Michał Kalecki e Tadeusz Kowalik
Osservazioni sulla “riforma cruciale”
Politica ed
economia, n. 2-3, Giugno 1971. pp.189-196.
Riforma e stabilizzazione del capitalismo. Ultraimperialismo e conformismo
[
A cura di Giorgio D.M. * ]
1.
[Riforma e stabilizzazione
del sistema capitalistico]
Nella letteratura socialista il
problema delle riforme nel capitalismo è posto di solito nei seguenti termini:
come conciliare la lotta per le riforme con la lotta rivoluzionaria, ossia con
la lotta per il cambiamento dell’intero sistema sociale, come condurre la lotta
per il conseguimento di obiettivi prossimi e parziali in modo che questa,
anziché indebolire, venga a rafforzare il potenziale rivoluzionario dei
movimenti di massa.
Vogliamo esaminare qui l’aspetto
estremo di tale problema che, a quanto ci sembra, non è stato finora
sufficientemente analizzato.
Supponiamo che una forte pressione
delle masse conduca, a dispetto della classe governante, ad una riforma così
radicale del sistema, che pur senza abbattere gli esistenti rapporti di
produzione venga ad aprire nuove prospettive per un ulteriore sviluppo delle
forze produttive.
Si viene allora a creare una
situazione paradossale: la “riforma cruciale” imposta alla classe governante
può portare ad una stabilizzazione, almeno temporanea, del sistema.
Come dimostreremo più sotto, tale
situazione si verifica appunto nel capitalismo contemporaneo.
2.
[Errori economici
cardinali del riformismo di Eduard Bernstein]
Occorre rilevare fin d’ora che il problema
preso qui in esame non ha niente a che fare con il riformismo di Eduard
Bernstein.
L’autore delle Premesse del socialismo [1] dimostrava, mediante un’interpretazione
unilaterale di alcuni nuovi fenomeni economici e sociali, che lo sviluppo
economico spontaneo nonché le graduali riforme sociali conducono alla
trasformazione delle società capitalistiche mature in società socialiste.
Il partito doveva avere il coraggio
di riconoscere apertamente di essere il partito delle riforme e non un partito
rivoluzionario.
Dal punto di vista economico
Bernstein ha commesso due errori cardinali.
In primo luogo egli non scorgeva
l’importanza capitale della contraddizione fra produzione e sbocchi nel sistema
capitalistico, riducendo la questione delle crisi provocate dalla
sovrapproduzione ad una sproporzione nello sviluppo dei singoli settori della
produzione.
Egli riteneva pertanto che i cartelli
e i trust nonché le organizzazioni finanziarie e creditizie potessero liquidare
l’anarchia della produzione su scala sociale.
In secondo luogo Bernstein traeva
delle conclusioni eccessive dal fenomeno dell’influenza limitatrice esercitata
dai sindacati e dalle cooperative di consumo sui profitti dei capitalisti.
Non solo egli negava la teoria,
riportata frequentemente dalla letteratura socialista di allora, della “miseria
crescente” (e in questo aveva indubbiamente ragione), ma cercava inoltre di
dimostrare che, per effetto della pressione delle organizzazioni sopraccitate,
i profitti venivano gradualmente a trasformarsi in retribuzioni dei “managers”.
Ciò sta a testimoniare che Bernstein
non prendeva in considerazione due problemi fondamentali dell’economia
capitalistica:
a) La riduzione del profitto ad un
semplice “salario di direzione” sotto la pressione delle paghe nominali degli
operai è cosa assolutamente inverosimile (se si tiene conto degli effetti che
ha sui prezzi l’aumento delle paghe);
b) La scomparsa dei profitti “netti”
condurrebbe ad un ristagno economico, dato che i profitti non distribuiti delle
imprese costituiscono uno dei principali incentivi per le decisioni di
investimento.
3.
[Il cartello generale
di Rudolf Hilferding]
In opposizione alla concezione di
Bernstein meritano un’attenzione particolare dal punto di vista del problema da
noi posto le vedute di alcuni suoi avversari, soprattutto quelle di Rudolf
Hilferding e di Rosa Luxemburg.
