Alessandro Galante Garrone
Questa nostra Repubblica
Galante Garrone, A.
(1959). “Questa nostra Repubblica”. Torino: Loescher. pp. XV, 64-74, 78-82.
Questa nostra Repubblica
Non è una repubblica improvvisata, sorta da un impeto subitaneo di passione,
espugnata d’assalto come una trincea: è una repubblica lungamente meditata e
consapevolmente voluta, uscita dalla ragione e dal buon senso popolare,
conclusione logica e pacificatrice di una coscienza civile maturata
nell’esperienza del dolore.
La Repubblica: la nostra famiglia, la nostra casa, questo senso di civica
responsabilità di un popolo che finalmente si sente padrone del proprio
destino; questo senso di vicinanza e di solidarietà in cui ci riconosciamo e
sentiamo che ognuno conta e conterà d’ora innanzi per uno, e che le mani di chi
lavora e lavorerà potranno stringersi fiduciose e concordi, ora che questo atto
di solenne giustizia storica è stato compiuto.
(Pietro Calamandrei, giugno 1946)
I problemi sociali. Crisi del liberismo capitalistico
Nel secolo scorso si usava parlare di
“questione sociale”, di “problema sociale”: e l’espressione, nella sua vaga
genericità, si tingeva spesso di un colore arcano e oscuro, a volte quasi
terribile, per lo sbigottimento che suscitavano nelle classi possidenti le
accese rivendicazioni e i fermenti e le dottrine del socialismo nascente e
delle classi lavoratrici.
Oggi, con più sereno distacco,
possiamo invece tranquillamente parlare, senza gli sgomenti o le audacie di un
secolo fa, di “problemi sociali anche con riferimento alla loro evoluzione
storica”: così come leggiamo nel recente programma di educazione civica per le
scuole.
Non è questa la sede per tracciare la
lunga storia dei contrasti sociali e delle lotte di classi nei secoli scorsi, e
delle varie dottrine comuniste e socialiste (dagli zappatori o veri livellatori
del Seicento inglese alle settecentesche ideologie comuniste di Mably e di
Morelly e al programma di Babeuf nel chiudersi della Rivoluzione francese; dal
sansimonismo e dal fourierismo della prima metà dell’Ottocento al socialismo
scientifico di Marx) e del movimento operaio (dal Cartismo e dal trade-unionismo inglese alla Prima e
alla Seconda Internazionale).
Qui basterà dire che tutta la lunga
evoluzione storica dei problemi sociali, nei suoi multiformi e contrastanti
aspetti, era ben presente e viva nello spirito dei nostri Costituenti.
E come la solidarietà sociale di cui parla la Costituzione non può
considerarsi soltanto un riflesso del solidarismo
cristiano-sociale e dell’Enciclica Rerum
Novarum, ma è piuttosto, lo si è visto, il punto di incontro di questa con
altre correnti, così gli articoli costituzionali che toccano più da vicino i
più delicati problemi sociali del nostro tempo sono il frutto di un accordo tra
le varie correnti, la confluenza di diverse esperienze storiche su un terreno
comune da tutti riconosciuto.
E quello che ora diremo spiegherà
meglio il senso di questa premessa.
Il primo di questi problemi sociali è
il problema del rapporto dell’individuo con l’economia del nostro tempo.
E’ un problema che si sdoppia, a
seconda che lo si consideri nel suo momento dinamico – iniziativa privata -,
oppure statico – proprietà privata -.
Ad esso sono dedicati alcuni
importantissimi articoli della Costituzione: art. 41, 42, 43.
Essi riflettono un’incontestabile
evoluzione storica, che ha profondamente alterato, dal principio dell’Ottocento
a oggi, i rapporti economici.
Si può dire che l’economia
capitalistica, quale si era venuta atteggiando alla fine del Settecento e aveva
trionfato nel corso dell’Ottocento, poggiasse su due cardini fondamentali:
l’assoluta libertà dell’iniziativa privata, e l’inviolabilità della proprietà
privata.
La celebre formula del laissez faire laissez passer riassumeva
e simboleggiava questa esigenza della intangibilità della sfera economica
dell’individuo.
