venerdì 7 febbraio 2014

I serbi stuprano le donne




Paolo Giovannelli

Così uccidono il Kosovo. Di ritorno dall’Albania, Laura Boldrini racconta il genocidio

Vita, 3 luglio 1998.
Pubblicazione disponibile qui.



I serbi stuprano le donne



Dov’è l’Albania? E il Kosovo?
Domande che il portavoce in Italia dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Acnur) Laura Boldrini, rivolgerebbe volentieri all’opinione pubblica italiana, facendone tema di un sondaggio.
“Vita” si associa.
Boldrini è tornata dal Paese delle Aquile giusto pochi giorni fa.
«Ma se mi chiede», inizia, «se al confine col Kosovo ho visto rappresentanze dell’ambasciata italiana o della missione “Alba” (la missione militare italiana in Albania), confesso che non ho proprio incontrato nessuno di questi signori.
Dei giornalisti italiani nemmeno l’ombra, nonostante la presenza di Cnn, Bbc, New York Times e Washingon Post, e non ho visto neppure i volontari delle Ong di casa nostra. A Tropojè, c’era giusto un sacerdote».
Il Kosovo è montuoso, l’agricoltura è di sussistenza. Nessuna industria. Eppure, per Belgrado, la Grande Serbia lo comprende ancora.
La rappresentante dell’Acnur, di stanza a Bajram Curri, un villaggio nell’estremo Nord dell’Albania, si è recata ogni giorno a Podesh, sul confine fra l’AIbania e la Jugoslavia.
«Andavo a ricevere i rifugiati che arrivavano dal Kosovo», racconta Laura Boldrini. «A Podesh», continua, i cecchini serbi hanno ucciso un vecchio albanese, con i suoi due muli. Gli hanno sparato in pieno territorio albanese, poi i soldati di Milosevic ne hanno trascinato il cadavere in Jugoslavia».
Ma i serbi hanno fatto di più, sempre con la stessa tecnica già utilizzata in Bosnia.
«Sì, colpiscono dalle alture», rivela Boldrini, «con i carri armati ex proprietà della ex Federazione delle Repubbliche socialiste di Jugoslavia. Usano anche elicotteri e mitragliatrici pesanti. A volte avvisano: “Fra dieci minuti spariamo”.
La gente fugge, in preda al panico. Allora aprono il fuoco. Poi i militari jugoslavi irrompono nel villaggio, saccheggiano e stuprano le donne».
Ma i serbi devono anche aver ingaggiato una vera e propria partita a scacchi con chi scappa, cacciato dalla propria casa. Sembra che, con appositi spostamenti di truppe, impediscano ai profughi l’accesso in Albania.
«Ora non riceviamo più nessuno», è sempre la portavoce dell’Acnur a parlare, «mentre solo qualche giorno fa accoglievamo dalle 200 alle 400 persone. Il nostro timore», continua Boldrini, «è che ci siano parecchie centinaia di persone, soprattutto vecchi, donne e bambini, bloccate sulle montagne, e che ogni notte rischiano l’assideramento. Spesso le madri intossicano i loro piccoli, con dosi eccessive di Valium, nel difficile tentativo di tranquillizzarli.».
Scacco allo sfollato, insomma. Quasi “matto”.
Loro muoiono e l’Europa fa finta di nulla.
In tre settimane il Nord dell’Albania si è riempito di circa 16 mila sfollati.
Da Podesh, 1800 metri di quota, vengono spostati sui camion dell’Acnur nei villaggi sottostanti. A piedi, il primo sarebbe a sette ore di cammino da Podesh. A valle, appena mezzora dopo il loro arrivo, godono già di una famiglia albanese, nonostante l’estrema povertà della regione (il sindaco di Tropojé e certo che «Tropojé sta a Tirana come Tirana sta all’Europa») e il fatto di dover vivere in 30 persone in appartamenti da 50-80 metri quadri.
L’Acnur distribuisce viveri per 20 giorni agli sfollati e aiuta le famiglie albanesi che li assistono; intanto sta cercando di recuperare alcune vecchie caserme della dittatura comunista, come abitazioni.
Di fronte al nuovo dramma balcanico, un intellettuale albanese, Visar Zhitl, oggi in Italia con alle spalle otto anni di lavoro forzato nelle miniere del Nord dell’Albania (per alcune poesie giudicate nel 1979 dalla censura comunista del dittatore Hoxha troppo “revisioniste” del realismo socialista ) commenta: «Quanto i serbi stanno facendo oggi agli albanesi del Kosovo si chiama genocidio, esattamente come accadde in Bosnia, perché quello di Belgrado è l’ultimo regime stalinista in Europa. L’Italia, e l’Europa, devono muoversi subito, in difesa dei diritti umani».
[...]


[FINE]


Poi, volendo, potete leggere questo brano di Costanzo Preve, segnalato su Goofynomics, tenendo presente che in realtà nel 1999 il concetto impiegato per giustificare la guerra contro la Jugoslavia non fu quello dell'"operazione di polizia internazionale", già utilizzato per la guerra contro l'Iraq del 1991, ma quello nuovo di zecca della "guerra umanitaria".


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