Alberto Alesina
I quattro grandi bluff dell’Unione monetaria
Corriere della Sera,
15 dicembre 1997.
Quattro grandi inganni dell’euro
Tutti gli opinion polls [sondaggi] rivelano
che gli italiani sono i più entusiasti sostenitori dell’Unione monetaria
europea.
Dopo la crisi del settembre 1992
quando la lira e la sterlina uscirono dal Sistema monetario europeo, le
prospettive della moneta unica erano così incerte che nessuno, al di fuori dei
ben retribuiti eurocrati di Bruxelles, se ne interessò più molto.
Da qualche mese a questa parte,
invece, la discussione ha preso una svolta ben diversa: dato che la moneta
unica si farà senz’altro, si dice, il problema è di non restar fuori, e quindi
si deve raggiungere il 3 per cento del rapporto deficit/PIL, e non il 3,5%.
(Come se questa differenza avesse
alcun significato economico o persino contabile).
In questa orgia di numeri su migliaia
di miliardi volanti da un capitolo all’altro del bilancio e da una Finanziaria all’altra
e discussioni sulla terza cifra decimale del rapporto deficit/PIL, si è persa l’occasione
di una pacata discussione sui costi dell’Unione monetaria, al di là di una vaga
retorica europeista.
Secondo i sostenitori dell’Unione
monetaria, questi sono i suoi principali vantaggi:
1) L’Unione monetaria è necessaria per mantenere un mercato comune
europeo.
Non è vero. Ciò che crea un mercato
comune è l’assenza di barriere doganali esplicite o nascoste, la libera
circolazione di beni, servizi e capitali, l’assenza di regolamentazioni
pubbliche intrusive (comprese quelle originanti a Bruxelles) e la flessibilità
del mercato del lavoro.
In un sistema di libero commercio
internazionale il "mercato" di ogni Paese è il resto del mondo.
Nel 1946 c’erano 74 Paesi nel mondo, oggi
ce ne sono 192: più della metà di questi ha una popolazione inferiore ai 6
milioni di abitanti.
Nello stesso mezzo secolo il volume
del commercio internazionale è esploso, ed oggi, con 192 Paesi indipendenti si
parla di economia globale come mai prima d’ora.
Molti dei Paesi che sono cresciuti più
in fretta negli ultimi tre decenni sono molto piccoli, come ad esempio
Singapore.
2) I cambi flessibili creano rischi per gli operatori ed ostacolano il
commercio internazionale.
Non esiste alcuna evidenza che la flessibilità
dei tassi di cambio riduca la crescita del commercio internazionale.
Dal 1953 al 1973 nel periodo dei
cambi fissi di Bretton Woods il volume del commercio internazionale è cresciuto
a tassi pari a circa la metà degli stessi tassi di crescita del ventennio
seguente, cioè in un periodo di cambi molto più flessibili.
Il rischio di cambio si può
facilmente ridurre o eliminare con operazioni di hedging [copertura].
Le cifre su quanto un turista perde
cambiando monete europee ai botteghini degli aeroporti, costi spesso menzionati
dagli europeisti più entusiasti, non hanno alcun significato macroeconomico.
In ogni caso, la mancanza di
flessibilità dei tassi di cambio ha anche dei costi: elimina un canale di
stabilizzazione a shock nazionali.
Il Financial Times continua a
ripetere che il Regno Unito fa bene a rimanere fuori dall’unione monetaria (per
qualche anno almeno) perché quel Paese ha un ciclo sfasato rispetto al resto
dell’Europa.
Ma cicli sfasati rimarranno anche
dopo l’Unione monetaria e non solo per il Regno Unito.
Se un Paese nell’Unione monetaria
subisce uno choc di domanda negativo, qualcosa deve essere mobile e flessibile:
o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambio.
Dato che i salari monetari sono
rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l’Unione
monetaria che fissa i tassi di cambio rende l’aggiustamento agli choc molto
difficile e renderà la disoccupazione ancora più permanente.
Certo una soluzione sarebbe rendere
il mercato del lavoro meno rigido, ma la sinistra europea (compresa quella
italiana oggi così favorevole all’Unione monetaria) si è sempre opposta a qualunque
politica di flessibilità del mercato del lavoro. 1
Negli Stati Uniti, una Unione
monetaria di dimensioni simili all’Europa, choc regionali asimmetrici sono corretti
da una forte mobilità geografica della forza lavoro e dalla flessibilità dei
salari reali e nominali.
In più, il sistema fiscale provvede
notevoli sistemi compensativi: per ogni dollaro di riduzione del reddito disponibile
in uno stato americano, tra i 30 e 40 centesimi sono recuperati da
compensazioni fiscali.
Sarebbero disposti, diciamo, i
cittadini danesi a compensare in questa misura, uno choc che colpisce, per
esempio, l’Italia del Sud?
