sabato 1 novembre 2014

La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia





Roberto Michels

La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia

1909.
Pubblicazione dell’Istituto Regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gasperi” di Bologna, qui parzialmente rivista come indicato, disponibile qui.



La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia




Il principio della massa

I nostri tempi han distrutto, una volta per sempre, le vecchie e rigide forme dell’aristocrazia.
Di conseguenza, anche la vita dei partiti politici, sia nello Stato che nei comuni, mostra - se non altro, in teoria - tendenze democratiche.
Infatti i partiti politici si [fondano] [1] sul principio della maggioranza spesso, sul principio della massa sempre.
In tal modo, persino i partiti dell’aristocrazia hanno perduto irrevocabilmente l’aristocratica purezza dei loro principi, e se pure in conformità con la loro natura, rimangono, nella quintessenza, antidemocratici, essi debbon tuttavia, almeno in certi periodi della vita politica, contemperarsi alla democrazia od ostentare cuore democratico.

In paesi ove vige il diritto elettorale generale e pareggiato, il cosiddetto suffragio universale, i partiti dell’aristocrazia non conducono che un’esistenza politica stentata, dovuta unicamente al pane dato loro per carità dalle masse, alle quali essi pur negano in teoria e i diritti e la capacità politica.
L’istinto della propria conservazione politica costringe i gruppi dei vecchi dominatori a discendere, nei periodi elettorali, dai superbi loro seggi e a ricorrere agli stessi mezzi democratici e demagogici in uso presso il più giovine e più esteso e più basso degli strati sociali, il proletariato.

Vero è che oggigiorno la nobiltà mantiene la supremazia politica per altra via che non sia quella del Parlamento.
Per tenere in pugno le redini politiche dello Stato, la nobiltà non ha bisogno, nella più gran parte delle monarchie, di avere per sé la maggioranza parlamentare.
Però, non foss’altro che per [scopi] decorativi e per influire sull’opinione pubblica, le occorre pure una rappresentanza parlamentare abbastanza considerevole perché possa incutere rispetto.
Ma questa non l’ottiene col proclamare i suoi principi più intimi, né col chiamare a raccolta i suoi pari.
Col solo appello agli uomini della sua casta ed agli altri cointeressati economici, un partito di nobili o di latifondisti non conquisterebbe nemmeno uno dei collegi elettorali, non potrebbe far spuntare nemmeno un solo dei suoi candidati.

Per fare adunque atto di presenza in parlamento non c’è, per il ceto dei signori, che un mezzo solo: atteggiarsi a democratico nell’arena elettorale, chiamare fratelli e compagni i contadini ed i lavoratori del suolo, e cercar di persuaderli che i loro interessi economici e sociali concordano coi suoi.
L’aristocratico si vede quindi costretto a farsi eleggere in base ad un principio di cui non riconosce i cardini e a cui anzi non può serbare che perenne rancore e indomabile sprezzo.
Tutto il suo essere reclama autorità, mantenimento di suffragi ristretti e, ove esso sia in vigore, abolizione del suffragio universale, come diritto che pregiudica le sue tradizionali prerogative.
Pur tuttavia sentendo istintivamente che nell’era democratica che ha pervaso le genti, egli rimarrebbe, col proprio principio aristocratico, politicamente isolato né riuscirebbe mai a crearsi una base d’azione pratica come partito politico, l’aristocratico fa di necessità virtù ed implora la massa plebea di dargli la maggioranza.
Lo spirito conservativo dell’antica casta dei signori, per quanto profonde [siano] le sue radici, ha bisogno d’avvilupparsi tutto in un ampio manto dalle pieghe democratiche.

La forma esterna democratica su cui si basa la vita dei partiti politici, fa prender facilmente abbaglio sull’inclinazione all’aristocrazia o, per dir meglio, all’oligarchia, a cui soggiace l’organizzazione d’ogni partito.
Il campo di osservazione più adatto ed efficace a chiarire tale tendenza ci è offerto appunto dall’intima essenza dei partiti democratici e, fra questi, del partito socialista-rivoluzionario.

Prescindendo dai periodi elettorali, nei partiti conservatori le tendenze all’oligarchia si manifestano con quella naturale schiettezza che corrisponde al carattere, oligarchico per principio, di essi partiti stessi.
Ma anche nei partiti sovversivi appare il medesimo fenomeno, con evidenza non minore.
Soltanto, ai cultori di scienza politica l’osservarlo qui dà risultati incontrastabilmente più importanti, giacché i partiti rivoluzionari per la loro origine e le loro finalità rappresentano la negazione di tali tendenze, anzi sono sortì dall’opposizione ad esse.
Epperò il constatare simili tendenze anche in seno di questi ultimi è un dato di ben maggiore rilievo per l’immanente presenza di tratti oligarchici in ogni aggregato umano costituitesi per raggiungere scopi di ordine politico od economico.

Le forme di cristallizzazione d’ogni giovine movimento sociale mostrano una fisionomia democratica.
In faccia al mondo, tutte le giovani classi che stan per sorgere o per affermarsi, fanno, prima di mettersi in marcia per la conquista del potere, la solenne dichiarazione di voler liberare non tanto se stesse, quanto l’umanità intera dal giogo d’una tirannica minoranza, sostituendo al regime dell’ingiustizia quello della giustizia.
Allorché la borghesia si accinse ad ingaggiare la grande lotta contro la nobiltà e il clero, incominciò con la solenne Declaration des Droits de l’Homme [Dichiarazione dei diritti dell’uomo], e si gettò nella mischia colla parola d’ordine: Egalité, Liberté, Fraternité.

Oggi sentiamo un altro possente movimento di classe, quello dei salariati, annunciare ch’esso approfitta bensì, per condurre la lotta di classe, degli antagonismi esistenti nel seno dell’ordinamento economico odierno, ma che però, subendo più che non facendo la lotta di classe, non si prefigge altro scopo che quello di creare una società senza più distinzioni sociali, umanitaria, fraterna.
Senonché, la vittoriosa borghesia dei Droits de l’Homme ha introdotto, è vero, la repubblica, non però la democrazia; e le parole Liberté, Egalité, Fraternité possono leggersi oggi tutt’al più al sommo [delle porte] delle carceri francesi, e la Comune, che rappresentò il primo tentativo coronato da successo, sia pur solo transitorio, di un governo proletario socialista, ha salvaguardato, nonostante i suoi principi fondamentali comunistici, la Banque de France, nei tempi di acutissima crisi monetaria, più fedelmente di quanto non l’avrebbe fatto un consorzio d’inflessibili capitalisti.

Delle rivoluzioni, ce ne sono state; dei regimi democratici, no.
Senonché, i partiti socialistico-rivoluzionari e democratici scorgono, in teoria, il loro primo fine essenziale, anzi la loro stessa ragion d’essere, nel combattere tenacemente l’oligarchia in tutte le sue forme.
Come allora si spiega ch’essi sviluppino in sé medesimi le tendenze stesse, contro cui [muovono] guerra?
Rispondere senza idee preconcette e per via analitica a tale domanda: ecco il nostro compito.