Potrebbe sembrare che le vedute di
Hilferding non si discostino molto dalla concezione di Bernstein.
Anche Hilferding, infatti, attribuiva
le crisi ad una sproporzione nello sviluppo dei singoli settori della
produzione e ammetteva la possibilità di liquidare le crisi attraverso
“un’organizzazione” del capitalismo.
Tuttavia le divergenze sono ben più
importanti delle affinità.
In particolare, la critica che
Hilferding muove a Bernstein ha un’importanza fondamentale.
L’autore del Capitale finanziario dimostrava che
“la produzione regolata e la
produzione anarchica non erano delle contraddizioni quantitative, cosicché,
introducendo una sempre maggiore regolazione, si sarebbe potuto passare
dall’anarchia all’organizzazione cosciente […].
Chi ritiene che i cartelli possano
liquidare le crisi, dimostra unicamente di non capire affatto le cause delle
crisi e il loro rapporto con il sistema capitalistico.“ [2]
L’anarchia e le crisi economiche
potrebbero essere liquidate soltanto da un “cartello generale”, in cui la
produzione fosse consapevolmente regolata da un’istituzione centrale ed i
prezzi fossero solo uno strumento di distribuzione del prodotto globale.
Per di più Hilferding riteneva che il
passaggio dai cartelli e dai trust sparpagliati a un cartello generale sarebbe
un sovvertimento che potrebbe avvenire “soltanto in modo violento mediante la
subordinazione di tutta la produzione a un controllo cosciente”.
In questa concezione, non elaborata
del resto con maggiore precisione, compare, forse per la prima volta nella
storia delle dottrine, un elemento affine alla tesi sulla ”riforma cruciale”,
benché non sia chiaro se Hilferding attribuisse alla pressione delle masse un
certo ruolo, almeno indiretto.
Sviluppando la visione del “cartello
generale”, Hilferding sottolineava di non credere nella stabilità di un regime
rispondente a tale visione.
Egli riteneva, è vero, che il
“cartello generale” avrebbe potuto risolvere le fondamentali contraddizioni
economiche del capitalismo ma esprimeva la convinzione che tale regime avrebbe
dovuto fallire per ragioni politico-sociali, vale a dire perché “spingerebbe i
contrasti degli interessi ai limiti estremi”. [3]
Purtroppo anche questa convinzione è
stata espressa da Hilferding in termini molto generali ed è perciò difficile
discuterla in modo preciso.
Interessante, invece, è la sua
analisi delle contraddizioni internazionali che si verificano fra le potenza
imperialistiche, nonché delle tendenze che conducono a conflitti bellici fra i
“cartelli generali” nazionali.
In tali conflitti internazionali, accompagnati
da forti contrasti di classe nell’ambito di detti cartelli, Hilferding vedeva
la prospettiva di una rivoluzione socialista.
[Il feudalesimo
industriale di Ludwik Krzywicki]
Una certa anticipazione alla visione
che Hilferding aveva del cartello generale, la troviamo assai prima nei lavori
di un sociologo polacco, Ludwik Krzywicki.
Questi vedeva delinearsi forti
tendenza verso un “feudalesimo industriale”, ossia verso la visione di un
“paese-latifondo”, caratterizzato da una struttura gerarchica e governato da
una esigua oligarchia finanziaria.
Krzywicki associava tale visione a un
simultaneo processo di conformismo generalizzato delle classi sociali e quindi
anche della classe operaia, che, secondo lui, avrebbe potuto trarre da detto
“latifondo” dei vantaggi materiali.
Egli attribuiva pertanto al regime
del feudalesimo industriale una notevole stabilità, anzi vedeva in esso, a
quanto pare, la minaccia di una definitiva alternativa al socialismo. [4]
4.
[I mercati esterni al
capitalismo di Rosa Luxemburg]
Le vedute di Rosa Luxemburg
differiscono sostanzialmente dalla concezione di Hilferding, se non altro per
il fatto che, secondo la Luxemburg, la contraddizione fondamentale del
capitalismo non consisteva nella sproporzione e nello sviluppo dei singoli
settori, ma nella divergenza tra produzione e sbocchi.
