mercoledì 22 gennaio 2014

Il cambio è la più endogena delle variabili

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Luigi Spaventa

Intervento alla Camera dei Deputati  

Atti Parlamentari - Camera dei Deputali
VII Legislatura - Discussioni - Seduta del 12 Dicembre 1978, pp. 24892-24899.
Pubblicazione disponibile qui



Il cambio è la più endogena delle variabili




Signor Presidente,
colleghi deputati, signori rappresentanti del Governo, so - e quanto ci è stato detto oggi lo dimostra - che il Presidente del Consiglio [Giulio Andreotti] non tiene in gran conto le questioni tecniche o i pareri tecnici, che egli riduce ogni questione tecnica solo a questione politica e che, compiuta questa operazione egli - forse non a torto - pensa solo a chi conta, poco curandosi di valutare benefici e costi che derivano da una decisione.

Per questa ragione, per non tediarlo, mi limiterò solo a riassumere, quasi per memoria, tutte le ragioni economiche che hanno indotto una larga maggioranza di studiosi e di esperti di orientamento politico il più diverso e variegato - e tra questi alcuni che hanno cambiato idea all'ultimo minuto - ad esprimere valutazioni non positive sul sistema monetario europeo, quale si veniva configurando, e sull'opportunità della nostra adesione ad esso.

Riassumerò solo questi punti di vista, perché vorrò poi considerare quale rispondenza vi sia fra quanto a suo tempo richiesto dal Governo - e non solo dal Governo, ma anche da persone che oggi reclamano la nostra adesione a qualsiasi costo - e quanto ci viene oggi offerto.
E mi chiederò, infine, quali siano le ragioni politiche che dovrebbero sovrastare ogni altra considerazione e indurci ad una adesione immediata, come ci è stato annunciato, piuttosto che a soluzioni più caute e meno gravide di rischi per la nostra economia.

Le ragioni che sono state addotte dagli esperti, da tecnici, da economisti, da ministri del suo Governo, signor Presidente del Consiglio, per dubitare dell'opportunità di una nostra adesione immediata al sistema monetario europeo sono di due tipi, e non riguardano solo l'Italia, come viene generalmente detto.

Un primo ordine di ragioni trae la fonte dal presente assetto dei rapporti economici internazionali.
Sappiamo oggi che, in seguito all'aumento dei prezzi del greggio, esiste un disavanzo strutturale delle partite correnti del complesso dei paesi industrializzati e che questo disavanzo complessivo non può essere ridotto con movimenti di cambio, ma può essere ridotto solo attraverso movimenti  di reddito e recessione.
E allora, se non si definisce il saggio di crescita per il complesso dei paesi industrializzati, risulta impossibile definire per ciascun paese un tasso di cambio di equilibrio.
Mancando informazioni sul tasso di crescita che l'area vuole perseguire, mancando decisioni su quanto del disavanzo complessivo tocchi a ciascun paese in relazione alla sua dipendenza dall'estero e alle sue esigenze di sviluppo, non esiste per ciascun paese tasso di cambio di equilibrio.
E mancando queste intese, il disavanzo complessivo, quasi che fosse un carico che si muove non stivato bene in una nave su un mare in tempesta, tende a concentrarsi in quei paesi la cui crescita diviene più rapida di quella degli altri o in quelli in cui i costi ed i prezzi aumentano più  rapidamente degli altri.
In questa situazione, i movimenti di cambio correggono, pur se temporaneamente, i risultati di una diversa evoluzione di costi e prezzi, di una diversa inflazione, ma non riescono ad assicurare la possibilità di una crescita più rapida degli altri ai paesi che vogliano farlo.