L’organizzazione

Una classe che elevi verso la società pretese determinate e si studi di mandare ad effetto tutto un complesso di ideologie e di "ideali ", generati spontaneamente dalle funzioni economiche che essa compie, ha bisogno d’organizzazione tanto nel campo economico quanto nel campo politico.

L’organizzazione che si basi sul principio del minimo mezzo, vale a dire del maggior risparmio possibile d’energia, è l’arma naturale concessa ai deboli nella lotte contro i forti; lotta che non può venir combattuta se non sul terreno della solidarietà.

Col dire, anche per combattere le idee degli anarchici individualisti, che gli imprenditori nulla [vedono] più volentieri che il disgregarsi e il disperdersi delle forze ricollegate dei lavoratori, i socialisti democratici, partigiani fanatici dell’organizzazione, enunciano un argomento che coincide coi risultati dello studio scientifico sulla storia delle classi economiche e dei partiti moderni.
Difatti, il singolo individuo, specie se appartenente alle classi lavoratrici si trova senza difesa in balia di chi, in potenzialità economica, sia più forte di lui.
II principio dell’organizzazione dev’esser quindi considerato la conditio sine qua non [condizione necessaria] per la capacità delle masse alla propria valorizzazione economica.

Ma a Scilla, che consiste nella mancanza d’organizzazione delle masse, di cui l’avversario [si] avvantaggia, sta di contro il principio dell’organizzazione, che in politica è necessario, ma che cela in sé tutti i pericoli di Cariddi.
Infatti la fonte, da cui le correnti conservatrici si spandono nella bassa pianura della democrazia producendovi inondazioni che la [devastano] al punto di renderla irriconoscibile, si chiama organizzazione.
Chi dice organizzazione, dice tendenza all’oligarchia.
L’organizzazione ha nella sua fisionomia spiccati lineamenti aristocratici.
Il meccanismo dell’organizzazione, col produrre una struttura robusta, provoca nella massa cambiamenti notevoli o addirittura sostanziali.

Gli è che essa inverte il rapporto tra il condottiero e i condotti.
In origine il duce non è che il servitore della massa.
La base dell’organizzazione sta nell’uguaglianza fra tutti gli organizzati.
Tutti i membri dell’organizzazione vi godono gli stessi diritti.

Tutti sono elettori.
Tutti sono eleggibili.
In essa il postulato fondamentale dei Droits de l’Homme è, in teoria, raggiunto.
Tutti gli impieghi [vengono] coperti in via elettiva, e tutti gli impiegati sottostanno al permanente controllo della collettività e possono venir revocati e destituiti quando che sia.
Il principio democratico garantisce a tutti i suoi aderenti, senza eccezione veruna, la possibilità di influire sui comuni destini e, al più gran numero possibile, di partecipare all’amministrazione.
Ma il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione, induce necessariamente i soci a darsi una così detta direzione tecnica, ed a conferire ogni potere effettivo, come cosa che esige specifiche qualità e competenza, ai soli capi.

Così i duci, che dapprima non erano se non gli organi esecutivi della volontà della massa, diventano indipendenti, emancipandosi dalla massa stessa.
L’organizzazione quindi scinde definitivamente ogni partito in una minoranza che governa e in una maggioranza che ne è governata.

Il partito (o, per dir meglio, ogni organizzazione), purché di salda struttura, è un eccellente terreno per le culture intensive.
Quanto più si estende e si dirama il congegno ufficiale del partito, ossia quanti più membri il partito acquista, quanto più le sue casse si riempiono e la sua stampa si diffonde, tanto più il dominio popolare vi perde terreno e viene sostituito dall’onnipossenza delle direzioni, dei comitati e delle commissioni.
Specie nei grandi centri industriali, in cui il partito operaio conta alle volte centinaia di migliaia di soci - come, a mo’ d’esempio, a Berlino -, non è più possibile accudire agli affari di questo corpo gigantesco senza ricorrere al metodo delle rappresentanze fisse e stabili.

Col crescere dell’organizzazione aumentano i compiti degli amministratori, mentre la possibilità di sorvegliarli si restringe e l’ambito degli obblighi e delle diverse sfere d’azione si allarga, si divide e si suddivide ancora.
I soci devon rinunciare a poco a poco ma in misura sempre crescente a diriger di persona, nei singoli casi, gli affari dell’amministrazione, e persino a sottoporla poi a controllo.
Essi devono affidare tale incarico agli organi a ciò destinati, ai funzionari stipendiati, accontentandosi pertanto di resoconti più che sommari o di delegare dei revisori.
Il controllo democratico si ritrae nei limiti di una sfera oltremodo ristretta.
Un numero ognora maggiore di funzioni, già esercitate dalle assemblee autonome e sovrane dei soci, passa nelle mani dei fiduciari.
Così si innalza un potente edificio, di struttura complessa.
Il principio della divisione del lavoro si fa strada e le specializzazioni prendono il sopravvento.
Così si forma una gerarchia rigorosamente delimitata, con numerose gradazioni.
La scrupolosa osservanza della via burocratica diventa l’articolo primo del catechismo in cui i doveri degli aderenti al partito sono annoverati.


L’oligarchia

La tendenza burocratica ed oligarchica assunta dall’organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d’una necessità tecnica e pratica.
Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell’organizzazione.

Ma vi è ancora un altro coefficiente, che contribuisce non poco a produrre il medesimo effetto.
Il moderno partito politico è altresì un’organizzazione di guerra.
Come tale, esso deve piegarsi alle leggi della tattica.
Ora, la legge fondamentale della tattica è la prontezza alla battaglia, la indefessa preparazione alla lotta.
Senonché, democrazia e prontezza sono concetti assolutamente inconciliabili.
Ciò venne riconosciuto già da Ferdinando Lassalle, il grande capo-partito socialista-rivoluzionario, quand’egli propugnò l’idea che la dittatura personale, esistente di fatto nella sua associazione, dovesse venir dichiarata giustificata dalla teoria e proclamata indispensabile in pratica.
Egli stabilì esplicitamente che i soci dovevano lasciarsi guidare passivamente dal loro duce e che l’associazione doveva esser simile ad un martello nella mano del suo presidente.
Questo era un precetto di necessità politica, specie poi in quei primordi del movimento operaio, ancora puerilmente maldestro; ed era anche l’unico modo per assicurarsi potenza e stima di fronte ai partiti della borghesia.
La rapidità delle decisioni restava garantita dal centralismo.