Problema centrale nell’analisi della
contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione
era, sempre secondo la Luxemburg, la questione concernente la realizzazione sul
mercato delle produzioni in espansione. [5]
Assumendo una posizione estremista,
ella riteneva che condizione necessaria di tale realizzazione era l’esistenza
di sbocchi esterni al sistema capitalistico considerato nel suo complesso;
doveva essere questo un fattore, il quale, finché non si fosse esaurito, con
l’estensione al mondo intero della produzione capitalistica, avrebbe permesso
un ulteriore processo di sviluppo economico nel quadro del capitalismo.
E’ vero che tale punto di vista è
esagerato; ma l’aver messo in evidenza il ruolo dei mercati esterni nello sviluppo
del capitalismo ha un’importanza effettiva, anche nel contesto del problema da
noi esaminato.
Conseguenza logica di tale concezione
delle contraddizioni del capitalismo era la giusta convinzione di Rosa
Luxemburg che lo sviluppo delle nuove forme organizzative del capitalismo
(cartelli e trust) non solo non viene ad attenuare le contraddizioni fra
produzione e smercio ma può anche aggravarle. [6]
Fino a qui non vediamo alcuna
convergenza di tali vedute con la concezione di Hilferding.
Tuttavia esiste nella teoria
economica di Rosa Luxemburg un indirizzo, non rilevato da lei in particolar modo,
che, come vedremo, è in certo qual senso parallelo alla teoria di Hilferding.
Per “mercati esterni al capitalismo”
Rosa Luxemburg intendeva, fra gli altri, quello costituito dagli acquisti
statali, e in particolare dalle commesse per gli armamenti. [7]
Oggi sappiamo bene che gli armamenti,
nella misura nella quale sono finanziati con mezzi che non riducono il consumo
degli operai o le imposte di cui sono gravati i capitalisti, contribuiscono
alla realizzazione dei profitti.
(Nel caso dei prestiti la realizzazione
dei profitti avviene in seguito alla vendita delle eccedenze di merci,
eccedenze vendute dai capitalisti grazie all’indebitamento verso di essi dello
Stato. Nel secondo caso i profitti “supplementari”, così ottenuti, vengono
riscossi mediante le imposte.)
E’ proprio in questo punto che
possiamo scorgere, malgrado le profonde differenze fra le vedute di Hilferding
e quelle di Rosa Luxemburg, un certo parallelismo delle loro concezioni.
Infatti, gli acquisti statali in
questione, se effettuati su scala sufficiente, possono almeno in via di
principio superare la contraddizione fra produzione e sbocchi.
L’adozione sistematica di tale mezzo
porterebbe alla formazione di un conglomerato di gruppi e di trust, in cui si
manterrebbe un alto grado di sfruttamento dell’apparato produttivo e di impiego
della manodopera.
Il sistema dell’interventismo statale
verrebbe a sostituire in questo modo l’istituzione della pianificazione
centrale implicita nel “cartello generale”.
Similmente a Hilferding, Rosa Luxemburg
collegava strettamente la rivoluzione socialista (e più precisamente le
rivoluzioni socialiste) con la prevista serie di guerre imperialistiche.
In seguito alla concentrazione delle
economie esterne al capitalismo si sarebbe acuita la rivalità per i mercati, su
quali collocare merci rispondenti all’espansione della capacità produttiva; e
ciò è sempre fonte di conflitti bellici.
Gli armamenti, che facilitano la
realizzazione della crescente produzione, favoriscono pure lo scoppio delle
guerre.
Queste, a loro volta, portano al
rovesciamento rivoluzionario del sistema capitalistico.
Occorre rilevare che l’associare la
rivoluzione socialista alle guerre imperialistiche è pure la quintessenza della
strategia e della teoria rivoluzionaria di Lenin.
5.