Fu una grande illusione: forse la più
grande, di tutte le generose illusioni di cui fu prodigo il secolo scorso.
Questo atteggiamento di assoluto
liberismo economico, di rispetto e anzi esaltazione dell’iniziativa individuale
e della proprietà privata, rappresentava indubbiamente un momento positivo, di
progresso, nella storia umana: poiché significava liberazione da tutte le
pastoie dell’antico regime, soppressione dei vincoli corporativi e dei
privilegi di casta, espansione dell’industria, dell’agricoltura, del commercio;
in una parola, modernizzazione della vita economica.
Fu questo il periodo aureo
dell’economia capitalistica.
Ma questo principio dell’assoluta
libertà economica privata, fin dal suo primo vittorioso affermarsi, fu assalito
da opposte sponde.
Da un lato i conservatori, i
reazionari, i nostalgici dell’economia precapitalistica, dall’altro i nascenti
movimenti socialisti partirono all’attacco, denunciando con amari rimbrotti i
mali e le contraddizioni e le ingiustizie del capitalismo, della sfrenata
libertà economica.
Ma ancor più grave, per le sue
conseguenze, fu il processo che si svolse all’interno stesso dell’economia
capitalistica, e cioè l’inarrestabile formarsi di grandi trusts, di monopoli, che finivano per distruggere quella stessa
assoluta libertà economica che sembrava essere il perno del sistema.
Di qui la crisi inevitabile
dell’economia liberale ottocentesca, e la necessità di sottoporre a revisione i
principi tradizionali, di circoscrivere entro certi limiti i diritti fino
allora assoluti e inviolabili dell’iniziativa individuale e della proprietà
privata.
Questa evoluzione storica si produsse,
con maggiore o minore celerità e profondità, in quasi tutti i paesi.
E non è immaginabile un ritorno al
passato.
Lo disse chiaramente l’on Fanfani
alla Costituente: “Oggi, e non soltanto in Italia, si vive in un’economia di
trapasso”.
Quello che qui importa notare, è che
i nostri Costituenti si trovarono d’accordo nel dare atto di questa grande
trasformazione, e nello stabilire i principi economico-sociali ai quali si deve
attenere, in questo campo, la nostra Repubblica.
L’iniziativa privata e l’intervento dello Stato
Dicevamo che la libertà economica
dell’individuo si traduce, nel suo aspetto dinamico, nella libertà di
iniziativa privata; e, nel suo aspetto statico, nella proprietà privata.
Quanto al primo aspetto, dispone
l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. – Non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana. – La legge determina i programmi e i controlli
opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Nel primo comma si afferma, a guisa
di premessa generale, il principio della libertà della iniziativa economica
privata.
Tutti possono pertanto farsi
imprenditori di uno qualsiasi dei settori dell’economia, liberamente
determinarsi, nelle loro scelte e decisioni, secondo la legge dell’interesse
individuale, senza arbitrarie preclusioni o imposizioni.
Ma questa libertà dell’homo oeconomicus non è illimitata.
Per il secondo comma, essa trova i
suoi limiti nell’utilità sociale, e nella sicurezza, nella libertà, nella
dignità umana.
Qualcosa di simile si leggeva nella
Costituzione di Weimar del 1919, secondo cui la libertà economica
dell’individuo doveva conformarsi a principi di giustizia, in modo che a tutti
fosse assicurata “un’esistenza conforme alla dignità umana”.
Ora, siffatte affermazioni sembrano,
a tutta prima, sfornite di un significato preciso, mere annunciazione astratte.
E un grande economista, che fu pure
Costituente, e poi presidente della nostra Repubblica, Luigi Einaudi, criticava
appunto, durante i lavori preparatori, la espressione di “utilità sociale” come
priva di significato, dottamente ricordando le dispute che erano sorte fra gli
studiosi sin da quando Bentham aveva contrapposto l’utilità sociale alla
utilità individuale.
Ma se poniamo in rapporto queste
affermazioni con altre della stessa Carta Costituzionale, allora ci avvediamo
che hanno un senso ben preciso.