Restava, e resta.
Una grande organizzazione è già in sé un ingranaggio di molta pesantezza.
Le grandi distanze, e la perdita di tempo che deriverebbe, se si volesse spiegare alle masse i singoli problemi quotidiani che richiedono decisioni rapide, sia pur solo affinché esse acquistino una capacità relativa a farsi un giudizio, comportano l’impossibilità d’un regime democratico nella sua schietta forma originaria, giacché con questo non si potrebbe fare se non una politica di ritardi e di buone occasioni mancate; né in tale modo il partito politico riuscirebbe comunque a conservare la sua attitudine a stringere alleanze politiche e la necessaria duttilità tattica.
In altri termini, il regime democratico non è affatto confacente ai bisogni primordiali del partito politico.
Al partito che conduca una guerra - ed anche solo una guerriglia – occorre una armatura gerarchica.
Senza di che, esso potrebbe paragonarsi alle sterminate orde amorfe e selvagge dei Negri africani, la cui arte guerresca naufraga nella mischia con un qualsiasi battaglione ben disciplinato di soldati addestrati all’europea.

Così adunque - per motivi d’indole tecnico-amministrativa e di tattica – si forma un corpo direttivo di professione, il quale, sulla base di procure, accudisce da padrone agli affari della massa.
Le masse delegano un piccolo numero di singoli individui che le rappresenta permanentemente.

Ora l’inizio della formazione d’un corpo direttivo di professione denota il principio della fine della democrazia.
E ciò in prima linea per la logica impossibilità dello stesso sistema di rappresentanza.

Rousseau ed i socialisti francesi della prima metà del secolo XIX hanno enunciato una profonda verità quando sostenevano che una massa che deleghi la propria sovranità, ossia la conferisca ad un esiguo numero di individui, abdica alla sovranità.
Egli è che la volontà di un popolo non è conferibile, e nemmeno quella d’un singolo individuo.
Ciò vale in grado ancor maggiore per un’epoca, ove la vita politica assume forme di giorno in giorno più complesse, e quindi ogni giorno più insensato diventa il voler “rappresentare” una massa in tutte le miriadi dei più svariatissimi problemi della vita politica ed economica.
Rappresentare, significa spacciare la volontà di un singolo per volontà d’una massa.
In casi particolari ed in questioni ben delineate e semplici, la identificazione sarà anche conforme a verità.
Ma una rappresentanza prolungata significa senz’altro il dominio dei rappresentanti fondato su un equivoco.

Il formarsi d’un gruppo direttivo di professione conduce altresì ad un aumento considerevole della disparità di cultura che intercede tra i condottieri e i condotti.
Una lunga esperienza, basata sulla storia, insegna che gli elementi del dominio esercitato dalla minoranza sulla maggioranza vengono formati sopra ogni altra cosa, oltre che dal fattore del denaro e del capitale – superiorità economica - e dal fattore della tradizione e della educazione – superiorità storica – dal fattore della cultura – superiorità intellettuale -.
Ora, nei partiti del proletariato ci colpisce al primo sguardo il fenomeno che, in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito.

Questa superiorità è in prima linea d’ordine puramente formale.
In paesi ove lo sviluppo politico ed una spiccata predisposizione psicologica di quella sotto-classe della borghesia, che diremmo intellettuale, fanno affluire al partito dei lavoratori un gran numero di avvocati, di medici e di professori universitari, come in Italia, tale superiorità si constata facilmente.
Non ad onta, anzi, appunto a causa della superiore cultura formale da essi acquistata nel campo nemico, e che portano con sé nella loro diserzione nel campo dei proletari, i fuoriusciti della borghesia diventano i capi del proletariato organizzato.

In altri paesi gli strati della borghesia incalzano contro i rivoluzionari con un’intransigenza cosi accanita da additare i propri elementi, passati al partito operaio, al completo boicottaggio sociale e politico; e le classi lavoratrici, in virtù della meravigliosa organizzazione dello Stato, e sotto la pressione della grande industria, che esige dai propri addetti un certo grado d’intelligenza, si trovano in possesso d’una cultura scolastica, sia pure elementare, che esse spesso procurano d’estendere e di completare con diligenti studi privati.
In questi ultimi paesi [si rintraccia], alla testa dei lavoratori, accanto a un piccolo numero di intellettuali, una immensa maggioranza di ex operai.

Epperò anche questi ex operai non si trovano più al medesimo livello di cultura dei loro antichi compagni.
Il meccanismo del partito, col suo gran numero d’impieghi e di cariche onorifiche, offre agli operai la possibilità di far carriera; e spiegando in tal guisa una forza d’attrazione non comune, tende alla trasformazione, intesa in senso sociale, di una schiera di proletari, più o meno intelligenti, innalzandoli alla qualità d’impiegati fissi del partito e mettendoli quindi nelle condizioni di esistenza della piccola borghesia; e ciò col procurare loro, a proprie spese, agio e opportunità di acquistarsi una cultura superiore ed una certa cognizione delle cose della vita pubblica.
In tal tirocinio gli ex operai acquistano una routine, che li rende sempre più superiori ai loro mandanti, e fa sì che finiscano col perdere il sentimento della propria comunanza colla classe da cui ebbero origine.
Fra i capi proletari e l’esercito proletario sorge una vera differenza di classe sociale.
In questo modo i lavoratori, colle loro proprie forze, si creano dei nuovi padroni i quali possono contare, nell’arsenale degli strumenti di dominio, come su una delle loro armi più potenti, soprattutto sull’incremento della propria cultura dovuta agli oboli dei loro compagni nelle fabbriche.

Prescindendo dagli anarchici - che in politica esercitano scarsa influenza, e inoltre in parte si oppongono a qualsiasi organizzazione, oppure sono organizzati in organizzazioni così rilassate ed elastiche da non poter esser propriamente considerate come formanti un partito - tutti i partiti hanno un obiettivo parlamentare.
La via su cui essi muovono è la via legalitaria ed elettorale; loro scopo immediato è il conseguire influenza in parlamento; loro ultima finalità è la così detta conquista del potere politico.
In tale guisa resta spiegato perché anche i rappresentanti dei partiti rivoluzionari entrino a far parte della assemblea legislativa.
Ma il lavoro parlamentare che essi vi compiono, dapprima contro voglia, poi con crescente compiacimento ed interesse, li trasporta ancor sempre più lontano dai loro elettori.
Le questioni che lor si presentano e che esigono di venir da essi seriamente studiate, hanno per effetto di allargare e di approfondire le loro cognizioni e di aumentare quindi sempre di più il divario tra loro e i compagni rappresentati.

Non è, adunque, soltanto un divario puramente iniziale tra i rappresentanti dei partiti detti rivoluzionari e i loro compagni, che l’attività parlamentare ingrandisce.

Addestrandosi nei dettagli della vita politica, nei particolari della legislazione, delle questioni tributarie, delle questioni daziarie e nei problemi della politica estera, i capi acquistano un valore che - almeno finché la massa si attiene alla tattica parlamentare, ma forse anche se vi rinunzia - li rende indispensabili al partito; e ciò per il fatto ch’essi ormai non potrebbero più venir sostituiti senz’altro da altri elementi del partito non facenti parte del meccanismo burocratico perché accudiscono invece alle loro quotidiane occupazioni, che li assorbono completamente.

