Luigi Cavallaro
Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre"
Pubblicato il 17
febbraio 2008 su Il manifesto.
Ripreso il 20
febbraio 2008 da sinistrainrete qui.
Le due destre
Dodici anni fa, Marco Revelli
pubblicò un libro intitolato "Le due destre".
Vi si sosteneva che lo scenario
politico italiano vedeva contrapporsi non una destra e una sinistra, bensì due
destre, una tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra], l'altra populista e
plebiscitaria [il centrodestra].
Che entrambe avevano l'obiettivo di
offrire una sponda al processo di ristrutturazione in corso nel mondo
produttivo, smantellando le regole e le garanzie su cui si era costruito il
compromesso socialdemocratico della seconda metà del '900.
Che entrambe rimettevano al centro
del discorso politico l'impresa, in pro della quale si prefiggevano
privatizzazioni del patrimonio industriale pubblico, flessibilizzazione del
mercato del lavoro e tagli delle prestazioni sociali (dalle pensioni alla
sanità alla scuola).
E che, unite nei fini, esse si
distinguevano nei mezzi, la destra tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra]
puntando essenzialmente alla mobilitazione dei ceti medi riflessivi in un
progetto di società individualizzata e competitiva, la destra populista e
plebiscitaria [il centrodestra] rivolgendo invece la propria offerta politica
alle fasce sociali che più avrebbero sofferto del crollo della domanda indotto
dalla dissoluzione del precedente patto sociale, vale a dire la piccola e media
impresa, i disoccupati, i precari, i sommersi (e mai salvati).
Si poteva eccepire che l'analisi non
teneva conto di alcune oggettive contraddizioni tra gli interessi della grande
e della piccola industria.
Che non considerava adeguatamente il
ruolo frenante che, rispetto al disegno liberalizzatore, avrebbero giocato
potenti interessi costituiti, taluni dei quali interni alla stessa area del
lavoro dipendente (specie pubblico).
Che non sviscerava fino in fondo le
premesse economiche su cui si era retto il compromesso sociale precedente, che
rimandavano alla costituzione economica impostasi in tutto l'Occidente durante
gli anni Trenta del secolo scorso.
Ma nell'insieme, si trattava di
un'analisi corretta e lungimirante, tanto più se si pensa che, nel 1996, le
uniche privatizzazioni di rilievo che si erano avute concernevano il sistema
bancario e le "controriforme di struttura" avevano toccato la sanità
e le pensioni, ma non ancora il mercato del lavoro.
Invece, dopo breve tempo,
quell'analisi cadde nel dimenticatoio.
Troppo forte era il contrasto fra
l'opinione che analisti, dirigenti ed elettori avevano del centrosinistra (e
dei Ds in primis) e l'acuta ipotesi di Revelli secondo cui proprio il
centrosinistra sarebbe stato l'hardware su cui avrebbe girato il software della
destra tecnocratica ed elitaria: occorreva una capacità di straniamento analoga
a quella che portò Copernico a intuire (e poi a dimostrare) che non era il sole
che girava intorno alla terra, ma l'esatto contrario.
Proprio per ciò, la tesi di Revelli
subì negli anni successivi uno slittamento concettuale e di campo affatto
radicale: le "due destre" scomparvero e lasciarono il posto a due
sinistre, l'una "moderata" e l'altra "radicale" (o
"antagonista"), che competevano per l'egemonia della rappresentanza
politica e sociale del mondo del lavoro.
La nouvelle vague delle "due
sinistre" trovò seguito soprattutto nell'entourage politico e
intellettuale della cosiddetta "sinistra radicale", che non poteva
tollerare il dubbio di cercare insistentemente accordi di desistenza o
programmatici con il proprio opposto, e certo giovò ai dirigenti della
"sinistra moderata" per convincere il proprio elettorato che no, non
c'era alcun "tradimento" della causa del mondo del lavoro e che si
trattava solo di "modernizzare" il proprio patrimonio culturale per
stare al passo coi nuovi tempi.