Poiché persistono differenze tra diversi paesi in merito alle esigenze ed agli obiettivi di crescita, si manifesta una generale tendenza all'abbassamento del ritmo di crescita.
Ciò dipende dalla asimmetria di trattamento fra paesi che si trovano in disavanzo perché vogliono crescere di più e paesi che si trovano in avanzo perché vogliono svilupparsi di meno.
La riduzione delle riserve e la difficoltà di rinvenire prestiti obbliga i primi - i paesi in disavanzo - a politiche interne restrittive, ma non vi è alcuna sanzione che obblighi i paesi che accumulano riserve ad adottare politiche interne più espansive.
E, dopo tante altre, la recente vicenda degli Stati Uniti è la prova immeditata di queste proposizioni.
Mentre l'Europa languiva e si compiaceva di una stagnazione della crescita, gli Stati Uniti tentavano di riprendere una loro crescita.
Qual è stata la risposta europea?
La risposta europea non è consistita nell'alleviare il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, promuovendo una crescita maggiore.
L'Europa ha chiesto agli Stati Uniti di ridurre la loro crescita; ha consentito e promosso una svalutazione del dollaro; ha raggiunto una situazione che in ogni libro di testo di economia si definirebbe “molto meno che ottimale”.

Il sistema monetario europeo nasce, per così dire, all'insegna di questa risposta.
Quest'area monetaria rischia oggi di configurarsi come un'area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell'occupazione e del reddito.
Infatti, signor Presidente del Consiglio, non sembra mutato l'obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.
Da ciò deriva un sacrificio per i paesi più deboli, che potrebbe essere evitato con generale vantaggio se si instaurassero regole efficaci di simmetrie e di obblighi, ma tali regole sono state rifiutate non tanto con riferimento agli interventi di cambio degli accordi di Brema, ma con riferimento al tentativo generoso a suo tempo compiuto dall’OCSE: le richieste dell'OCSE furono esplicitamente accantonate nel vertice di Bonn.
Inoltre - come è stato detto altre volte (e mi limito qua a riassumere sempre per non tediarla) - il sacrificio per i paesi più deboli può risultare più accentuato dalla circostanza che il problema del dollaro, come risulta dal comunicato, non è stato neppure affrontato nei diversi vertici ed in particolare in quello di Bruxelles.

Sempre per riassumere, consideriamo ora le questioni che non riguardano l'economia internazionale, ma la nostra economia.
Si vorrà riconoscere che la nostra economia parte con differenti condizioni iniziali, quali che siano i propositi che noi ci possiamo porre e quali che siano le intenzioni che noi possiamo avere.

In primo luogo, nell'ambito della Comunità europea, abbiamo - a  parte l’Irlanda - l'economia con il più basso livello di reddito pro capite, con le massime differenze regionali di sviluppo, con la disoccupazione più elevata, con la struttura industriale più fragile: in conseguenza dovremmo cercare di realizzare un tasso di crescita del reddito, e soprattutto degli investimenti, più elevato di quello degli altri paesi.
In conseguenza, ancora, se non vogliamo ricorrere - come nessuno di noi vuole ricorrere - a misure. protezionistiche, data la propensione ad importare il tasso di sviluppo delle nostre esportazioni dovrebbe essere più elevato di quello altrui, onde pagare le importazioni necessarie per la nostra crescita; oppure dovremmo poter contare su stabili entrate in conto capitale.

In secondo luogo, nonostante i progressi compiuti, persiste da noi una notevole differenza di inflazione, di costi e prezzi rispetto alle altre economie europee: nella migliore delle ipotesi l'accostamento alla media europea potrà essere solo graduale a causa della forza dei fattori iniziali e delle difficoltà di rovesciare le aspettative.
Sarà comunque impossibile, sia per noi sia per gli altri paesi, adeguarsi al ritmo di inflazione previsto per la Germania che rappresenta un fattore di squilibrio non minore oggi di quanto non sia il nostro ritmo di inflazione.