E così dalle cognizioni di causa vien virtualmente creata, anche in questo campo, una inamovibilità che è in contraddizione coi principi fondamentali della democrazia.
Le cognizioni di fatto che innalzano definitivamente i capi al di sopra della massa rendendosela schiava, acquistano una base ancor più salda per i bei modi e pel savoir faire in società, che i deputati imparano nei parlamenti, come pure per lo specializzarsi, frutto in particolar modo del lavoro compiuto nella camera oscura delle commissioni.

E’ naturale ch’essi applichino poi gli stratagemmi, ivi appresi, anche nei loro rapporti col partito.
Con ciò riescono facilmente a vincere eventuali correnti loro contrarie.
Nell’arte di dirigere le adunanze, di applicare ed interpretare il regolamento e il programma, di presentare opportuni ordini del giorno in momenti opportuni, in breve, negli artifici atti a toglier di mezzo dalla discussione i punti importanti ma loro ostici od anche ad indurre una maggioranza mal disposta a votare in loro favore o, nel caso più sfavorevole, a farla ammutolire, essi sono maestri.
Quali relatori e competenti che conoscono persino i più reconditi penetrali del tema che han da trattare, e che a forza di raggiri, parafrasi ed abilità terminologica, san trasformare anche le questioni più semplici e più naturali del mondo in tenebrosi misteri, dei quali essi soli [possiedono] la chiave, essi sono, in linea intellettuale, del tutto inaccessibili e, in linea tecnica, del tutto incontrollabili da parte delle grandi masse, di cui ognuno di essi si atteggia ad essere "l’esponente teorico".

Essi sono i padroni della situazione.
In questa posizione essi [vengono] vieppiù fortificati dalla fama che si vanno acquistando, sia come oratori, sia come studiosi o conoscitori di determinate materie, sia anche con le attrattive della loro personalità - intellettuale oppur soltanto fisica - nella stessa sfera [dei] loro avversari politici e, per tal modo, anche nell’opinione pubblica.
Se le masse organizzate congedassero uno dei loro leaders, generalmente riconosciuto e stimato, il partito dovrebbe subirne la conseguenza con un discredito di non poco momento agli occhi della gente.

Se adunque le masse del partito spingessero le divergenze fra loro ed i duci ch’esse medesime si sono eletti fino al punto della rottura completa, esse rimarrebbero "senza capo" nel doppio senso della parola, anche perché da una simile situazione deriverebbe loro un danno politico incommensurabile.
E ciò non soltanto perché esse non dispongono, così senz’altro, di sufficiente qualità e quantità di forze nuove, tali da poter sostituire le forze vecchie che, grazie ad una pratica di decenni, conoscono a fondo la materia politica, ma anche perché alla personale influenza ed alla salda autorità parlamentare dei capi, esse devono buona parte de loro successi nel campo della legislazione sociale e nella sanzione di principi generali di libertà politica.
Le masse democratiche si trovano perciò in una posizione senza uscita, dovendo concedere sotto pena di suicidio politico ai loro gros bonnets [pezzi grossi] un potere che, a lungo andare, elimina il caposaldo medesimo della democrazia.

Il più forte diritto dei duci consiste nel fatto che essi sono indispensabili.

Così dunque al primo passo è seguito il secondo.
La creazione di un ente direttivo di professione non fu che il preludio del formarsi di una direzione stabile ed inamovibile.
Tale sviluppo viene ancora accelerato da certe qualità che son comuni a tutto il genere umano.
Ciò che fu iniziato da necessità d’organizzazione, d’amministrazione e di strategia, verrà ultimato da necessità psicologiche.
La coscienza della propria forza suole destare la smania di dominio, latente in ogni cuore umano.
E’ questa una nozione elementare di psicologia.
Di regola, chi giunge ad impadronirsi di un qualsiasi potere, sarà poi sempre intento a rafforzarlo e a consolidarlo, a circondare di nuovi baluardi la posizione acquisita, ed a sottrarsi al dominio e al controllo delle masse.

La naturale sete di comando dei capi viene assecondata dal naturale bisogno della folla di venir guidata, nonché dalla sua indifferenza.
Nelle masse vi è proprio un profondo impulso a venerare chi sta in alto.
Nel loro primitivo idealismo, esse han bisogno di divinità terrestri, alle quali si attaccano di affetto tanto più cieco, quanto più aspramente la durezza della vita le afferra.

Sovente questo bisogno di adorare è l’unico rocher de bronze [elemento immutabile (roccia di bronzo)] che sopravviva alla metamorfosi delle loro convinzioni.
Negli ultimi anni, gli operai delle fabbriche della Sassonia son divenuti, da pii protestanti che erano, socialisti-democratici.
Può ben darsi che tale evoluzione abbia provocato in essi l’inversione di tutti i valori.

Ma dalla parete del modesto abituro essi non tolsero l’obbligatorio ritratto di Lutero che per sostituirlo con quello di Bebel, appunto come nell’Emilia, ove avendo i lavoratori della terra subito la medesima evoluzione, l’immagine della Madonna non cedette il posto che a quella dell’onorevole Prampolini, o a quella di Enrico Ferri, il "flagellatore della camorra".
Sotto le macerie del loro modo di pensare nel passato, la colonna trionfale del bisogno di adorare rimase in piedi ed intatta.
Dalla delegazione, prende le mosse e si sviluppa il diritto morale alla delegazione.
Chi sia stato delegato una volta, facilmente resta in carica, in quanto non glielo impediscano delle disposizioni statutarie, senza interruzione.
L’elezione ad uno scopo determinato si muta in impiego a vita.
La consuetudine diventa diritto.
Il capo, che per un certo periodo di tempo sia stato successivamente delegato, finisce coll’aspirare alla continuazione della delegazione come a un suo buon diritto.
Caso mai gli si negasse di continuare questo diritto, egli minaccia subito rappresaglie, tra le quali il dare le dimissioni è ancora la più innocua; e crea in tal modo gravi imbarazzi ai compagni del suo partito.
Ma tali incidenti finiscono quasi sempre - e vedremo in seguito per quali motivi - colla vittoria del capo.

La composizione dei congressi del partito va diventando sempre più stabile.
In altre parole: le masse tornano a rieleggere ogni volta i medesimi rappresentanti.
Sicché i congressi, più che congressi di un dato partito, sembrano talvolta congressi di impiegati.

Anche i fortunati possessori delle posizioni più eminenti nel partito, che d’altronde vengono distribuite mediante elezioni indirette e che sono di loro natura cariche democratiche sottoposte a continuo mutamento, tentano di prolungare vita natural durante il termine della "procura generale" loro affidata.
Lì pure l’incarico diventa un ufficio, e l’ufficio si tramuta in impiego fisso.