Esse sanciscono che i pubblici poteri
hanno il dovere di intervenire nella vita economica ogniqualvolta il libero
gioco delle iniziative individuali possa contrastare il raggiungimento dei fini
sociali che quei poteri si propongono, o compromettere il libero e sicuro e
dignitoso espandersi dell’attività umana.
L’economia, in altri termini, deve
essere subordinata a certe esigenze generali di benessere e di giustizia, di
cui solo lo Stato può farsi interprete.
Può sembrare un principio formulato
in modo troppo ampio: ma, appunto per questa sua indeterminatezza, esso
permette allo Stato di intervenire nel campo dell’economia tutte le volte in
cui l’interesse della collettività lo richieda.
Per esempio, l’illimitato disfrenarsi
della libertà economica può, come si è visto, condurre, per una intima logica
di sviluppo, al formarsi di monopoli, con danno evidente delle larghe masse dei
consumatori.
In tal caso, lo Stato avrà, per
l’art. 41, il diritto di intervenire er arginare e combattere questi monopoli.
Proprio l’on. Einaudi, alla
Costituente, ebbe a dire: “Il male più profondo della società presente, è
l’esistenza di monopoli, danno supremo
dell’economia moderna, che dà alti prezzi, produzione ridotta e quindi
disoccupazione”.
Ed egli aveva perfino proposto
l’aggiunta di un comma che dicesse: “ La legge non è strumento di formazione di
monopoli economici; e ove questi esistano li sottopone al pubblico controllo a
mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta”.
La proposta non fu poi accolta; ma è
indubbio che nella dizione ampia dell’art. 41 rientra anche questo potere dello
Stato di combattere i monopoli.
In generale, si può dire che lo Stato
avrà il diritto-dovere di intervenire nel settore dell’economia ogniqualvolta
lo richiedano esigenze di solidarietà sociale: inteso questo termine nel senso
amplissimo che abbiamo più di una volta messo in luce.
Ma come si attuerà questo intervento
dello Stato, e degli enti pubblici in genere, nella vita economica?
Alla domanda risponde l’ultimo comma
dell’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché
l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali”.
Da questa e da altre norme si deduce
che fu estraneo ai Costituenti il proposito di introdurre da noi una
pianificazione integrale di tipo sovietico.
Il tipo al quale piuttosto si volse
la nostra Costituzione è quella della economia
regolata, o dirigismo economico;
o anche, come taluni dicono, della economia
a due settori.
Lo Stato, cioè, pur lasciando libero
campo all’iniziativa privata in via generale, e quindi entro una larghissima
sfera, si riserva di intervenire, e interviene, quando lo richiedano i “fini sociali”
che esso si è assunto.
La storia contemporanea ci avverte
che anche nei paesi ove il capitalismo ebbe la massima fioritura – i paesi
anglosassoni – questa esigenza si è fatta sentire.
Si pensi alle riforme avviate fin dal
1933 negli Stati Uniti dal presidente Roosevelt (riforme nel campo industriale,
agricolo, monetario, bancario, che vanno sotto il nome di New Deal); o anche quelle attuate dal governo laburista in
Inghilterra in questo secondo dopoguerra.
I tradizionali dettami
dell’astensionismo dello Stato in materia economica sono stati, anche in questi
paesi, ripudiati per sempre.
Un ritorno alla libera economia di
mercato, all’assoluta indipendenza dell’iniziativa economica privata, non è
neppure pensabile.
Notiamo ancora che l’art. 41 parla di
controlli e di programmi, non di piani.
Le proposte che in tal senso erano
state avanzate alla Costituente furono tutte respinte.
Evidentemente, si voleva allontanare
anche solo il sospetto che con l’art. 41 si avesse di mira una pianificazione
integrale.
Ma è certo che dei piani limitati,
parziali, per determinati settori dell’economia, sono da ritenersi compresi
nella norma costituzionale.
La quale dice un’altra cosa ancora: i
programmi e i controlli non sono rimessi all’arbitrio dell’amministrazione, ma
sono sempre “determinati dalla legge”.
E’ anche questa una garanzia di
libertà.
