Paolo Giovannelli
Così uccidono il Kosovo. Di ritorno dall’Albania,
Laura Boldrini racconta il genocidio
Vita, 3 luglio 1998.
Pubblicazione
disponibile qui.
I serbi stuprano le donne
Dov’è l’Albania? E il Kosovo?
Domande che il portavoce in Italia
dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Acnur) Laura Boldrini,
rivolgerebbe volentieri all’opinione pubblica italiana, facendone tema di un sondaggio.
“Vita” si associa.
Boldrini è tornata dal Paese delle
Aquile giusto pochi giorni fa.
«Ma se mi chiede», inizia, «se al
confine col Kosovo ho visto rappresentanze dell’ambasciata italiana o della
missione “Alba” (la missione militare italiana in Albania), confesso che non ho
proprio incontrato nessuno di questi signori.
Dei giornalisti italiani nemmeno l’ombra,
nonostante la presenza di Cnn, Bbc, New York Times e Washingon Post, e non ho
visto neppure i volontari delle Ong di casa nostra. A Tropojè, c’era giusto un
sacerdote».
Il Kosovo è montuoso, l’agricoltura è
di sussistenza. Nessuna industria. Eppure, per Belgrado, la Grande Serbia lo comprende
ancora.
La rappresentante dell’Acnur, di
stanza a Bajram Curri, un villaggio nell’estremo Nord dell’Albania, si è recata
ogni giorno a Podesh, sul confine fra l’AIbania e la Jugoslavia.
«Andavo a ricevere i rifugiati che
arrivavano dal Kosovo», racconta Laura Boldrini. «A Podesh», continua, i
cecchini serbi hanno ucciso un vecchio albanese, con i suoi due muli. Gli hanno
sparato in pieno territorio albanese, poi i soldati di Milosevic ne hanno
trascinato il cadavere in Jugoslavia».
Ma i serbi hanno fatto di più, sempre
con la stessa tecnica già utilizzata in Bosnia.
«Sì, colpiscono dalle alture», rivela
Boldrini, «con i carri armati ex proprietà della ex Federazione delle
Repubbliche socialiste di Jugoslavia. Usano anche elicotteri e mitragliatrici
pesanti. A volte avvisano: “Fra dieci minuti spariamo”.
La gente fugge, in preda al panico.
Allora aprono il fuoco. Poi i militari jugoslavi irrompono nel villaggio,
saccheggiano e stuprano le donne».
Ma i serbi devono anche aver
ingaggiato una vera e propria partita a scacchi con chi scappa, cacciato dalla
propria casa. Sembra che, con appositi spostamenti di truppe, impediscano ai profughi
l’accesso in Albania.
«Ora non riceviamo più nessuno», è sempre
la portavoce dell’Acnur a parlare, «mentre solo qualche giorno fa accoglievamo
dalle 200 alle 400 persone. Il nostro timore», continua Boldrini, «è che ci
siano parecchie centinaia di persone, soprattutto vecchi, donne e bambini,
bloccate sulle montagne, e che ogni notte rischiano l’assideramento. Spesso le
madri intossicano i loro piccoli, con dosi eccessive di Valium, nel difficile tentativo
di tranquillizzarli.».
Scacco allo sfollato, insomma. Quasi
“matto”.
Loro muoiono e l’Europa fa finta di
nulla.
In tre settimane il Nord dell’Albania
si è riempito di circa 16 mila sfollati.
Da Podesh, 1800 metri di quota, vengono
spostati sui camion dell’Acnur nei villaggi sottostanti. A piedi, il primo
sarebbe a sette ore di cammino da Podesh. A valle, appena mezzora dopo il loro
arrivo, godono già di una famiglia albanese, nonostante l’estrema povertà della
regione (il sindaco di Tropojé e certo che «Tropojé sta a Tirana come Tirana
sta all’Europa») e il fatto di dover vivere in 30 persone in appartamenti da
50-80 metri quadri.
L’Acnur distribuisce viveri per 20
giorni agli sfollati e aiuta le famiglie albanesi che li assistono; intanto sta
cercando di recuperare alcune vecchie caserme della dittatura comunista, come
abitazioni.
Di fronte al nuovo dramma balcanico,
un intellettuale albanese, Visar Zhitl, oggi in Italia con alle spalle otto anni
di lavoro forzato nelle miniere del Nord dell’Albania (per alcune poesie
giudicate nel 1979 dalla censura comunista del dittatore Hoxha troppo
“revisioniste” del realismo socialista ) commenta: «Quanto i serbi stanno
facendo oggi agli albanesi del Kosovo si chiama genocidio, esattamente come
accadde in Bosnia, perché quello di Belgrado è l’ultimo regime stalinista in
Europa. L’Italia, e l’Europa, devono muoversi subito, in difesa dei diritti
umani».
[...]
[FINE]
Poi, volendo, potete leggere questo brano di Costanzo Preve, segnalato su Goofynomics, tenendo presente che in realtà nel 1999 il concetto impiegato per giustificare la guerra contro la Jugoslavia non fu quello dell'"operazione di polizia internazionale", già utilizzato per la guerra contro l'Iraq del 1991, ma quello nuovo di zecca della "guerra umanitaria".
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