Nel regime dei partiti democratici, i capi diventano più inamovibili e più inviolabili di qualsiasi corporazione aristocratica.
La durata media del loro ufficio sorpassa di gran lunga la durata media dell’ufficio di ministro negli Stati monarchici.
Si è calcolata la durata media dell’ufficio di ministro in Germania a quattro anni ed un terzo.
Invece, nella direzione del partito socialista tedesco, vediamo per oltre quarant’anni i medesimi uomini rivestire come capi le cariche ministeriali del partito stesso.
La loro riconferma, richiesta dalle disposizioni statutarie dopo un periodo di tempo più o meno lungo, diventa una pura formalità, una cosa che va da sé.

Per capire questo fenomeno, bisogna spiegarlo prendendo in considerazione, più di ogni altra cosa, il gran fattore della tradizione, con la quale le masse rivoluzionarie si sono immedesimate non meno delle consorterie conservatrici.
L’attenersi logico ai principi fondamentali della democrazia richiederebbe il non aver riguardo alcuno a tradizioni personali ed a sentimentalismi, ed esigerebbe anzi che la suprema direzione venisse cambiata ogni qual volta fosse necessario, in seguito al cambiamento della maggioranza nel seno del partito diviso in diverse correnti o tendenze.

In tali condizioni le forze vecchie tra i capi dovrebbero ceder il posto alle forze nuove, agli ultimi conquistatori del potere nel partito.
D’altronde anche prescindendo da ciò, una massa, imbevuta di principi veramente democratici, dovrebbe forzatamente mirare a non lasciare troppo a lungo le stesse persone in una posizione di autorità e di impedire ch’essi si arrugginiscano acquistando la convinzione di non poter essere che loro gli eletti del popolo.

Invece, il misoneismo della tradizione insieme all’istintivo bisogno di una politica stabile, son causa del fenomeno che il corpo direttivo dei partiti democratici sia, quasi sempre, più l’espressione del passato che del presente.
La direzione del partito – come avviene, a mo’ d’esempio, da oltre trenta anni nel partito socialista tedesco – vien riconfermata non già perché rappresenti, nel momento della riconferma, la risultante delle forze del partito, bensì pel semplice fatto che esiste.
E’ la legge d’inerzia o, per servirsi di un termine eufemistico, la legge della stabilità, che prolunga ai capi il mandato sino alla loro morte.

Senonché un altro momento ancora, eticamente più attraente, coopera alla formazione di tale fenomeno: la gratitudine delle masse verso delle persone la cui opera, in fondo, è stata per esse di non poca utilità e che spesso, per amore della comune "idea", han dovuto subire persecuzioni, esilio e carcere.
E’ opinione assai diffusa nelle masse che sarebbero "ingrate" se non riconfermassero sempre di nuovo un duce "benemerito " nelle sue funzioni.

La mentalità speciale che, in tali condizioni, si va formando nei duci, è uguale in tutti i partiti.
La differenza di cultura e di competenza, realmente esistente tra i membri del partito, spicca anche nella distribuzione degli incarichi.
[Forti] della propria superiorità routiniére [abituale] i capi impongono alle masse obbedienza, in nome di quella.
Sembra loro cosa rivoltante, che l’esercito degli organizzati agisca in senso contrario alle loro proposte, o non si pieghi alle loro ammonizioni.
Di fonte a siffatte disobbedienze, essi non possono trattenersi dall’assumere un tono di vera indignazione.
Essi riguardano come grande e deplorevole mancanza di tatto e di educazione da parte delle masse, il fatto che esse non tengano conto dei consigli dei rappresentanti, peccato tanto più grave [in quanto che] le masse, eleggendoli spontaneamente a capi, li hanno rivestiti, come essi credono, della stessa invulnerabile sovranità popolare.

I capi insistono sull’incapacità della folla a giudicare, per tenerla lontana dagli affari.
Essi si convincono che al partito non può convenire che la minoranza dei compagni, avvezzi a seguire e ponderare le questioni politiche, venga sopraffatta dalla maggioranza, composta di coloro che non sono capaci di formarsi un giudizio in casi determinati; e perciò si dichiarano contro il referendum o, almeno, nella vita vissuta del partito, non ne fanno uso.

Per scegliere il momento propizio all’azione, occorre una perspicacia che soltanto pochi dei singoli componenti una massa possiedono, mentre la maggior parte di essi segue le impressioni e gli impulsi del momento.
Un gruppo ristretto di impiegati e di fiduciari, che deliberino a porte chiuse, sottratti così all’influsso delle relazioni colorate e svisate della stampa, e dove ciascuno può parlare senza aver da temere che le sue parole vengano riportate nel campo avversario, ha maggiori probabilità di emettere come corpo deliberante un giudizio oggettivo.

Per sostituire, per quanto è possibile, l’elezione diretta con l’indiretta, si mette in campo, oltre ai motivi politici, la struttura complessa dell’organizzazione del partito; mentre per l’organizzazione dello Stato, che pure è tanto più complicata, si propugna, tra gli stessi capisaldi del programma, la legislazione diretta, chiedendo che si dia a ogni singolo cittadino il diritto di proporre leggi o di proporne l’eliminazione.

Quest’antinomia invade tutta la vita del partito.
Ogni nuova corrente d’opposizione in seno al partito viene biasimata come se fosse nient’altro che un espediente di demagogia; l’appello diretto alla massa da parte degli elementi non soddisfatti dei dirigenti del partito, per quanto [possano] esser nobili i motivi che lo provocano, e sebbene esso sia da considerarsi senza dubbio quale diritto fondamentale d’ogni democrazia, viene respinto come scorrettezza o, addirittura, bollato col marchio d’infamia, quale maligno tentativo fatto unicamente per distruggere la disciplina del partito, e dietro istigazione di volgari sobillatori.

Oggetto di particolare zelo è il far sì che le masse, non foss’altro che per motivi tattici, a garanzia della necessaria coesione di fronte al nemico, non abbiano in alcun caso a perdere la fede nei dirigenti che si sono dati.
Questo è il criterio, in base al quale ogni severa critica sull’oggettiva manchevolezza del movimento vien tacciata di attentato contro il partito stesso, e gli uomini che fanno capo all’opposizione vengono messi alla gogna come detrattori e nemici del partito e delle masse.

Non è chi non veda come la tattica e la pratica del partito rivoluzionario non si allontanino granché dalla tattica e dalla pratica del governo borghese.
Persino la terminologia nella lotta del governo contro i sovversivi e delle lotte del socialismo ufficiale contro i "miserabili" è - riservatis riservandis [con le dovute eccezioni] - identica.
I medesimi rimproveri contro i ribelli; i medesimi argomenti a difesa dello statu quo; lì, conservazione dello Stato, qui, conservazione del partito nella sua forma attuale; la medesima confusione di idee nello stabilire il rapporto tra cosa e persona, tra individuo e collettività.

Non v’è quasi capo-partito importante, che non pensi e non agisca e - se è uomo risoluto e di carattere onesto - non dica apertamente: Le parti c’est moi! [Il partito sono io!], parafrasando il motto attribuito al Re Sole.