Queste valutazioni sono state recentemente documentate con precisione dal professor Mario Monti in un articolo su Il Sole 24 ore al quale rinvio i colleghi.
In un momento in cui la situazione monetaria internazionale è in uno stato di profonda incertezza - soprattutto per quanto riguarda i rapporti di cambio tra il marco ed il dollaro - che cosa avverrebbe in questo sistema monetario (che consiste essenzialmente solo di un accordo rigido di cambio, più rigido di quello di Bretton Woods, perché non sono consentiti mutamenti unilaterali di cambio, non integrato neppure dalla definizione di obiettivi di crescita né temperato da una attribuzione di obblighi proporzionati alla forza relativa delle diverse economie) se si verificasse nuovamente - prima ipotesi - un indebolimento del dollaro?
Il marco subirebbe pressioni al rialzo, accentuando i movimenti speculativi; le valute ad esso agganciate subirebbero rivalutazioni effettive; nel caso della lira, tali rivalutazioni risulterebbero ancora maggiori in termini reali, ossia in rapporto alla evoluzione differenziale di costi e prezzi.
Infatti, non solo di rivalutazioni effettive si deve parlare, ma anche di rivalutazioni in termini reali.
Ne deriverebbe una delle due conseguenze: o un ulteriore sacrificio della crescita per ridurre le importazioni, onde mantenere un livello di cambio realistico, oppure svalutazioni ripetute, ma sempre tardive rispetto alla perdita di riserve che si sarebbe nel frattempo verificata.

Consideriamo l’ipotesi opposta, signor Presidente: una ripresa tendenziale del dollaro, dovuta non già ad un più rapido sviluppo delle economie europee - come sarebbe desiderabile - ma a tre altri fattori, tutti negativi, che derivano dalla risposta che l’Europa ha voluto dare alla crisi degli Stati Uniti: riduzione dello sviluppo statunitense; aumento, già verificatosi, dei tassi di interesse americani e dunque dei tassi di interesse sul mercato dell’eurodollaro; manifestarsi, con il consueto ritardo, degli effetti della avvenuta svalutazione sulla bilancia commerciale americana.
In questo secondo caso, la nostra economia subirebbe un duplice danno: sulla bilancia commerciale, a motivo del maggiore costo delle importazioni di fonti di energia e di materie prime e a motivo della maggiore competitività delle merci americane; sul conto capitale perché, come già sta avvenendo, si invertirebbe il movimento dei fondi a breve di cui abbiamo finora beneficiato, poiché si verificherebbe un differenziale, a favore del dollaro (anziché a favore della lira, come nell’ultimo anno), dei tassi di interesse corretti per le prospettive del cambio.

Risulterebbe difficile, in questa seconda ipotesi, impegnarsi a mantenere la parità con le altre monete europee e, ove l’impegno sia stato assunto, a mantenerlo per lungo tempo.
Nell’uno e nell’altro caso non è questione di richiedere o di favorire svalutazioni competitive.
Si tratta piuttosto di impedire che il cambio assuma valori incompatibili con le differenze di condizioni iniziali e di esigenze fra i diversi paesi.
Il cambio - è stato correttamente osservato - è la più endogena delle variabili: non può essere trasformata o in obiettivo fine a sé stesso o in strumento da manovrare per il conseguimento di altre finalità.
Gli svalutazionisti di altri tempi (neppure troppo lontani, signor Presidente), sono oggi rivalutazionisti, illudendosi, in base al più recente dei loro modelli, che il problema della nostra inflazione possa essere affrontato con successo imponendo alla lira l’onere di una rivalutazione.

L’esperienza di altri paesi e la riflessione ci inducono a non accogliere questa tesi.
Per quanto riguarda l’esperienza, vorrei rammentare che un tentativo del genere fu compiuto dalla Svezia quando decise di aderire al serpente monetario, nel tentativo di rivestire la virtù scandinava della piena occupazione con il rispettabile abito borghese dell’agganciamento al marco.
Come è noto, la Svezia dovette lasciare il serpente avendo lacerato l’abito e perso la virtù.