Abbiamo già oggi in Italia alcuni
idonei strumenti per l’attuazione di questa politica d’intervento pubblico
nell’economia: l’IRI (Istituto della
Ricostruzione Industriale: sorto e sviluppatosi già in epoca fascista, in
conseguenza di quella generale evoluzione storica di cui si è detto), il
Ministero delle Partecipazioni Statali, e così via.
Molte altre leggi dovranno essere
emanate in questo campo.
Ma ciò che conta, non è tanto avere a
disposizione gli adatti strumenti legislativi, quanto saperli e volerli
maneggiare per “indirizzare e coordinare ai
fini sociali l’attività economica pubblica e privata”, come vuole l’art.
41.
Le forze monopolistiche, questo
“danno supremo dell’economia moderna” – come le chiamava Luigi Einaudi –
cercheranno sempre, per la loro stessa natura, di contrastare e imbrigliare e
piegare l’azione dei pubblici poteri.
Anche in questo campo, la norma
costituzionale ci addita una via da percorrere con assoluta energia.
La proprietà privata
L’art. 42 si occupa della proprietà.
Non tutto l’articolo ha la stessa
importanza.
Il primo comma è meramente
classificatorio, e tutt’al più può valere come affermazione del principio che i
privati possono essere proprietari di qualsiasi bene, nessuno escluso.
Il terzo comma richiama il principio
dell’espropriazione per pubblica utilità; il quarto, i diritti dello Stato
sulle eredità. Né l’uno né l’altro meritano lungo commento.
E’ invece molto importante il secondo
comma: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne
la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Se volgiamo lo sguardo al passato,
salta subito agli occhi una differenza essenziale.
La proprietà era un tempo considerata
(per esempio da Locke) come il più tipico dei diritti naturali.
Ad essa, pertanto, era riservato un
posto d’onore in tutte le Costituzioni della fine del Settecento; anche in quella
giacobina, del 1793.
Era uno dei principali “diritti di
libertà”.
Anche lo Statuto albertino la
annoverava tra questi diritti, subito dopo la libertà individuale,
l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa.
Nella nostra Costituzione, invece,
essa prende posto fra i rapporti economici; non si affianca, come voleva la
tradizione, ai diritti di libertà.
E questa diversa collocazione è già
di per sé molto significativa.
Ma non basta.
Se mettiamo a confronto la nostra
Costituzione con quelle ottocentesche, l’accento si è spostato dalla sua
assolutezza, dalla sua inviolabilità, ai suoi limiti, al suo dover tener conto delle esigenze sociali.
L’art. 29 dello Statuto diceva:
“Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili”.
Ma la Costituzione di Weimar del 1919
affermava: “La proprietà comporta obblighi. Il suo esercizio deve essere al
tempo stesso un servizio reso al bene comune”.-
La Costituzione italiana sembra
essersi ispirata a un non dissimile criterio di solidarietà sociale.
La legge deve determinare i limiti
della proprietà, e il modo stesso di acquistarla e di trarne frutti, allo scopo di assicurarne la funzione
sociale.
Intendiamoci.
Anche secondo i giusnaturalisti e
riformatori del Sei e Settecento e le Costituzioni dell’Ottocento, la proprietà
non era concepita e definita come un diritto assoluto, che per sua natura non
patisse limiti, uno sconfinato ius utendi
et abutendi.
E che l’interesse generale, e la
tutela del prossimo, potessero e dovessero imporre qualche limite, era ammesso
pacificamente.
Lo stesso Turgot, nel Settecento,
aveva detto: “Il diritto di proprietà è fondato sull’utilità generale; esso vie
è dunque subordinato, e il legislatore ha il diritto di vigilare sull’impiego
che ogni privato fa delle sue terre”.
Questo concetto di un limite era
implicito anche nello stesso Codice Napoleonico, e anche nell’art. 436 del
Codice civile italiano del 1865: “La proprietà è il diritto di godere e
disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso
vietato dalle leggi e dai regolamenti”.
Ma in questa e in altre consimili
definizioni l’accento, come dicevamo, non cadeva sui limiti della proprietà, ma
sulla sua assolutezza e intangibilità.