L’identificazione del burocrate con tutto il partito, e degli interessi dell’uno con gli interessi dell’altro, ben spesso non potrebbe esser più completa.
Se il capo viene aggredito, la prima cosa che egli fa è di riferire l’attacco al partito; e ciò non soltanto per considerazioni di opportunità, ossia per assicurarsi in tal modo l’appoggio di tutto l’ente a scopo di atterrare l’aggressore col peso e colla preponderanza della massa, ma altresì per ingenua confusione tra la particella e il tutto.

I duci stessi, se rimproverati di contegno antidemocratico, se ne appellano alla volontà delle masse che li tollerano, e quindi alla loro qualità di rappresentanti ed eletti.
Fintanto che le masse - essi dicono - ci eleggono e ci rieleggono, noi siamo la legittima manifestazione della volontà delle masse e coincidiamo con essa.  La nostra azione è dunque, eo ipso [di per se stessa], azione della massa.
In teoria, questa difesa è piana e chiara e non ammette contraddizioni di sorta.
Ma in pratica, le elezioni dei capi da parte delle masse si compiono con tali metodi, e sotto così forti suggestioni e altre costrizioni morali delle masse stesse, che la loro libertà di decisione appare in sommo grado limitata.
E se ciò non appare sempre dalle elezioni, è però un fatto costante nelle rielezioni.

Il sistema democratico nel partito si riduce, in fondo, senza alcun dubbio, al diritto delle masse di scegliersi da sé, in determinati momenti, quei padroni, ai quali esse nel frattempo debbono assoluta obbedienza; al sistema, cioè, che nella storia degli Stati abbiamo imparato a conoscere sotto il nome del sistema plebiscitario o bonapartistico.

L’onnipotenza della burocrazia, liberata del tutto, nella pratica, dall’obbligo di una resa di conti, finisce per innalzarsi a dittatura, poiché essa nella sua qualità di amministratrice del patrimonio del partito, dispone anche di mezzi di natura economica e politica (come la stampa, le casse, la facoltà di pubblicare e diffondere, o meno, gli scritti degli aderenti al partito, di assumere oratori stipendiali, ecc.); mezzi ch’essa può sempre precludere, e difatti preclude a concorrenti male accetti e agli elementi irrequieti della massa.

In forza di un’evoluzione nel medesimo senso, oggigiorno vediamo anche i capi dei partiti democratici e socialisti rivoluzionari, muniti di ampi poteri, far una politica di propria testa, del tutto indipendente dalla collettività.
La generale abitudine di non rispettare le decisioni in questioni di tattica, affidate loro come inviolabili dalla sfera direttiva più vasta (ossia dalle riunione del partito, dai congressi e così via); di non prendere risoluzioni importanti se non en petit comité [in piccoli gruppi], sottoponendo poi alla collettività il fatto compiuto (per es. col fissare i congressi dopo le elezioni, in modo che i capi siano gli unici a decidere sul programma elettorale); gli accordi segreti dei capi tra di loro (come in Germania la segreta, anzi clandestina intesa sulle questioni del primo maggio e dello sciopero generale da parte della direzione del partito socialista con la Confederazione generale del lavoro); gli impegni e le convenzioni prese alla chetichella, col governo; l’imposizione del silenzio attorno a certe deliberazioni ed accordi presi, considerata come scorretta soltanto nel caso che sia stata applicata dal basso all’alto ossia alla direzione, e non però dall’alto al basso (ossia di fronte alle masse del partito): ecco i frutti giornalieri e naturali del sistema oligarchico, in vigore anche nei partiti della democrazia.

I capi tendono a rinchiudersi tra di loro, formando una specie di lega o se vogliamo, un trust, circondandosi così d’una alta muraglia, oltre la quale essi non lascian passare che gli elementi loro accetti e loro soggetti.
Invece di lasciare questo compito alle elezioni delle masse, essi talvolta cercano di scegliere i loro successori da sé, e di completarsi, in via diretta o indiretta, per mezzo di un opzione autocratica.
Già oggi [possiamo] rintracciare i rudimenti di questa evoluzione in tutte le corporazioni socialiste-democratiche ben organizzate tanto che chi predilige il paradosso potrebbe ben sentirsi tentato di valutare questo processo come primo sintomo del passaggio dal sistema del bonapartismo plebiscitario al sistema della monarchia per diritto ereditario.

Tutte le parole usuali per esprimere il dominio della massa o della maggioranza, come […] Stato, cittadinanza, rappresentanza popolare, partito ecc., indicano soltanto un principio legale, soltanto un ideale, uno scopo ma non un fatto reale ed esistente.
Alle masse tale differenza sostanziale è ancora del tutto ignota.
Il proletario d’oggi subendo l’influenza delle costanti forze di un arte oratoria instancabile, esercitata da elementi eletti dal proletariato stesso, ma a lui superiori per grado di cultura, ha concepito l’idea fissa che gli basti creare un posto nuovo nella burocrazia operaia per un nuovo impiegato o gettare una scheda nell’urna, vale a dire affidare la sua causa economico-sociale ad un avvocato politico, per divenir così egli stesso compartecipe del potere.

La scienza ha il dovere di strappar questa benda dagli occhi delle masse.
E ciò per diversi motivi.
Per amor delle masse; per amore dell’avvenire della democrazia - posto che la democrazia abbia un avvenire -; ma soprattutto per amor di sé stessa, proseguendo una indagine gnoseologica.

Riassumendo quanto abbiamo detto finora, il risultato finale della nostra analisi è il seguente.

La formazione di regimi oligarchici nel seno dei regimi democratici moderni è organica.
In altri termini, essa è da considerarsi quale tendenza, alla quale deve soggiacere ogni organizzazione, persino la [socialista], persino la libertaria.
Questa tendenza si spiega in parte con la psicologia, cioè coi cambiamenti psichici che le singole personalità subiscono nel corso del loro moto evolutivo nel partito; in parte invece anche, ed anzi in primo luogo, con ciò che si potrebbe chiamare la psicologia dell’organizzazione stessa, vale a dire colle necessità di natura tattica e tecnica, che derivano dal consolidarsi dell’aggregato in ragione diretta del suo procedere disciplinatamente sulla via della politica.

Se vi è una legge sociologica, a cui sottostanno i partiti politici - e prendiamo qui la parola politica nel suo senso più lato - questa legge, ridotta alla sua formula più concisa, non può suonare che all’incirca così: l’organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori.

L’organizzazione di ogni partito rappresenta una potente oligarchia su piede democratico.
Dovunque, in essa, si rintracciano elettori ed eletti, ma, pure dovunque, dominio quasi illimitato dei capi eletti sulle masse elettrici.
Sulla base democratica s’innalza, nascondendola, la struttura oligarchica dell’edificio.