Per quanto riguarda la riflessione, conviene rinviare alla illustrazione, compiuta dal governatore della Banca d’Italia nel suo discorso al Forex Club del 15 ottobre, del funzionamento asimmetrico, per quanto riguarda l’effetto sui prezzi, di una svalutazione e di una [ri]valutazione.
E, come ha scritto poi recentemente il professor Monti, il vincolo sulla politica economica interna “non può essere considerato come insostenibile conseguenza di un’entrata prematura nel sistema”, poiché in questo secondo caso la ricerca delle responsabilità diverrebbe un battibecco nazionale.

Tenendo presenti tutti gli inconvenienti - attuali e potenziali - che ho indicato, e che prima di me hanno indicato tanti esperti, studiosi e operatori intervenuti nel dibattito, quali condizioni, quali temperamenti avrebbero potuto rendere la nostra adesione ad un accordo di cambio non dico appetibile, ma almeno sopportabile?
Vi è solo l’imbarazzo della scelta nell’indicazione di queste condizioni, nella citazione delle fonti autorevoli che le elencano: il discorso del ministro del tesoro alla Camera il 10 ottobre, il discorso del governatore della Banca d’Italia il 15 ottobre, l’audizione dello stesso governatore presso la VI Commissione del Senato il 26 dello stesso mese, un discorso del ministro per il commercio estero il 9 novembre, ripetuti interventi del ministro dell’agricoltura.

Nella versione più blanda - si badi, più blanda - si chiedeva che il sistema monetario europeo rispettasse tre condizioni: che esso fosse subito operativo nei tre aspetti originali previsti, relativi agli accordi di cambio, ai sostegni di credito e alle misure in favore delle economie meno prospere; che ciascuno di questi aspetti avesse requisiti minimi di accettabilità; [che] offrisse caratteristiche di flessibilità in grado di accompagnare senza sussulti il cammino di rientro dell’Italia verso condizioni economiche generali prossime a quelle dei paesi più forti.
Non risulta che quanti oggi chiedono perentoriamente l’ingresso dell’Italia in questo sistema monetario europeo, così come esso è nato a Bruxelles il 6 dicembre, abbiano mai eccepito a quelle condizioni quando esse furono enunciate, ed abbiano significato al Governo l’opportunità di non porre requisiti irrinunciabili.
Dirò di più: le condizioni indicate dal Governo erano poca cosa rispetto a quelle elencate agli inizi di settembre, ed ancora a fine novembre, da un mio collega universitario che siede nell’altro ramo del Parlamento, tanto brillante quanto drastico nell’espressione dei suoi pareri e tanto drastico quanto volubile nell’indicazione delle ipotesi e delle conclusioni.

Scriveva allora il professor Andreatta (e queste opinioni egli ribadiva ancora in ottobre) che il - problema dei trasferimenti di reddito era reale e serio, soprattutto con riferimento alla politica agricola e a quella di bilancio; che le proposte di Brema - di Brema, si badi bene! - parevano insoddisfacenti rispetto alla esperienza passata, che occorreva evitare la fissazione di parità bilaterali rifacendosi invece ad un cambio effettivo secondo tecniche seguite da molte banche centrali, compresa la nostra (così egli diceva allora, quando ancora non l’aveva assunta a oggetto di ludibrio); che occorreva che le valute del debitore involontario fossero sterilizzate dal creditore; che occorreva dotare il nuovo sistema di possibilità di credito ampie e automatiche e non condizionate; che si doveva definire a livello comunitario, e possibilmente d’accordo con la riserva federale americana, la zona di fluttuazione con il dollaro; che era necessario prevedere un meccanismo che consentisse aggiustamenti frequenti, automatici e simmetrici delle parità.
Lo stesso professor Andreatta avvertiva il 29 novembre che “nessun trasferimento di reddito può compensare un fattivo accordo sul meccanismo di cambio” e che tuttavia, “poiché il nostro paese deve crescere più della media comunitaria,” occorreva sia - cito ancora - “rovesciare l’attuale piccolo deficit dei nostri trasferimenti netti alla Comunità in surplus di un miliardo di unità di conto; sia ottenere crediti a lunga scadenza ad un saggio di interesse politico.”