Molto probabilmente no, quindi
neanche il sistema fiscale europeo correggerebbe questi choc asimmetrici.
3) L’Unione monetaria ha facilitato la riduzione dell’inflazione e dei
deficit pubblici.
Negli anni Novanta l’inflazione è scesa
in tutto il mondo, con o senza Unione monetaria.
Non è affatto chiaro che l’inflazione
sia scesa più rapidamente nei Paesi aderenti al Sistema monetario europeo che
negli altri Paesi OCSE.
Dopo i grandi deficit della fine anni
Settanta e primi Ottanta, numerosi aggiustamenti fiscali sono avvenuti dentro e
fuori l’Unione monetaria.
E’ vero che il deficit italiano
sarebbe più alto senza la spada di Damocle della regola del 3%.
E allora?
Sostenere che uno dei principali
benefici della più importante riforma del sistema monetario internazionale dopo
Bretton Woods è che l’Italia avrà un deficit del 3% del PIL invece che del 5%
del PIL nel 1998 fa sorridere, soprattutto al di là delle Alpi.
Un nuovo sistema di cambio che
dovrebbe durare per decenni va giudicato per i suoi meriti intrinseci e globali.
4) L’Unione monetaria è solo un passo verso la vera meta che è una forma
di unione politica.
Questo è forse l’argomento più
convincente, se si pensa che l’Unione politica riduca il pericolo di conflitti
intraeuropei, che, storicamente, sono stati catastrofici.
La realtà però è l’opposto.
Con ogni probabilità i contrasti tra
Paesi europei aumenteranno al crescere della tendenza a coordinare politiche
monetarie, fiscali, di welfare eccetera.
Costringere Paesi con culture e
tradizioni diverse ad uniformare politiche di vario genere, soprattutto quando
la necessità economica del coordinamento è alquanto dubbia, è un’operazione
inutile e potenzialmente molto pericolosa.
Infatti l’animosità tra Paesi europei
non è stata mai così alta in tempi recenti come negli ultimi mesi, all’avvicinarsi
dell’Unione monetaria.
Lo stesso conflitto franco-tedesco
sulla nomina del primo governatore della Banca Centrale Europea è un sintomo
chiaro.
Delle due l’una: o questo conflitto
rivela forti differenze di filosofia sulla politica monetaria, oppure rivela
forti tendenze nazionalistiche, soprattutto da parte della Francia che non ha
ancora capito di non essere più una grande potenza.
In entrambi i casi, questo conflitto
non rivela niente di buono sulla futura politica monetaria comune.
Infine, per ciò che concerne l’Italia,
l’entusiasmo per partecipare all’Unione è descritto, anche in ambienti governativi,
come un modo per difenderci da noi stessi, cioè un modo per trasferire potere
politico a Bruxelles e Francoforte e toglierlo a Roma.
Probabilmente questo è un ottimo
motivo per aderire all’Unione, ma, diciamocelo: che tristezza.
(Eccetto per gli eurocrati).
[FINE]
1 Come è noto, la sinistra, e in
particolare quello che ora si chiama Partito Democratico, ha aggiornato la sua
posizione nei diciassette anni trascorsi da questo articolo: sempre così
favorevole all’euro è oggi anche così favorevole a una politica di estrema
flessibilità del mercato del lavoro.
Interessante articolo, da postare ad Alesina ad nauseam.
RispondiEliminaCerto che a parte il problema dell'euro, oltre ad essere politico ed economico è anche psichiatrico, non so se è d'accordo.
E' sorprendente la incapacità degli individui di persistere ottusamente in una scelta sbagliata, anche quando tutte le evidenze dicono il contrario.
Era Keynes che nel capitolo XII della Teoria generale (“Lo stato dell'aspettativa a lungo termine”), dice una cosa molto semplice: ai mercati non interessa “compiere le migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento”, convogliando i capitali verso gli investimenti mediamente più produttivi, quelli che generano più crescita e più occupazione. Ai mercati questo non interessa non perché siano “cinici”, come talora sentiamo superficialmente dire, ma perché comportarsi in questo modo non è razionale: “sarebbe sciocco, infatti, pagare 25 per un investimento il cui reddito prospettivo sia ritenuto tale da giustificare un valore di 30, se nello spesso tempo si ritiene che il mercato lo valuterà 20 fra tre mesi”; “questo è il risultato inevitabile di mercati di investimento organizzati avendo di mira la cosiddetta ‘liquidità’”, nei quali quindi “lo scopo privato dei più esperti investitori” diventa “passare al prossimo la moneta cattiva”, in un contesto “soggetto ad ondate di ottimismo e pessimismo irragionevoli”, che la razionalità individuale non può contrastare anche perché “è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale”.
Non sono uno psichiatra ma in effetti alcune persone mi sembrano affette da una psicopatologia antisociale.
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