[La riforma “cruciale”
del capitalismo]
Le concezioni sopra esposte
concernenti l’evoluzione del sistema capitalistico, nonché le prospettive di un
suo eventuale collasso, sorsero prima dell’anno 1914, allorché, come
spiritosamente è stato detto, terminò definitivamente il secolo diciannovesimo.
Il mezzo secolo che ci divide dallo
scoppio della prima guerra mondiale non ha confermato in tutta la sua
estensione nessuna delle previsioni ed ipotesi presentate ai punti 3 e 4.
Tuttavia nella teoria sociale ed
economica di quest’epoca troviamo molti fenomeni e tendenze che costituiscono
la conferma parziale di ciascuna di esse.
All’origine della prima guerra
mondiale vi era la lotta per gli sbocchi, per una nuova divisione del mondo.
L’economia nazionale che lavorava a
scopi bellici fu sottoposta , soprattutto in Germania, a certi controlli
statali.
Tuttavia, a parte il settore che
lavorava direttamente per il fronte, non fu adottata su scala più vasta una
pianificazione centrale della produzione.
L’intervento dell’apparato statale
nell’economia si concretò soprattutto in un’estesa, minuta regolamentazione dei
beni di prima necessità.
L’anno 1917 si aprì con una serie di
moti rivoluzionari di massa.
Ne uscì vittoriosa soltanto la
rivoluzione russa, che ebbe luogo in un paese arretrato, dalla questione
agraria non risolta e dilaniato da profondi conflitti di liberazione nazionale.
I paesi industriali sviluppati
conservarono invece immutata la struttura del capitalismo monopolistico.
Tranne la conquista da parte della
classe operaia della giornata lavorativa di otto ore nonché, in molti paesi, di
varie forme di previdenza sociale, il capitalismo degli anni venti, per quanto
riguarda il suo funzionamento, non differiva sostanzialmente da quello
prebellico.
Una svolta si ebbe con la crisi degli
anni 1929-1933, crisi che scosse le basi strutturali del capitalismo.
Per contrasto, le deficienze di tale
struttura erano messe in evidenza dall’economia dell’Unione Sovietica, che
allora si sviluppava ad un saggio sostenuto.
Ebbe così inizio il periodo della
riforma “cruciale” del capitalismo, specialmente nei due principali paesi
capitalistici, maggiormente toccati dalla crisi: la Germania e gli Stati Uniti.
Avversato agli inizi dalla resistenza
assai decisa dell’alta borghesia, lo Stato capitalistico si accinse a salvare
le basi strutturali minacciate dalla disoccupazione.
Caratteristico, però, il fatto che
tale programma di salvataggio dell’economia capitalistica consisteva non in un
tentativo di regolarla attraverso una pianificazione, bensì nel sostenere la
domanda attraverso l’intervento statale e nel promuovere un certo
riassorbimento della disoccupazione.
Nella Germania nazista il sostegno
della congiuntura assunse quasi subito un carattere militare.
E’ lecito affermare che, durante la
seconda guerra mondiale, l’economia bellica dei paesi europei capitalistici si
presentava in misura rilevante sotto forma di capitalismo a direzione centrale.
A tale fatto aveva contribuito
anzitutto il carattere totalitario della guerra, dovuto principalmente alla
tecnologia bellica contemporanea.
Tuttavia, nel dopoguerra, e dopo un
breve periodo di riconversione, nei paesi capitalistici l’accentramento
economico si è notevolmente indebolito.
Si è invece consolidato il sistema
del capitalismo dei grandi gruppi industriali, che dispongono pure di sbocchi
forniti dagli acquisti statali – principalmente dalle commesse belliche – i
quali permettono la realizzazione dei profitti accumulati.
Il peso assoluto e relativo delle
spese statali nella domanda complessiva di beni e servizi è aumentato molto
notevolmente in confronto al periodo interbellico.
Inoltre, in alcuni paesi europei
capitalistici lo Stato influisce sull’economia attraverso l’industria
nazionalizzata.
In alcuni di questi paesi è aumentato
pure l’intervento statale nella struttura settoriale e regionale della
produzione attraverso sussidi di vario tipo, la differenziazione delle imposte
e la politica di credito.