Naturalmente, signor Presidente, neppure i più entusiasti potevano sperare che questa lunga lista, che questo cahièr des conditiones potesse essere accolto integralmente, e neppure i più rigidi fra noi ritenevano che tale lista nella sua interezza dovesse costituire un obiettivo irrinunciabile.
Anche i più rigidi ed i meno favorevoli accettarono dunque che le condizioni fossero quelle indicate dal Governo, nei termini generali sopra riferiti e nella specificazione di essi - che fu fatta nelle varie enunciazioni che ho citato.

Possiamo ritenere, che quelle condizioni - condizioni veramente minime, quando si considerino i rischi che ho indicato, sia pure per riassunto, e i costi derivanti dalla attuazione dell’accordo di cambio non integrato da intese sulla evoluzione delle economie reali - siano state soddisfatte il 6 dicembre a Bruxelles o, come pure è stato detto, siano state soddisfatte al 60 per cento?
Non pare proprio.

Zero in materia di trasferimenti reali, da ottenersi mediante modifiche delle politiche agricole e di bilancio; pochissimo in materia di crediti: pochissimo non solo per l’esiguità delle somme, ma anche per i condizionamenti posti all’impiego dei fondi medesimi, che devono essere impiegati in modo tale da non alterare le condizioni di competitività, quasi che non si trattasse di portare le regioni più povere della Comunità a condizioni di competitività pari a quelle di altri paesi.

Ancora, negli accordi di cambio non solo non ha trovato soluzione il problema del debitore involontario; forse secondario; ma - più importante - ben poco si è ottenuto, come risulta dai documenti, in materia di simmetria degli obblighi di intervento e di aggiustamento delle parità.
Ove il paese deviante verso l’alto sia la Germania, essa potrà sempre addurre circostanze speciali che la esonerino dagli obblighi di intervento, dalla adozione di misure di politica monetaria o da una rivalutazione; ma il paese deviante verso il basso, signor Presidente del Consiglio - e questo lo sappiamo da lunghe esperienze - finirà presto o tardi per dovere imboccare una di queste vie: agli interventi con perdite di riserve faranno seguito svalutazioni non mitigate da contemporanee rivalutazioni della valuta forte, e queste saranno necessariamente completate da restrizioni nella politica monetaria.
Abbiamo ottenuto, è vero, la banda più larga; e si tratta certo - dobbiamo riconoscerlo - di un risultato positivo. Positivo sì, ma non certo decisivo, se, come ebbe a dire il ministro del tesoro alle Commissioni riunite esteri e finanze e tesoro il 20 luglio scorso - cito testualmente - “il Governo italiano non annette eccessiva importanza alla possibilità che siano consentiti in via transitoria ad alcuni paesi margini di fluttuazione più ampi”.
E se, come è stato osservato anche dal Cancelliere federale tedesco, una valuta debole si trova da sola in una banda più ampia, può addirittura costituire un obiettivo più facile per la speculazione, poiché - e questo costituisce un altro punto negativo dell’accordo di Bruxelles - l’assenza della sterlina dall’accordo indebolisce ulteriormente la posizione della lira.
Proprio per questo era stato ripetutamente affermato da governanti e da esperti che il grado di accettabilità del sistema doveva anche giudicarsi dalla circostanza che ad esso avessero aderito tutte le valute comunitarie o solo alcune di esse.