Le conseguenze politiche dell’oligarchia

Resterebbe ancora da indagare se l’essenza oligarchica dell’organizzazione porti fatalmente con sé, o meno, manifestazioni oligarchiche ed una politica oligarchica.
Che la politica interna dei partiti organizzati sia conservativa nell’anima, od almeno in procinto di diventarlo, risulta chiaramente senz’altro da quanto abbiamo detto fin qui.
Ma ben vi sarebbe forse la possibilità che la politica esterna di questo ente conservativo sia estremamente violenta e radicale; che l’antidemocratico centralizzarsi del potere nelle mani di pochi capi partito non sia che una arma di natura tattica, per poter ancor meglio, al momento dato, stravincere l’avversario; che gli oligarchi abbiano soltanto il compito provvisorio di educare le masse alla rivoluzione, e che quindi il meccanismo dell’organizzazione sia al servizio di un blanquismo applicato e corretto.
Eppure, come vedremo subito, a questa possibilità si oppone a sua volta l’essenza del partito organizzato, quale mirante ad ottenere la maggioranza.

Nel seno dei partiti democratici, le lotte per i grandi problemi [stanno] diventando impossibili.
L’esame attento e spassionato dei partiti democratici ci dimostra che le grandi divergenze d’opinione e le lotte d’idee si svolgono sempre meno a base di principi e colle pure armi della teoria, ma che esse generalmente tendono, al contrario, a degenerare presto in litigi personali per finire in ultimo, in un modo o nell’altro, con lo sparire, inavvertitamente e completamente, dalla superficie.
La politica del quieto vivere è la conseguenza inevitabile d’una organizzazione basata su tendenze burocratiche e di una propaganda che ritiene quale obiettivo suo più importante quello di aquistare il più gran numero possibile di nuovi aderenti, considerando quindi qualsiasi lotta di idee nelle file del partito come una male accetta perturbazione dei suoi compiti principali.
Ma il riguardo dovuto agli elementi che hanno appena aderito o stanno per aderire e ai cosiddetti simpatizzanti, che sono ancor molto lontani dalle concezioni del socialismo o della democrazia, non possono non impedire che si faccia una politica a base di principi.

L’ultimo anello della lunga catena di fenomeni, che imprimono all’intima essenza d’un partito politico, quand’anche esso si adorni del titolo di rivoluzionario, un carattere conservativo, scaturisce dai rapporti del partito collo Stato.
Sorto allo scopo di prendere il sopravvento sulla potenza centralizzata dello Stato, il partito ha cominciato col centralizzare potentemente se stesso.

Esso s’accinge a diventare un partito di governo, ossia un partito che, organizzato come un governo in miniatura, spera di poter assumere un giorno il governo per davvero.
Il partito politico rivoluzionario è uno Stato nello Stato, formatosi con la mira manifesta di minare e poi seppellire lo Stato in vigore, onde sostituirlo finalmente con uno Stato di forma sostanzialmente diversa.

Solo a questo fine, adunque, diretto apertamente contro lo Stato attuale, il partito si serve, in teoria, dell’organizzazione, la quale ha diritto di esistere unicamente perché intesa a preparare sistematicamente, con i metodo correnti, secondo tutte le regole dell’arte della guerra, e con i mezzi più adatti allo scopo e, nello stesso tempo, più spicci, la demolizione dell’organizzazione dello Stato nella odierna sua forma.
Il partito sovversivo organizza nei suoi quadri la rivoluzione sociale.
Di qui tutti i suoi sforzi quotidiani allo scopo di fortificare le sue posizioni, di accrescere il numero dei suoi aderenti, di estendere il suo meccanismo burocratico, di accumulare i suoi capitali.
Ogni nuovo amministratore, ogni nuovo segretario di partito, che venga assunto al suo servizio, costituisce in teoria un nuovo agente della rivoluzione; ogni nuova sezione è un nuovo battaglione; ogni nuovo biglietto da mille, sia esso ottenuto da contribuzioni di soci o guadagnato per mezzo della stampa, o proveniente da oboli dovuti alla generosità di ricchi mecenati, è, in teoria, un baluardo in più nella lunga e costosa guerra contro l’avversario.

Ma i capi di questo corpo rivoluzionario, in mezzo allo Stato autoritario – che adotta mezzi identici ed è pervaso dallo stesso spirito di ferrea disciplina – non possono fare a meno di comprendere che, di fronte all’organizzazione ufficiale dello Stato, la organizzazione loro, per quanti miracoli possa compiere, non è tuttavia che una monca edizioncella stereotipata dello Stato.
A meno dell’avverarsi di avvenimenti straordinari, per molti decenni ancora ogni tentativo di mettere a prova la sua forza dinamica necessariamente finirà in una rovinosa sconfitta.
La conseguenza logica di tale constatazione rende manifesto proprio il fenomeno opposto a quella speranza giovanile, dalla quale i fondatori del partito si eran lasciati guidare nei bei tempi della sua giovinezza.

Infatti, il partito, col crescere della forza e della potenza della sua organizzazione, avrebbe dovuto guadagnare pure in potenza rivoluzionaria.
Invece vale l’osservazione contraria: vi è un intimo nesso fra il crescere del partito ed il crescere della prudenza e della timidezza della sua politica.
Divenuto grande, il partito, continuamente minacciato dallo Stato nella sua esistenza, e perciò da lui dipendente, si sforza continuamente di evitare tutto quanto potrebbe irritarlo oltre misura.
D’improvviso, il sentimento della responsabilità incomincia ad agitarlo da cima a fondo.
Al fine di scansare ogni conflitto acuto collo Stato, il partito prende ad opporsi, con tutta l’autorità di cui dispone, alle tendenze radicali [sopravvissute] nel suo seno, e che aveva finora lasciate vivacchiare tranquillamente.

Nei suoi giovani anni, il partito non si stancava mai di mettere in luce il suo carattere rivoluzionario; e rivoluzionario non soltanto per la natura della sua meta, ma anche per la scelta dei suoi mezzi, pur non preferendoli per principio.
Ma, fattosi vecchio e caduco o, per dirla con termini eufemistici, più maturo in politica, esso non indugia a modificare la sua originaria professione di fede, affermandosi rivoluzionario soltanto "nel miglior senso della parola".
Ossia dunque, rivoluzionario non più nei mezzi - ed è di questi soltanto che si interessano gli organi di difesa dello Stato - ma puramente nella teoria grigia e sulla carta.

Lo stesso partito che, tempo addietro, non aveva avuto paura di proclamare ad alta voce, al cospetto dei fucili ancora fumanti dell’esercito che aveva domato Parigi, la sua entusiastica solidarietà coi Comunardi, non esita a biasimare di fronte al mondo intero la propaganda antimilitaristica in tutte le sue forme, col pretesto che essa potrebbe mettere qualche militante in conflitto col Codice penale, e sostenendo di non potere assumere la responsabilità delle conseguenze che eventualmente derivassero da questo cozzo con la legge.

E’ chiaro, e la storia del movimento internazionale dei lavoratori corrobora con numerosi esempi la nostra tesi, che la crescente organizzazione del partito non vale che ad immobilizzarlo sempre più.
Esso perde cioè il suo impeto rivoluzionario, diventa pigro e pesante, non soltanto nell’agire, ma persino nel pensare.
Si fissa in grado sempre maggiore alla cosiddetta "antica e gloriosa tattica", ossia a quella tattica che lo ha reso grande e grosso, e la sua paura di fare una mossa aggressiva, di qualsiasi genere, si dimostra sempre più invincibile.
In altre parole: il possesso manifesta, anche rispetto al partito, le tendenze conservatrici che gli sono inerenti.