La seconda guerra mondiale ha
affrettato il processo della riforma “cruciale”.
Per quanto riguarda la capacità di
assorbimento dei mercati l’interventismo statale permette di ridurre la
disoccupazione ad una percentuale molto bassa, e quindi di adottare in pratica
un principio assai vicino alla parola d’ordine lanciata dalla rivoluzione del
1848: “il diritto al lavoro” (in alcuni principali paesi capitalistici ciò ha
trovato espressione in documenti ufficiali).
Tale stato di cose – insieme con un
notevole ampliamento della previdenza sociale – ha portato ad una certa
metamorfosi della classe operaia, che nei riguardi del capitalismo segue
generalmente la linea del “riformismo radicale”.
L’elevato grado di occupazione nei
principali paesi capitalistici assicura in generale agli operai un discreto
livello di entrare reali.
Dato l’alto e stabile – almeno per un
lungo periodo – grado di occupazione, i salari reali degli operai sono
aumentati di pari passo all’aumentare del rendimento del lavoro con una
conseguente relativa stabilità della partecipazione dei lavoratori al reddito
nazionale (sebbene in qualche paese in certi periodi tale partecipazione sia
diminuita piuttosto che aumentata).
Questo stato di cose ha portato ad un
notevole affievolimento dell’atmosfera ostile al capitalismo. [8]
Si arriva persino al punto che in
alcuni paesi gli operai conformisti desistono dal lottare per la riduzione
degli armamenti (alla qual cosa contribuisce del resto la consapevolezza che
appunto da questi dipende l’alto grado di occupazione).
Invece, almeno dopo un certo periodo
di funzionamento del “neocapitalismo”, gli operai si fanno estremamente
sensibili all’osservanza delle sopraindicate “regole del gioco” (compresa la questione concernente la
partecipazione al reddito nazionale).
Allorché pertanto si verificano per
varie ragioni scostamenti da tali regole, le reazioni talvolta si acuiscono
fortemente, dando sfogo al latente odio di classe.
Il capitalismo contemporaneo viene
spesso definito come “guidato”.
Talvolta si parla persino dello
sviluppo della pianificazione centrale nel capitalismo.
Ciò non sembra esatto.
Il fatto che un paese sia governato
da un conglomerato di gruppi e che tale stato di cose assicuri un livello
relativamente alto di utilizzazione dell’apparato produttivo e della
forza-lavoro non sta a significare – come risulta dalle nostre precedenti
considerazioni - che si tratta di una
pianificazione centrale.
L’intervento statale può consistere e
spesso consiste in manipolazioni del bilancio pubblico: acquisti statali,
politica delle imposte.
Nel breve periodo, la politica di
bilancio viene modificata per indebolire la forza contrattuale e politica della
classe operaia accrescendo, di tanto in tanto, la disoccupazione, mentre
l’indirizzo di fondo di tale politica dipende soprattutto dalla lotta fra i
vari gruppi di capitalisti.
L’attività statale però, di regola,
ha carattere integrativo, serve cioè a colmare le deficienze della domanda, a
creare possibilità supplementari per la realizzazione dei profitti.
Invece, nel regime socialista fondato
sulla pianificazione centrale, gli “sbocchi” sono, per così dire,
automaticamente assicurati dal piano.
Dopo aver fissato nel piano la
divisione del reddito nazionale in quote per gli investimenti e il consumo, fra
i prezzi dei beni di consumo e i salari viene fissata una relaziona tale da
creare una domanda per detti beni pari alla loro offerta pianificata.
Pertanto il funzionamento del
cartello generale di Hilferding differirebbe in modo sostanziale
dall’interventismo statale e, in particolare, dalla politica di bilancio.
Ma per quanto concerne lo
sfruttamento delle risorse, in particolare, il grado di occupazione, i metodi
rispondenti alla teoria dei mercati “esterni” o “supplementari” di Rosa
Luxemburg danno risultati paralleli alla visione di Hilferding.