Il bilancio del vertice di Bruxelles è dunque negativo, proprio in relazione alle condizioni che il Governo aveva definito irrinunciabili, con l’assenso parlamentare e con quello delle forze politiche.
Presidente del Consiglio, se avesse aderito all’accordo del 6 dicembre, avrebbe smentito il suo Governo.
Temo che il Presidente del Consiglio comunicandoci oggi l’adesione senza che alcunché di nuovo sia intervenuto, abbia smentito oggi il suo Governo.
Ma ci si dice, e con clamore crescente: “Siano messe da parte queste ”tecnicalità”! Che importa ottenere un po’ più o un po’ meno di flessibilità, un po’ più o un po’ meno di simmetria, quando il problema è politico e, superata la fase delle negoziazioni, deve trovare soluzione politica?”.
Si potrebbe facilmente obiettare che, se così fosse, ci si potevano ben risparmiare tante pene e tante fatiche, sopratutto al ministro del tesoro. Si poteva dire subito che la questione era se entrare o non entrare e non a quali condizioni.
Il Presidente del Consiglio poteva presentarsi in Parlamento e sollecitare l’assenso all’ingresso, con mandato ad acquistare il biglietto di ingresso “al meglio”, come si dice in gergo borsistico.

Ma, al di là di questa notazione, ci si può ben chiedere in quale senso il problema sia solo politico (come certamente è), ma tanto politico da indurre a trascurare completamente una valutazione dei costi economici derivanti al nostro paese dal particolare assetto che quel nuovo sistema viene ad assumere.

Vi è un senso più chiaro e più nobile in cui il problema può essere definito politico: si ritiene che l’edificazione del sistema monetario rappresenti il primo sussulto dell’idea europea dopo anni di letargo; l’occasione non può e non deve essere persa; pur di rafforzare la Comunità, occorre sopportare anche i sacrifici che derivano dalle imperfezioni tecniche del sistema.
Questo è un argomento che occorre valutare con attenzione, perché, come ripeto, è il più serio e il più nobile che ci venga offerto.

Obiettare a questo argomento è pericoloso - si badi - perché si rischia di essere marchiati di antieuropeismo, si rischia di essere marchiati come nazionalisti, come retrogradi, perché esiste anche una sorta di terrorismo ideologico europeistico.

Ma obiettare si deve.

Sono, quelle del sistema monetario, imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di una creatura nata politicamente male e politicamente malformata?
Non derivano, queste imperfezioni, dagli egoismi nazionali degli altri paesi più forti della Comunità?
Perché mai, altrimenti, i costi che ci si chiede di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non paiono esservi costi per i paesi più forti?
Queste domande io vorrei porre agli amici europeisti, insieme a tante altre.
Perché in sede comunitaria non si parla più, se non con sprezzante fastidio, del rapporto McDougall, che definiva i lineamenti di una nuova politica - questa, sì, veramente europea, nel senso più vero e più pieno del termine! - una politica di bilancio per l’intera Comunità, indipendentemente dalle nazioni che ad essa appartenevano?
E perché gli amici europeisti non si battono, piuttosto che per la moneta europea, per l’unificazione delle politiche di bilancio, che sarebbe ben più vigorosa per controllare la nostra spesa pubblica e sarebbe ben più equa per la Comunità?
Perché ogni richiesta di modificare la politica agricola comune, in modo da consentire una protezione non solo ai prodotti forti dei paesi forti, ma anche all’agricoltura nascente dei paesi deboli, viene accantonata?
Perché già si prevede, nelle inchieste condotte dal Governo federale tedesco, che l’ingresso dei paesi mediterranei, da noi desiderato e da noi favorito, si risolverà in una guerra tra poveri, non essendo disposti i paesi ricchi a ridurre alcuno dei loro privilegi?
Perché, nei giorni in cui si trattava sul sistema monetario europeo e si esaltava la nuova funzione che dovrebbe assumere il Parlamento europeo, la decisione di aumentare il fondo regionale, assunta dal Parlamento, è stata prima bloccata dal veto del rappresentante francese e poi definitivamente sepolta al vertice di Bruxelles?
Non attribuisco, signor Presidente del Consiglio, particolare importanza al Fondo regionale, ma poiché di politica stiamo parlando e di segni, questi sono segni.
Perché il gallicanesimo della politica francese ha potuto condizionare l’atteggiamento del Presidente della Repubblica francese, mentre non si ammette che si compia in Italia una valutazione dei nostri interessi nazionali?
Perché non certo l’Italia, ma la Francia, intende limitare i poteri del futuro Parlamento europeo?

