domenica 24 marzo 2013

Gli squilibri internazionali e i tassi di cambio




Paul Krugman

Adjustment and the dollar

24 ottobre 2009
Pubblicazione disponibile qui .


Gli squilibri internazionali e i tassi di cambio

[ Traduzione di Giorgio D.M. * ]


Ogni volta che nella discussione si torna a parlare di tassi di cambio, certi zombie - idee errate che tu hai ucciso ripetutamente ma che si rifiutano di morire - inevitabilmente fanno la loro comparsa.
Quella che ora mi capita spesso di sentire è la vecchia idea che i tassi di cambio non abbiano nulla a che vedere con gli squilibri internazionali: il deficit del commercio con l’estero è la differenza tra la spesa per investimenti e il risparmio, e questo è tutto quello che c’è da sapere.
E’ un errore che John Williamson, dell’Institute for International Economics, chiama la dottrina dei trasferimenti immacolati [immaculate transfer].
Lasciate dunque che provi ad uccidere lo zombie una volta di più.

Il punto di partenza è immaginare come sarebbe il mondo (1) se si ritornasse a una condizione vicina al pieno impiego, e (2) se si verificasse una significativa riduzione degli squilibri internazionali - in particolare se gli Stati Uniti avessero un deficit molto minore nel commercio con l’estero.

Perché gli Stati Uniti possano avere un deficit molto minore nel commercio con l’estero (2), essi devono iniziare a spendere rimanendo di più nei limiti dei loro mezzi, cioè la spesa totale negli Stati Uniti deve diminuire in rapporto al PIL. La spesa del resto del mondo deve aumentare in modo corrispondente [affinché la spesa totale mondiale non diminuisca e una condizione vicina al pieno impiego si mantenga (1)].

Ma questa non è la fine della storia.
Supponete che la spesa degli Stati Uniti diminuisca di 500 miliardi di dollari e che la spesa del resto del mondo aumenti di 500 miliardi di dollari.
A parità delle altre condizioni, la massima parte della diminuzione della spesa degli Stati Uniti ricadrebbe su prodotti e servizi degli Stati Uniti stessi.
Ricordatevi che anche se comprate prodotti cinesi da Walmart, gran parte del prezzo di quei prodotti rappresenta i costi della distribuzione e della vendita al dettaglio.
Il mondo, si potrebbe dire, è ancora molto lontano dall’essere davvero piatto.

Nello stesso tempo, una frazione molto più piccola dell’incremento della spesa del resto del mondo ricadrebbe su prodotti degli Stati Uniti.
Così, a parità delle altre condizioni, la riallocazione della spesa condurrebbe a un eccesso di offerta di prodotti e servizi degli Stati Uniti e a un eccesso di domanda per i prodotti e i servizi realizzati altrove.
(Gli economisti che si occupano di commercio internazionale sanno che sto parlando del problema dei trasferimenti [transfer problem]).

Così, qualcosa deve diminuire - in modo specifico, deve scendere il prezzo relativo della produzione degli Stati Uniti, e con esso devono diminuire altre cose come i salari relativi dei lavoratori degli Stati Uniti.

Ci sono tre modi nei quali questo può accadere: (1) con la deflazione negli Stati Uniti, (2) con l’inflazione nel resto del mondo, (3) con un deprezzamento del dollaro nei confronti delle altre valute.
Lasciamo da parte la possibilità che si abbia inflazione nel resto del mondo (2), sulla base della certezza che le banche centrali impediranno che essa si verifichi. 
La scelta è allora tra la deflazione negli Stati Uniti (1) e un deprezzamento del dollaro nei confronti delle altre valute (3).

Ed ecco il fatto: la deflazione è difficile (chiedete alla Spagna) perché i prezzi sono vischiosi in termini nominali.
Come sappiamo che i prezzi sono rigidi in termini nominali? Ci sono tantissime evidenze. Leggete per esempio “A Sticky Price Manifesto” scritto da Larry Ball e da un tizio di nome Mankiw.
Però l’evidenza più cogente - conosciuta da tutte le persone che si occupano di macroeconomia internazionale ma stranamente ignorata dagli economisti che si occupano di macroeconomia nazionale - proviene dai tassi di cambio.

La prima persona a conseguire questo risultato probabilmente non fu altri che Milton Friedman (rivolgetevi a Brad DeLong per sapere del declino della Scuola di Chicago) ma l’analisi quantitativa davvero determinante venne compiuta da Michael Mussa.

Mussa evidenziò il fatto che capita una cosa bizzarra quando i paesi si muovono da tassi di cambio fissi a tassi di cambio flessibili: i tassi di cambio nominali diventano molto più volatili, ovviamente, ma lo diventano anche i tassi di cambio reali - i tassi di cambio adeguati per tenere conto dei livelli dei prezzi.
Nel contempo, i tassi di inflazione relativi rimangono all’interno di una fascia di oscillazione ristretta.
L’interpretazione ovvia è che il tasso di cambio, una volta lasciato libero di fluttuare, oscilla notevolmente mentre i prezzi interni espressi nella valuta nazionale sono vischiosi e non si muovono molto.

Qui è disponibile una versione aggiornata dell’osservazione di Mussa. 




La figura in alto mostra le variazioni trimestrali del logaritmo del tasso di cambio reale tra gli Stati Uniti e la Germania.
La figura in basso scompone la variazione trimestrale del logaritmo del tasso di cambio reale tra gli Stati Uniti e la Germania nelle variazioni del tasso di cambio nominale e dei differenziali di inflazione.
L’osservazione di Mussa è evidentissima.

Così, ecco la conclusione: per ridurre i disequilibri internazionali è necessario un più basso prezzo relativo della produzione degli Stati Uniti.
Poiché i prezzi sono rigidi, la via di gran lunga più semplice per ottenere questo risultato è il deprezzamento del dollaro.


[FINE]




* Tasso di cambio reale, tasso di cambio nominale e prezzi relativi



dove:
R: tasso di cambio reale,
E: tasso di cambio nominale dollaro/marco-euro,
PG: livello dei prezzi in Germania,
PUS: livello dei prezzi negli Stati Uniti.


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