione e della vendita al dettaglio.
Il mondo, si potrebbe dire, è ancora
molto lontano dall’essere davvero piatto.
Nello stesso tempo, una frazione
molto più piccola dell’incremento della spesa del resto del mondo ricadrebbe su
prodotti degli Stati Uniti.
Così, a parità delle altre
condizioni, la riallocazione della spesa condurrebbe a un eccesso di offerta di
prodotti e servizi degli Stati Uniti e a un eccesso di domanda per i prodotti e
i servizi realizzati altrove.
(Gli economisti che si occupano di
commercio internazionale sanno che sto parlando del problema
dei trasferimenti [transfer problem]).
Così, qualcosa deve diminuire - in
modo specifico, deve scendere il prezzo relativo della produzione degli Stati
Uniti, e con esso devono diminuire altre cose come i salari relativi dei
lavoratori degli Stati Uniti.
Ci sono tre modi nei quali questo può
accadere: (1) con la deflazione negli Stati Uniti, (2) con l’inflazione nel
resto del mondo, (3) con un deprezzamento del dollaro nei confronti delle altre
valute.
Lasciamo da parte la possibilità che
si abbia inflazione nel resto del mondo (2), sulla base della certezza che le banche
centrali impediranno che essa si verifichi.
La scelta è allora tra la deflazione
negli Stati Uniti (1) e un deprezzamento del dollaro nei confronti delle altre
valute (3).
Ed ecco il fatto: la deflazione è
difficile (chiedete alla Spagna) perché i prezzi sono vischiosi in termini nominali.
Come sappiamo che i prezzi sono rigidi
in termini nominali? Ci sono tantissime evidenze. Leggete per esempio “A Sticky Price Manifesto”
scritto da Larry Ball e da un tizio di nome Mankiw.
Però l’evidenza più cogente - conosciuta
da tutte le persone che si occupano di macroeconomia internazionale ma
stranamente ignorata dagli economisti che si occupano di macroeconomia
nazionale - proviene dai tassi di cambio.
La prima persona a conseguire questo
risultato probabilmente non fu altri che Milton
Friedman (rivolgetevi a Brad DeLong per sapere del declino della
Scuola di Chicago) ma l’analisi quantitativa davvero determinante venne
compiuta da Michael Mussa.
Mussa evidenziò il fatto che capita
una cosa bizzarra quando i paesi si muovono da tassi di cambio fissi a tassi di
cambio flessibili: i tassi di cambio nominali diventano molto più volatili,
ovviamente, ma lo diventano anche i tassi di cambio reali - i tassi di cambio
adeguati per tenere conto dei livelli dei prezzi.
Nel contempo, i tassi di inflazione
relativi rimangono all’interno di una fascia di oscillazione ristretta.
L’interpretazione ovvia è che il
tasso di cambio, una volta lasciato libero di fluttuare, oscilla notevolmente
mentre i prezzi interni espressi nella valuta nazionale sono vischiosi e non si
muovono molto.
Qui
è disponibile una versione aggiornata dell’osservazione di Mussa.
La figura in alto mostra le variazioni
trimestrali del logaritmo del tasso di cambio reale tra gli Stati Uniti e la
Germania.
La figura in basso scompone la
variazione trimestrale del logaritmo del tasso di cambio reale tra gli Stati Uniti
e la Germania nelle variazioni del tasso di cambio nominale e dei differenziali
di inflazione.
L’osservazione di Mussa è
evidentissima.
Così, ecco la conclusione: per ridurre
i disequilibri internazionali è necessario un più basso prezzo relativo della
produzione degli Stati Uniti.
Poiché i prezzi sono rigidi, la via
di gran lunga più semplice per ottenere questo risultato è il deprezzamento del
dollaro.
[FINE]
* Tasso di cambio
reale, tasso di cambio nominale e prezzi relativi
dove:
R: tasso di
cambio reale,
E: tasso di
cambio nominale dollaro/marco-euro,
PG:
livello dei prezzi in Germania,
PUS:
livello dei prezzi negli Stati Uniti.
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