E la ragione storica di questa
accentuazione è evidente.
Le classi uscite vittoriose dalle
rivoluzioni della fine del Settecento avevano soprattutto bisogno di
consacrare, contro gli arbitri, le vessazioni, i vincoli dei governi dispotici
dell’antico regime, il rispetto della proprietà privata quasi come una proiezione
dell’intangibile libertà dell’uomo.
Le borghesie liberali vedevano nella
tutela di tutte le proprietà un presidio della loro novella forza politica e
sociale.
Ma con l’affermarsi delle correnti
democratiche e socialiste, e (come potremmo dire ancora più largamente) per
riflesso dell’evoluzione stessa dell’economia, che portava alla luce gli
inconvenienti di uno sfrenato individualismo e la necessità di arginarlo, si
venne gradatamente affermando l’idea di una funzione
sociale della proprietà.
Abbiamo visto la caratteristica norma
della Costituzione di Weimar.
La legislazione di tutti i paesi
risentì più o meno l’influenza di questo lungo processo storico, tuttora in
corso.
Anche il nuovo Codice civile del 1942
dava della proprietà une definizione che, rispetto a quella del 1865, ne
attenuava l’assolutezza e per contro ne accentuava i limiti: “Il proprietario
ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i
limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
Ben più avanzato ci appare, su questa
strada, l’art. 42 della Costituzione, che parla espressamente della “funzione
sociale” della proprietà, e indica altresì lo scopo politico-sociale al quale
devono tendere le leggi regolanti la proprietà: quello di renderla accessibile a tutti.
E la strada, ripetiamolo, è quella
della solidarietà sociale.
La “socializzazione”
Ma vediamo, in concreto, quali passi
debbano essere compiuti su questa strada, secondo i dettami costituzionali.
Per l’art. 43, “ai fini di utilità
generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante
espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di
lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni
di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse sociale”.
Nel sistema dell’economia regolata, vi è
dunque un settore sottratto all’iniziativa privata.
La delimitazione di questo settore, più
o meno ampio a seconda dei paesi e dei momenti storici, è fatta in base al
criterio dell’”utilità generale”; e questa delimitazione è compito dello Stato,
che la stabilisce per mezzo di leggi.
Quali imprese possono rientrare in
questo settore?
Lo dice l’art. 43: si tratta di
imprese che abbiano carattere di preminente interesse generale, per le quali
cioè si debba tener conto, più che del criterio del tornaconto privato, di
quello dell’interesse della collettività.
Queste imprese possono essere di tre
categorie: a) O si riferiscono a
servizi pubblici essenziali. Per esempio, le imprese telefoniche. b) O si riferiscono a fonti di energia.
Per esempio l’industria elettrica; o quella, che potrà avere un largo sviluppo
nel futuro, della produzione dell’energia nucleare. c) O, infine, si riferiscono a situazioni di monopolio.
Le imprese di questo terzo tipo, una
volta eliminato il gioco della libera concorrenza, ove non fossero controllate
dai poteri pubblici, potrebbero fissare i prezzi che credessero, scegliere i
metodi produttivi e i mercati che preferissero, imporre la loro volontà ai
consumatori.
In tutti questi casi – a, b,
c -, se lo Stato non intervenisse gli
interessi della collettività sarebbero impunemente sacrificati.
Lo Stato, se non vuole abdicare ai
suoi crescenti doveri, deve dunque sottrarre queste imprese alla iniziativa
privata.
Il che potrà essere fatto in vario
modo: o facendosi lo Stato stesso gestore di queste imprese (statizzazione, nazionalizzazione), o affidandosene la gestione a enti pubblici (municipalizzazione: es. le aziende
municipali per l’energia elettrica o l’acqua potabile) ovvero a comunità di
lavoratori o di utenti (socializzazione).
Il termine di socializzazione è anche
usato, più comprensivamente, per indicare tutte le su accennate forme di
sostituzione dell’iniziativa economica individuale.
Non è qui il caso di entrare nei
particolari.