Occorre soprattutto rilevare che si
sta delineando anche un fenomeno simile al “cartello generale”: negli Stati
Uniti sta emergendo un gigantesco complesso militare-industriale che –
unitamente alla recente conquista del cosmo – ha un ruolo di primo piano
nell’insieme dei rapporti economici e politici.
6.
[L’economia mista nei
paesi arretrati]
Dobbiamo sottolineare che dopo la
seconda guerra mondiale è emerso anche un gruppo di paesi arretrati che, per
avviare la loro industrializzazione, si avvalgono dell’esperienza dei paesi
socialisti.
Questi paesi non possono in nessun
caso essere considerati come socialisti, benché per tali intendano passare.
Si tratta delle vecchie colonie che
in seguito alla guerra mondiale hanno ottenuto l’indipendenza e hanno basato il
proprio sviluppo sulla cosiddetta economia mista, economia caratterizzata da
una notevole partecipazione dello Stato nella grande industria, nei trasporti e
nelle banche, e soprattutto negli investimenti produttivi.
Di solito le riforme agrarie che
hanno avuto luogo in questi paesi erano più radicali nei progetti originari che
non nella loro attuazione.
Si è formato in tali paesi un “regime
intermedio”, il cui perno è il settore statale e la cui base sociale è
costituita dalla piccola borghesia e dai contadini ricchi. [9]
Esistono inoltre in questi paesi
strati antagonistici nei confronti di tale regime: da un lato, i resti del
feudalesimo, del capitale straniero, nonché di un ragguardevole capitale
nazionale privato; dall’altro lato, i piccoli agricoltori, gli operai delle
piccole officine e numerosi gruppi di popolazione suburbana che non hanno
un’occupazione fissa.
Benché i piani di sviluppo di tali
paesi siano arditi la loro realizzazione è generalmente ben lontana dalle
intenzioni.
In via di massima possiamo affermare
che anche in questi paesi ha avuto luogo il processo della “riforma cruciale”,
con la differenza che qui esso ha assunto altre forme e il grado di
stabilizzazione è di regola assai inferiore che nei paesi del “neocapitalismo”.
7.
[La coesistenza
pacifica e le guerre nei paesi del terzo mondo]
In seguito alla seconda guerra
mondiale il regime socialista si è pure esteso notevolmente a molti altri
paesi, ma anche questi, in genere, ad un livello piuttosto basso di
industrializzazione.
Dal punto di vista della situazione
internazionale il risultato più importante dell’ultima guerra è stato
l’emergere di due superpotenze: una nel campo dei paesi del capitalismo
sviluppato, l’altra nel campo socialista.
I paesi occidentali sono subordinati
militarmente agli Stati Uniti.
I rapporti reciproci fra i paesi del
“neocapitalismo” sono determinati in misura rilevante dall’antagonismo nei
confronti del blocco dei paesi socialisti.
Tenendo conto sia di tale fatto che
degli stretti collegamenti economici (gruppi industriali multinazionali,
soprattutto di origine americana, Mercato Europeo Comune) dobbiamo ritenere
poco probabili i conflitti armati in seno al capitalismo contemporaneo.
Essi presenterebbero per il sistema
capitalistico un pericolo quasi eguale all’eventuale ripetersi della grande
crisi economica.
Gli armamenti nei paesi
“neocapitalistici” sono anzitutto orientati verso un conflitto con l’Unione
Sovietica e gli altri paesi socialisti.
Data però la convinzione sempre più
generale che la guerra “fra i due blocchi” porterebbe all’uso di armi non
convenzionali e pertanto all’annientamento totale, gli armamenti in tale senso
hanno più che altro il carattere di “una dimostrazione di forza”.
E lo stesso carattere hanno
prevalentemente anche i voli cosmici: si tratta qui di una esibizione della
destrezza tecnico-militare.
Tale stato di cose ha trovato la
propria espressione teorica nella dottrina della coesistenza pacifica,
formulata dal blocco socialista, dottrina che poggia su due pilastri:
a) certe scosse sociali, cui vanno
soggetti i paesi del “neocapitalismo” non mettono in pericolo né attualmente né
in un prossimo avvenire l’esistenza stessa di tale sistema;
b) la guerra termonucleare minaccerebbe
un annientamento totale.