A queste domande, signor Presidente del Consiglio, ne aggiungerei un’altra: riteniamo cosa saggia consentire che la Gran Bretagna resti da sola al di fuori del sistema monetario, considerando l’antieuropeismo endemico di quel paese?
Non è questo un modo per privare la Comunità, di fatto se non di diritto, di uno dei suoi membri?
Vi è un secondo senso, signor Presidente del Consiglio, in cui la questione può essere considerata politica, un senso altrettanto chiaro come quello precedente, anche se meno comprensibile.
Occorre - si ragiona - una costrizione esterna affinché la nostra economia segua i comportamenti necessari per il suo risanamento; il sistema monetario europeo è uno strumento che offre questa costrizione, perché rende più duro e rigido il vincolo esterno.

E’ difficile condividere un’impostazione siffatta, non solo perché essa risulta smentita dalla nostra stesa esperienza di anni recenti (e, se mi consente, signor Presidente del Consiglio, dalla sua esperienza del 1973), ma anche per altre ragioni: perché, date le nostre condizioni iniziali, serve a noi un periodo di adattamento, prima di assumere impegni di cambio; perché questo sforzo di risanamento non può avvenire senza consenso, e il consenso deve essere suscitato, non può essere imposto; perché occorre minimizzare i costi sociali ed economici di questo sforzo e non massimizzarli, con punizioni inutilmente costose, come avverrà in presenza di un rigido vincolo di cambio; perché, infine, come ha recentemente scritto con felice espressione il professor Mario Monti, già citato in precedenza, il pur necessario vincolo sulla politica economica interna può “essere altrettanto più efficace se viene vissuto come necessaria preparazione ad un’entrata credibile piuttosto che come insostenibile conseguenza di un’entrata prematura“.
Non resta, a questo proposito, onorevole Presidente del Consiglio, che ricordare quanto due mesi fa ebbe a dire il governatore Baffi: “Sarebbe cattiva ragion politica quella che venisse adottata per ignorare i limiti e le condizioni nei quali possiamo impegnarci. Il regime dei cambi fissi non ha avuto negli ultimi 60 anni un elevato valore coesivo; il sistema monetario europeo darà un contributo alla coesione, ma non possiamo determinarci nel presupposto che esso valga, quasi per incanto, a suscitare negli ambiti nazionali le energie di consensi atti ad allineare rapidamente le politiche interne ad un sistema di obblighi che fosse definito con eccessiva durezza.”

Ed esiste purtroppo un. terzo modo di concepire la questione come eminentemente politica, che è il meno chiaro, il meno nobile.
La questione relativa all’adesione al sistema monetario europeo può essere impiegata quasi a guisa di grimaldello per mutare i presenti equilibri politici di partito e di maggioranza; può essere concepita come prova di forza per affermare una supremazia; può essere intesa come strumento per fini di parte e non come materia di cui si debba valutare l’interesse pubblico.
E il meno chiaro e il meno nobile, questo modo di concepire la questione, dell’adesione al sistema monetario europeo come esclusivamente politica.
Ma purtroppo, onorevole Presidente del Consiglio, lo voglia o non lo voglia, è quello che oggi sembra più avvicinarsi alla realtà dei fatti.
A questo proposito si possono porre alcune domande, che non trovano risposta, se non quella ovvia, appena indicata.

Perché alcuni che, come ho cercato di dimostrare, erano sino a ieri fra gli scettici o fra i dubbiosi, per ragioni economiche e tecniche precise, ma non per questo meno sostanziali, si sono all’improvviso, da un giorno d’altro, schierati fra i fautori dell’adesione immediata?
Ma questa è la domanda meno importante.