Basterà dire che nell’art. 43 è
implicito tutto un ardito programma di riforme: che a tutt’oggi è ben lungi
dall’essere stato compiutamente realizzato.
Non si pensi che il percorrere questa
strada significhi sovvertire gli esistenti rapporti economici e sociali,
l’avventurarsi sul terreno delle violente espropriazioni.
Si tratta invece, di riportare un po’
d’ordine là dove impera il più sfrenato disordine, di sottoporre a un pubblico
controllo i settori dell’economia dai quali direttamente dipendono gli
interessi della collettività.
[…]
Il diritto al lavoro
Siamo venuti così a parlare della
dignità sociale del lavoro, come di una pietra angolare del nostro edificio
costituzionale.
Questo principio lo troviamo
enunciato dalle parole stesse con cui si apre la Costituzione: “L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro”;
e ribadito dall’art. 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale che … impediscono … l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”.
Ma la consacrazione esplicita del
lavoro, come diritto e dovere di tutti i cittadini, è nell’art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini
il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto. – Ogni cittadino ha il
dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società”.
Il punto più notevole di questa
affermazione costituzionale è il riconoscimento del diritto al lavoro.
Gli antecedenti storici di questo
riconoscimento risalgono ben addietro nel tempo.
Già la costituzione giacobina del
1793 aveva detto: “La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia
procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che
non sono in età di poter lavorare”.
Ma questa proclamazione si inquadrava
in un generale orientamento di soccorsi pubblici, considerati enfaticamente “un
debito sacro”; non giungeva al punto di riconoscere un vero e proprio diritto al lavoro.
Si doveva giungere alle lotte
democratiche e sociali dell’Ottocento, perché il lavoro fosse considerato,
anziché un debito della società, un diritto dell’uomo.
Gli operai lionesi erano insorti nel
1831 inalberando la celebre insegna: “Vivre
en travaillant ou mourir en combattant” [vivere lavorando o morire
combattendo].
E da quel giorno le correnti
repubblicane e socialisteggianti della Monarchia di luglio avevano iscritto
quel diritto tra le loro prime rivendicazioni; e Louis Blanc lo aveva
teorizzato.
Il droit au travail era stato uno degli slogan più correnti della rivoluzione del 1848, e gli ateliers nationaux una prima
realizzazione, quanto mai infelice e imperfetta, di quel diritto, che nella
Costituzione repubblicana del 1848 non ebbe se non un riconoscimento vago e indiretto.
Solo nel nostro secolo si ebbero le
prime formulazioni esplicite del diritto; e la nostra Costituzione, sotto
questo rispetto, può considerarsi all’avanguardia.
L’art. 4 acquista un rilievo più
preciso se lo si mette in rapporto con altri articoli della nostra Carta: il
35, il 36, il 37.
Ma prima occorre intendersi sulla
esatta portata dell’art. 4 .
Il quale, dopo aver detto che la
Repubblica riconosce a tutti il diritto al lavoro, aggiunge che essa promuove
le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Questo vuol dire che, per la
Costituzione, l’effettivo diritto al lavoro ancora non esiste; ma attende che
determinate condizioni per la sua effettuazione siano promosse.
Osservò un giorno Calamandrei: “ A
voler essere sinceri, molte delle disposizioni della nostra Costituzione
dovrebbero essere scritte al futuro: per mantenerle al presente, bisognerebbe
al verbo far precedere la negazione”.
E in particolare, egli scrisse
dell’art. 4 “Questo vuol dire che verrà un tempo in cui ogni cittadino avrà il
diritto effettivo di trovare lavoro e
il dovere effettivo di lavorare; ma
per ora, nella società presente non c’è né questo diritto né questo dovere”.
Dobbiamo allora concludere che l’art.
4 si riduca a non altro che a una platonica affermazione di principi astratti?
No, perché in esso – come disse lo stesso
Calamandrei – “c’è il chiaro proposito di un lavoro da iniziare senza ritardo”.
E questo lavoro si riassume in una
implacabile lotta contro la disoccupazione e la miseria, per il “pieno
impiego”.