In effetti l’esperienza di molti anni
ha dimostrato che le guerre attuali sono connesse con i problemi del cosiddetto
“terzo mondo”.
La più tipica è la “spedizione
punitiva” degli Stati Uniti nel Vietnam, il cui scopo era di acquisire una
“sfera di influenza” nell’Estremo Oriente, ma più ancora di dare un esempio
terrificante del modo di lottare contro le rivolte contadine (nel medesimo
tempo era questa la risultante delle lotte di diversi gruppi capitalistici
americani per l’indirizzo di fondo della politica congiunturale, di cui di è
detto sopra).
Guerre di questo tipo non possono
provocare nei paesi del neocapitalismo un rovesciamento rivoluzionario, perché
non hanno un carattere totalitario.
[L’intesa
ultraimperialistica di Kautsky]
Le considerazioni sopra esposte
conducono alla conclusione che la teoria della rivoluzione socialista in
seguito alle guerre imperialistiche ha oggi in misura rilevante, ad eccezione
dei paesi del terzo mondo, un carattere storico.
In questo senso (e solo in questo
senso) l’ipotesi di Karol Kautsky, cha apparve utopistica e pacifista quando fu
formulata, di un’intesa ultraimperialistica dei paesi capitalistici [10] è oggi
più vicina alla “vita” che non la concezione di Rudolf Hilferding e di Rosa
Luxemburg, opposta a tale tesi.
[Stabilizzazione del
capitalismo e conformismo]
Il presente articolo non mira a
proporre previsioni di lungo periodo; è piuttosto l’espressione del desiderio
di comprendere lo stato delle cose nel momento attuale e possibilmente le
tendenza che si manifesteranno nel prossimo futuro.
La relativa stabilizzazione del capitalismo
riformato presuppone un alto grado di conformismo della società.
E’ lecito esprimere, con cautela,
l’opinione che i recenti movimenti nelle università sembrano preannunciare un
decrescere dei successi finora riportati dall’apparato borghese del potere nel
manipolare e condizionare le generazioni che entrano sulla scienza della
storia.
La portata di tale fenomeno è
maggiore in quanto, per effetto del rapido progresso della scienza e della
tecnica, l’”intellighenzia” si avvia a svolgere un ruolo sempre più importante
come gruppo sociale.
Per il momento i movimenti
studenteschi contribuiscono in alcuni casi ad inasprire le reazioni della
classe operaia contro coloro che non osservano le “regole del gioco” sopra
citate, nonché a diffondere maggiormente le parole d’ordine che mobilitano le
masse.
Varsavia, aprile 1970
Note:
[1]
Eduard
Bernstein, Die Voraussetzungen des
Sozialismus un die Aufgaben der Sozialdemokratie, Stuttgart 1899.
[2]
Rudolf Hilferding, Das Finanzkapital,
Wien 1910, pag. 372.
[3]
Ibidem,
pag. 372.
[4]
Ludwik
Krzywicki, Idea a zycie - (raccolta
di pubblicistica degli anni 1883-1892), Warszawa 1957.
[5]
Rosa
Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals,
Berlin 1913.
[6]
Rosa
Luxemburg sviluppava questa tesi anche nell’opuscolo polemico contro E.
Bernstein (Sozialreform oder Revolution,
1900).
[7]
Il
capitolo 32 del libro Die Akkumulation
des Kapitals porta il titolo “Il militarismo quale sfera di accumulazione
del capitale”.
[8]
Michał Kalecki, “Political Aspects of
Full Employment”, Political Quarterly,
1943. [Tradotto qui:
http://gondrano.blogspot.it/2012/09/aspetti-politici-del-pieno-impiego.html ]
[9]
Michał Kalecki, “Observations on
Social Aspects of “Intermediate Regimes””, Co-Existence,
1967.
[10]
Karol Kautsky, “Der Imperialismus”, Die Neue Zeit, 1914.
[FINE]
* Ho aggiunto dei titoli ai diversi paragrafi, indicati
tra parentesi quadrate.
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