Cosa è avvenuto di nuovo fra il 6 dicembre e oggi per averla indotta a sciogliere la riserva allora manifestata?
Nulla, stando a quanto ci ha comunicato stamane.
Perché allora non aderire subito, il 6 dicembre?
Il costo e il contenuto politico dell’operazione sarebbero stati assai minori con una adesione immediata, e la questione che poteva essere prevalentemente tecnica, con un’adesione il 6 dicembre, è oggi diventata, lo si voglia o no, una questione politica.

Infine, perché non si è ritenuto di prendere neppure in considerazione la soluzione, elaborata nei giorni scorsi, dai colleghi del partito socialista italiano che ha trovato espressione formale nella delibera di ieri della direzione del partito socialista italiano?
Era questa una soluzione razionale di fronte a un problema sul quale non vi possono essere certezze, perché le certezze sono stolte su questi problemi, sui quali la ragione suggeriva soluzioni caute e tali da rendere minimi, nei limiti del possibile, i rischi per la collettività nazionale.
In una soluzione di questo tipo si sarebbe potuto trovare un punto di unità, un punto di impegno serio, senza intrusioni, in una questione di tale importanza, da parte della bassa cucina della politica.

Onorevole Presidente del Consiglio, la sua scelta, dunque, in un modo o nell’altro, nel senso più nobile o in quello meno nobile, è stata politica.
Ella, infatti, ha ritenuto di accantonare le questioni tecniche; e d’altra parte ella è persona di troppo buon gusto per attribuire importanza allo status symbol dell’appartenenza ad un club: non basta il pagamento di una quota di abbonamento assai salata per ottenere la vera eguaglianza con gli altri membri.

Questa eguaglianza ce la dobbiamo costruire noi, con le nostre mani, con i nostri sacrifici, e per questo dobbiamo ottenere e sollecitare un consenso.
Ma questo consenso, onorevole Presidente del Consiglio, non lo si ottiene con le formule monetarie o con le imposizioni esterne.
E’ nostro dovere, dovere di ciascuno di noi, contribuire allo sforzo di risanamento del paese ed augurarci che tutte le diagnosi tecniche contrastanti con la scelta eseguita siano errate.
Questo è un nostro preciso dovere. Il dovere dunque, è nostro.
Ma da oggi, onorevole Presidente del Consiglio, la responsabilità per ogni costo indebito che ci debba derivare da questa frettolosa adesione al sistema monetario è sua, e non potrà essere attribuita ad altri.


(Vivi applausi all’estrema sinistra - Molte congratulazioni).


[FINE]


Nota: Il corsivo è mio. 
Luigi Spaventa, eletto nelle liste del Pci, apparteneva al gruppo misto.


8 commenti:

  1. Grazie per il grande lavoro di documentazione che stai portando avanti.

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  2. Ti prego, dimmi che si riesce a recuperare anche l'articolo di Monti! :-)

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  3. Veramente utile e un po' sconvolgente, sì.

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  4. rimarchevole come il prof. Spaventa abbia fotografato nel lontano 1978 una situazione che con la moneta unica odierna si è tramutata in realtà quotidiana di difficoltà e solo la povertà come futuro ....

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  5. A leggere questo intervento mi sono sentito in alcuni momenti stupito, in altri arrabbiato, ma alla fine un po' di speranza e appagamento sono arrivati. Questo intervento dimostra come non mai che l'economia e la storia hanno fatto il loro corso.

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  6. Vorrei segnalare che il link della pubblicazione originale non è corretto. Il link riporta alla seduta del giorno successivo, quello in cui parlò Napolitano...

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    1. Grazie, ho corretto il link al discorso di Spaventa. Ma teniamo anche il link al discorso di Napolitano: http://legislature.camera.it/_dati/leg07/lavori/stenografici/sed0383/sed0383.pdf

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