Per mezzo secolo, gli uomini del partito socialista tedesco hanno faticato e sudato per creare un’organizzazione modello riuscendo ad organizzare tre milioni d’uomini e creando una burocrazia che può gareggiare, per scrupolosità, puntualità e subordinazione gerarchica, persino con quella dello Stato; le casse son piene; è stato creato un complesso di interessi finanziari e sentimentali nel paese intero.
Una tattica energica ed audace metterebbe tutto ciò in gioco: il frutto del lavoro di molti decenni, l’esistenza economico-sociale di molti capi e sottocapi del partito; minaccerebbe, insomma, l’esistenza del partito stesso.
Questa ipotesi diventa a poco a poco quasi inconcepibile.
L’amore per l’opera compiuta, il personale egoismo di vere caterve di probi padri di famiglia che dipendono, sia socialmente, che economicamente, quasi interamente dall’esistenza del partito e che sono dominati dalla paura di perdere l’impiego e del conseguente dissesto economico in seguito allo scioglimento del partito da parte dello Stato, misura possibile in caso di guerra aperta, insomma, un misto di sentimentalismo ingiustificato e di giustificato egoismo, si rivoltano contro quel pensiero con egual forza.

Così l’organizzazione, già mezzo allo scopo, diventa scopo essa stessa.
Come legge suprema del partito, si forma la tendenza ad allontanare da sé tutto quanto possa turbare l’ingranaggio dell’organismo, o se non altro minacciarne la forma esterna, l’organizzazione, che costituisce sempre più il nerbo della sua vita.
Costretto a prendere la propria difensiva, il partito deve preferire di perdere alcune delle eminenti posizioni conquistate, di rinunciare ad inveterati diritti piuttosto che esporsi all’offensiva dell’avversario con mezzi di difesa che lo potrebbero "compromettere".
Man mano che si sviluppa il suo bisogno di pace, il partito perde il dente viperino della rivoluzione e diventa un buon partito conservatore che si serve ancora, è vero, della sua terminologia rivoluzionaria - anche qui l’effetto sopravvive alla causa -, ma che, in pratica, adempie nella migliore delle ipotesi alle mansioni di un opposizione costituzionale.

Qui si impone un altro e decisivo quesito: la malattia oligarchica dei partiti democratici è incurabile?
E’ impossibile che un partito democratico faccia una politica democratica, e che un partito rivoluzionario faccia una politica rivoluzionaria?
Non soltanto il socialismo, ma la stessa politica socialista, sarebbe una utopia?
A queste domande convien rispondere succintamente.

Entro un limite assai ristretto, anche il partito democratico oligarchicamente guidato potrà certo influire sullo Stato in senso democratico, sebbene l’adempimento di questo compito si arresti nel punto stesso, in cui le classi dominanti sono riuscite ad attirare a sé l’opposizione dell’estrema sinistra per farla collaborare col Governo.
Ma anche un tale lavoro non procederà che assai lentamente e sarà spesso interrotto; ed i suoi limiti coincideranno con le leggi ferree dell’oligarchia.
L’organizzazione politica conduce al potere.
Ma il potere è di sua natura conservatore.

E’ vero che, talvolta, vediamo l’oligarchia dei duci improvvisamente infrangersi.
Le masse si sollevano e rifiutano obbedienza.
[Però] [2], dietro a questi avvenimenti si cela quasi sempre soltanto la lotta per la conquista del potere fra un gruppo di duci ed un altro.
Dirimpetto alle masse sole, il duce non soccombe mai.
Nel solo caso che le masse trovino un duce nuovo e più forte, è possibile che l’antico duce venga fatto cadere.

Ma se i capi si stringono compatti di fronte alle masse, l’esperienza storica ci autorizza a dire che, fino ad oggi, i gruppi oligarchici sono usciti vittoriosi da questi cimenti.
Nelle grandi lotte politiche ed economiche intraprese, nel sistema democratico, dalle masse contro la volontà dei loro capi, questi hanno riconquistato ben presto il sopravvento e, all’occorrenza, passando sopra le formali deliberazioni della massa, hanno decretato dall’alto in basso di venire, negli scioperi, a patti col nemico e di riprendere il lavoro contro l’espressa volontà delle masse, facendo strappo così a tutti i principi della democrazia e disprezzando tutti i legami giuridici, logici ed economici che legano i duci stipendiati alle masse che li pagano.
Contro tali inversioni troppo apparenti che intercedono tra il mandante e il mandatario, le masse certo hanno mormorato sovente, ma ribellate non si sono mai, perché non trovavano in loro la forza di punire la duplice violazione dei loro diritti; perciò dopo che il loro furore democratico si era sfogato in alcune assemblee agitate e turbolente, non hanno mancato di coprire l’oligarchia dei loro duci con la democratica foglia di fico dell’approvazione postuma del fatto compiuto.

Nulla fa supporre che questo potere dell’oligarchia nella vita dei partiti, constatato in via empirica, possa venire, in un tempo lontano, spezzato.
L’indipendenza dei capi cresce a misura ch’essi diventano indispensabili e che la potenza e la solidità economica della loro posizione esercitano sulle masse un fascino sempre maggiore e stimolano l’amor proprio degli elementi più intelligenti tra i proletari stessi ad entrare nella privilegiata burocrazia del movimento.
In tal modo sempre più si rarefanno le forze scelte, atte e volonterose di guidare l’opposizione latente nel partito contro i
capi.

Certo, di tanto in tanto le masse si rivolteranno ancora; ma i duci metteranno sempre nuovo freno all’energia collettiva.
Soltanto una cieca politica della classe politica, che finisca col tender troppo la corda, spingerebbe le masse di un partito sulla scena della storia, quali attrici spontanee ed autonome, distruggendo la potenza e l’autorità degli oligarchi democratici; poiché un’azione diretta dalle masse non potrà mai aver luogo che contro la volontà dei capi.
Prescindendo da tali interruzioni passeggere, l’evoluzione naturale o normale dell’organizzazione imprimerà in avvenire, come per il passato, anche al partito socialista-rivoluzionario più spinto, il marchio conservatore.

Tale è la legge fondamentale dello sviluppo organico dei partiti pollici.

L’evoluzione stessa rende irrisoria ogni misura profilattica che tenda ad ostacolare il formarsi dell’oligarchia.
Se vi sono statuti o regolamenti destinati a porre argine al dominio dei duci, non saranno i duci, ma bensì le leggi a cedere, a poco a poco, il campo.


[FINE]

[1]   “fondono”, nel testo dell’Istituto Regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gasperi”.
[2]   “Imperocché”, nel testo dell’Istituto Regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gasperi”.

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