sabato 28 dicembre 2013

L'economia della paura



Paul Krugman

The Fear Economy

New York Times, 26 dicembre 2013.
Pubblicazione disponibile qui



L’economia della paura

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Più di un milione di disoccupati americani stanno per ricevere il più crudele dei “regali” di Natale.
I Repubblicani presenti nel Congresso ripetono con insistenza che chi non ha trovato un lavoro dopo mesi di ricerca non l’ha trovato perché non si è impegnato abbastanza per trovarlo.
Quindi è necessario un incentivo maggiore, quello che dà una vera disperazione.
Perciò, le condizioni dei disoccupati, già terribili, stanno per diventare ancora peggiori.

Ovviamente, coloro che hanno un lavoro stanno molto meglio.
Tuttavia la perdurante debolezza del mercato del lavoro comporta un costo anche per loro.
Parliamo quindi delle difficili condizioni dei lavoratori occupati.

Alcuni vorrebbero farvi credere che il rapporto di lavoro sia una transazione di mercato come un’altra; i lavoratori hanno qualcosa da vendere, che i datori di lavoro vogliono acquistare, e quindi semplicemente si mettono d’accordo.
Ma chiunque abbia mai avuto un lavoro nel mondo reale - o anche abbia mai letto le vignette di Dilbert - sa che non è affatto così.

Il fatto è che il rapporto di lavoro comporta generalmente una relazione di potere: hai un capo, che ti dice cosa fare, e se ti rifiuti puoi essere licenziato.
Questa non è necessariamente una cosa cattiva.
Se i datori di lavoro tengono ai propri dipendenti non gli chiedono cose impossibili.
Ma non si tratta di una semplice transazione.
C’è una famosa canzone country intitolata “Take This Job and Shove It” [prendi questo lavoro e fottiti].
Non c’è e non ci sarà mai una canzone intitolata “prendi questo bene di consumo durevole e fottiti”.

Così il rapporto di lavoro è una relazione di potere, e l’elevato tasso di disoccupazione ha grandemente indebolito la già debole posizione dei lavoratori in questa relazione.

Possiamo quantificare questa debolezza guardando al tasso delle dimissioni - la percentuale dei lavoratori che abbandonano volontariamente (l’opposto di essere licenziati) il proprio lavoro ogni mese.
Ovviamente, ci sono molte ragioni per le quali un lavoratore o una lavoratrice può voler lasciare il suo lavoro.
Dare le dimissioni, comunque, è un rischio; a meno che un lavoratore o una lavoratrice non abbia già un nuovo lavoro, non sa quanto tempo impiegherà per trovarne uno nuovo, e come sarà questo nuovo lavoro rispetto a quello lasciato.
E il rischio nel dare le dimissioni è molto maggiore quando la disoccupazione è elevata, e ci sono molte più persone alla ricerca di un lavoro di quanti siano i posti di lavoro vacanti.

Dunque ci si aspetterebbe di vedere che il tasso delle dimissioni aumenta durante i periodi di crescita economica e diminuisce durante le recessioni, e questo è quello che avviene.
Le dimissioni sono crollate durante la recessione durata dal 2007 al 2009, e sono aumentate di nuovo solo parzialmente successivamente, riflettendo la debolezza e l’inadeguatezza della nostra ripresa economica.

Ora, si pensi a cosa questo significa per il potere contrattuale dei lavoratori.
Quando l’economia è forte, il potere contrattuale dei lavoratori aumenta.
Possono dimettersi se non sono contenti di come sono trattati e sanno che possono trovare velocemente un nuovo lavoro se sono lasciati andare.
Quando l’economia è debole, invece, i lavoratori hanno un potere contrattuale molto debole, e i datori di lavoro possono farli lavorare più duramente, o pagarli meno, o fare entrambe le cose.

C’è qualche evidenza del fatto che questo è quello che sta accadendo?
Eccome.
Lo stato dell’economia, come ho detto, è tuttora debole e inadeguato, ma tutto il peso di questa debolezza è sopportato dai lavoratori.
I profitti delle imprese sono crollati durante la crisi finanziaria, ma poi sono tornati velocemente ai livelli precedenti la crisi, e hanno continuato ad aumentare.
In realtà, oggi, i profitti al netto delle imposte sono più elevati del 60% rispetto al livello del 2007, precedente l’inizio della recessione.
Non sappiamo quanta parte di questo incremento dei profitti possa essere spiegato dal fattore paura - dalla possibilità di spremere i lavoratori che sanno di non avere un altro posto dove andare.
Ma il fattore paura deve per lo meno essere una parte della spiegazione.
In realtà, è possibile (anche se niente affatto certo) che gli interessi delle imprese siano meglio soddisfatti da un’economia un po’ depressa di quanto lo sarebbero in una condizione di piena occupazione.

Ma quello che è più importante è che non penso che sia eccessivo spingersi sino a suggerire che questa realtà aiuti a spiegare perché il nostro sistema politico abbia voltato le spalle ai disoccupati.
No, non penso che ci sia un complotto segreto degli amministratori delegati delle imprese per mantenere debole l’economia.
Ma penso che il fatto che le imprese stiano ottenendo buoni risultati sia la principale ragione per la quale ridurre la disoccupazione non è una priorità politica, anche se l’economia è schifosa per i lavoratori.

E una volta capito questo, si capisce perché è così importante modificare le priorità politiche.

C’è stato un dibattito piuttosto strano tra i progressisti ultimamente, con alcuni che sostengono che il populismo e la condanna della diseguaglianza siano un diversivo, e che invece la piena occupazione dovrebbe essere la priorità.
Come alcuni dei principali economisti progressisti hanno evidenziato, invece, la piena occupazione è essa stessa un obiettivo populista: il mercato del lavoro debole è la principale causa dell’indebolimento dei lavoratori, e l’eccessivo potere delle imprese e dei ricchi è la principale ragione per la quale non stiamo facendo nulla per la creazione di posti di lavoro.

Troppi americani vivono oggi in un clima di paura economica.
Ci sono molte misure che possiamo prendere per mettere fine a questo stato di cose, ma la più importante è rimettere in agenda la creazione di posti di lavoro.


[FINE]



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