Sennonché, mentre il palcoscenico
della politica si sforzava di rappresentare al meglio quel copione, il
precipitare degli eventi s'incaricava di smentirne ogni possibile parvenza di
plausibilità, specie in relazione a quell'inoppugnabile cartina di tornasole
che è la politica economica.
In effetti, se ci chiediamo quale
politica economica sia lecito attendersi da un governo di centrosinistra, la
risposta è semplice: all'incirca, dovrebbe aumentare la pressione fiscale e la
spesa sociale, adoperarsi per la diminuzione della povertà e della disoccupazione,
imprimere una più rigida regolazione al mercato del lavoro, ridurre
l'occupazione "atipica" e il lavoro nero, guardarsi bene dal
privatizzare il patrimonio pubblico, promuovere la transizione tecnologica
della nostra struttura produttiva e mantenere nei confronti dei conti dello
stato un atteggiamento non più "rigoroso" di quello di Lord Keynes
(per il quale preoccuparsi del bilancio invece che dei disoccupati era degno di
un malato di mente).
Ebbene, tutti i dati dei dieci anni
trascorsi - inclusi gli ultimi due - ci dicono non soltanto che i governi
dell'Ulivo e dell'Unione non hanno fatto nulla del genere, ma che hanno fatto
esattamente l'opposto.
Per dirla tutta, i dati evidenziano
che il governo di centrodestra è stato nel complesso abbastanza "keynesiano",
per quanto si possa certamente discutere dell'uso che ha fatto della spesa
pubblica.
Ma questo non dovrebbe sorprendere
chi appena ricordi in quale complessa temperie ideologica maturarono le prime
realizzazioni del keynesismo (o più semplicemente quali siano i trascorsi
ideologici di Giulio Tremonti).
Oggi la scelta del PD di sopprimere
ogni riferimento alla "sinistra" e di "correre da solo"
alle elezioni consente finalmente di far chiarezza.
Per riprendere la metafora, è come se
tutti noi fossimo stati d'improvviso proiettati al di fuori del nostro sistema
solare, in modo da vedere che non è il sole a girare intorno alla terra, ma
appunto il contrario.
Non c'è nulla di polemico in queste
considerazioni: la realtà è realtà, e solo chi ha interesse a nasconderla (o
magari a non vederla) può scambiare la sua analisi con un attacco ad personam,
come fece la Chiesa quando Galileo disse che Copernico aveva ragione.
Resta piuttosto da dire che la
dimostrazione ex post factum della fondatezza dell'ipotesi delle "due
destre", oltre a spiegare al meglio i pressanti rumors di "grande
coalizione", costringe la sinistra a un'analoga operazione
chiarificatrice.
Troppe volte essa ha invocato i
rapporti di forza sbilanciati a favore della "sinistra moderata"
(cioè della destra tecnocratica) per mascherare un proprio deficit
programmatico e culturale.
Le difficoltà in cui si dibatte il
processo di costruzione de "la Sinistra l'Arcobaleno" ne sono sintomo
eloquente: senza una sintesi ordinatrice, non si possono tener insieme diritti
sociali e pratiche di autogestione, eguaglianza di opportunità e differenze
identitarie, lotta alla povertà ed ecologismo "radicale",
programmazione economica e libertarismo.
Se il programma economico su cui le
"due destre" stanno fondando la loro convergenza potesse nel medio
periodo funzionare, più o meno come funzionò il "fascismo
democristiano" negli anni 50, potremmo rinviare la questione a data da
destinarsi.
Ma quel programma, come ha
argomentato Emiliano Brancaccio su queste colonne, è costruito sull'argilla, e
può franare al minimo scossone della congiuntura internazionale.
Dunque bisogna chiarirsi, qui e ora.
[FINE]
Il testo aggiunto è
indicato tra parentesi quadrate.
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