E’ una realtà ancora di là da venire,
il Welfare State: cui tendeva in
Inghilterra il piano Beveridge, e in Italia il piano Vanoni.
Per avere un’idea della vastità di
questo compito, rimandiamo alle due inchieste parlamentari, che sono state
promosse alcuni anni fa in Italia, sulla disoccupazione e la miseria.
Esse hanno messo a nudo i mali che
ancora affliggono le “zone depresse” del nostro paese.
E fino a che questi mali non saranno
sradicati, l’art. 4 dovrà avere per tutti noi il valore di un impegno
categorico e perentorio.
Questo impegno costituzionale di
trasformare la società per rendere effettivo il diritto al lavoro,, risulta
dagli altri articoli che ora si sono nominati.
Per l’art. 35, la Repubblica tutela
il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, cura la formazione e
l’elevazione professionale dei lavoratori, promuove e favorisce gli accordi e
le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del
lavoro, riconosce la libertà di emigrazione, tutela il lavoro italiano
all’estero.
In questa enumerazione è contenuto
tutto un fervido programma di iniziative statali, inserite nel quadro d’intese
internazionali.
Una particolare importanza ha il
primo comma dell’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”.
Anche a questo proposito potremmo
dire che la realtà d’oggi è ben lontana dal consentire a ogni lavoratore quel
minimo a cui, per l’art. 36, egli ha pur diritto.
Parlare di questo diritto in un paese come il nostro, in
cui tanta gente ancor vive, denutrita, nella miseria più squallida e
indecorosa, assume quasi sapore d’ironia.
Ancora il Calamandrei ha detto: “In
realtà oggi i lavoratori questo diritto non l’hanno, e bisogna trasformare la
società in modo da far sì che venga il tempo in cui effettivamente sia
assicurata a tutti i lavoratori quell’esistenza libera e dignitosa che oggi per
molti di essi è soltanto una struggente speranza”.
Ma una volta ancora dobbiamo
avvertire che questa norma costituzionale non si riduce a una platonica
affermazione di principio, ma assume un preciso, cogente valore
politico-sociale, e anche giuridico.
Essa è cioè suscettibile di immediata
applicazione allorché si tratti di determinare in concreto – nei casi in cui la
questione sia sottoposta al giudice – la giusta retribuzione spettante al
lavoratore.
Si tratta (per rifarci alla
distinzione già più volte da noi ricordata) di una norma di carattere
precettivo, non soltanto programmatico.
Lo ha detto più volte la Corte di
Cassazione, che in questo caso è stata ben più netta e recisa che in altri: “Il
principio della minima retribuzione sufficiente che, per le sue finalità
economico-sociali, si inserisce nel quadro dei diritti personali assoluti, [è]
consacrato dall’art. 36 della Costituzione che ha carattere precettivo ed è di applicazione immediata e diretta”.
Dunque, l’articolo 36 già vive nel
nostro ordinamento giuridico, ha una portata effettiva; e i giudici, in
determinati casi, già lo applicano.
Si tratta, per quanto riguarda il
futuro, di estenderne il campo di applicazione, di trasformare la realtà
sociale del nostro paese in modo che tutti i cittadini lavoratori possano
invocare quel diritto, e considerarlo anzi un bene universalmente acquisito e
intangibile, come l’aria che si respira.
L’art. 36 e l’art. 37 pongono poi
sotto l’egida costituzionale altri diritti del lavoratore, ormai
tradizionalmente riconosciuti dalla legislazione sociale di tutti i paesi
civili, fin da quando il movimento operaio aveva denunciato le crude sofferenze
poste in essere dalla rivoluzione industriale: così per qual che riguarda la
durata massima della giornata lavorativa, il riposo settimanale, le ferie, il
lavoro delle donne e dei fanciulli.
L’autorità della Costituzione è
venuta a rafforzare l’efficacia e l’inderogabilità di tutte queste norme
protettive del lavoro.
Un particolare rilievo va dato a una
norma contenuta nell’art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a
parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
Essa è l’applicazione, al campo del
lavoro, del principio della parità dei sessi sancito dall’art. 3; e ha un
indubbio carattere precettivo.
[FINE]
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