Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

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domenica 18 maggio 2014

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Economisti indegni




Knut Wicksell

Lectures on Political Economy                                                   Volume I General Theory

1911.
Augustus M. Kelley Publishers, Fairfield - New Jersey 1977, pp.3-4.
Pubblicazione disponibile qui.



Economisti indegni

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Quando diciamo che qualcosa è benefico o dannoso dal punto di vista economico, ci basiamo su di un postulato etico o filosofico, cioè su di una determinata concezione del diritto degli uomini a vivere e a godere dei beni della vita.
O assumiamo che tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti e riconosciamo ogni individuo membro della società come uguale, o altrimenti, per una ragione o per l’altra, assumiamo l’esistenza di una differenza tra i singoli individui e in questo caso le ragioni di questa assunzione devono essere chiaramente espresse, se vogliamo che il nostro punto di vista sia fondato scientificamente.

Come sappiamo, le opinioni intorno a questa questione sono cambiate grandemente nel corso della storia.
Nei tempi più antichi solo le persone libere e successivamente solo le classi possidenti sono state considerate come effettivi membri della società; gli schiavi e le persone prive di proprietà venivano considerate come oggi sono considerati gli animali domestici - come semplici mezzi e non come fini. [...]
Negli scritti degli economisti svedesi del diciottesimo secolo [...] troviamo spesso affermazioni che mostrano come la concezione, così repellente per la nostra mentalità, del lavoratore come semplice bestia da soma fosse, non più di due secoli fa, profondamente diffusa e radicata.
Davvero si può considerare in qualche misura come un merito della scienza economica l’aver prodotto da questo punto di vista una rivoluzione nell’opinione pubblica.

Non appena cominciamo a considerare seriamente i fenomeni economici nel loro complesso e a ricercare le condizioni per il benessere della collettività, la considerazione degli interessi del proletariato deve emergere; e da questa alla proclamazione di diritti uguali per tutti il passo è breve.

Il concetto stesso di economia politica, perciò, o l’esistenza di una scienza che porti questo nome, implica a rigore un programma rivoluzionario.
Non deve far meraviglia che il concetto sia vago, perché questo accade spesso per un programma rivoluzionario.
Naturalmente, molti problemi pratici e teorici rimangono insoluti prima che l’obiettivo dello sviluppo economico e sociale si possa dire chiaramente compreso.

Qualcosa si può dire ancora in favore del vecchio punto di vista; ma, in ogni caso, va detto con chiarezza e senza tergiversazione.
Se per esempio, noi consideriamo le classi lavoratrici come esseri inferiori, o se, senza andare così lontano le consideriamo non ancora mature per avere integralmente una quota del prodotto della società, allora noi dovremmo esprimerci chiaramente e basare il nostro ulteriore ragionamento su questa opinione.

Vi è soltanto una cosa che è indegna della scienza: nascondere o fuorviare la verità.

Vale a dire, in questo caso:
-         presentare la situazione come se le classi lavoratrici avessero già ricevuto tutto ciò che ragionevolmente potrebbero desiderare o attendere, oppure
-         far assegnamento su infondate, ottimistiche convinzioni che gli sviluppi economici in se stessi tendano alla maggior soddisfazione di tutti.




[FINE]




Commento

Non è difficile riconoscere una radicata ideologia reazionaria o una psicopatologia antisociale (o entrambe) nelle parole di un economista che considera le classi lavoratrici come inferiori e predica, per loro, la durezza del vivere.

E’ invece difficile riconoscere la menzogna, l’inganno, la verità nascosta, la pura falsità nel discorso economico.


Gli economisti indegni si guardano bene dal manifestare la loro ideologia reazionaria, dall’esplicitare le loro preferenze di classe, dall’affermare che per loro i lavoratori sono bestie da soma, o anche solo bestie, untermenschen o esseri inferiori.

Wicksell indirettamente ci offre un criterio per riconoscere gli economisti indegni: a fructibus eorum cognoscetis eosdai loro frutti li riconoscerete.

Sono indegni gli economisti che invitano a “far assegnamento su infondate, ottimistiche convinzioni che gli sviluppi economici in se stessi tendano alla maggior soddisfazione di tutti”.
Non sono forse questi gli economisti che parlano di “luci in fondo al tunnel”,  che lodano i conti in ordine, che condannano “i debiti lasciati ai nascituri” o “alle future generazioni”, quelli che predicano l’austerità espansiva, che auspicano tagli sempre più estesi ai salari, alle pensioni e alla spesa sociale e la riduzione complessiva della spesa pubblica, quelli che premono perché si approvino le riforme del diritto del lavoro, i jobs act, con l’azzeramento dei diritti dei lavoratori, la precarietà eretta a sistema, l’insicurezza per tutti? 
Non sono forse questi gli economisti che auspicano queste riforme strutturali dicendo che solo dal mercato può venire lo sviluppo economico e che questo sviluppo economico beneficerà egualmente tutti?

Sono indegni gli economisti che presentano la situazione come se le classi lavoratrici avessero “già ricevuto tutto ciò che ragionevolmente potrebbero desiderare o attendere”.
Oggi molti economisti sono discesi a un livello di indegnità ancora più profondo rispetto a quello stigmatizzato da Wicksell e presentano la situazione come se le classi lavoratrici avessero già ricevuto più di quanto ragionevolmente avrebbero dovuto attendersi o desiderare.
La retorica dell’”abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi” è a un livello di indegnità che Wicksell probabilmente non avrebbe potuto nemmeno immaginare ma è coerente con un’ideologia reazionaria (e/o una psicopatologia antisociale) che vuole rimettere indietro le lancette della storia e distruggere tutte le conquiste che le classi lavoratrici hanno realizzato, in Italia e in Europa, nel dopoguerra.


P.S.
Ho trovato la citazione di una parte del testo di Wicksell nel bel libro di Joan Robinson Economic Philosophy (tradotto in italiano con il titolo Ideologie e scienza economica).
Come esercizio per l’applicazione del criterio di Wicksell propongo il confronto tra due articoli sul tema della monetizzazione del debito pubblico: uno di Adair Turner del 18 marzo, tradotto nel blog, Il tabù della monetizzazione del debito pubblico, e uno de lavoce.info del 16 maggio, Le conseguenze di un ripudio. Del debito.



venerdì 21 marzo 2014

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Il tabù della monetizzazione del debito pubblico




Adair Turner

Rethinking the Monetization Taboo

Project Syndicate, 18 marzo 2014.
Pubblicazione disponibile qui



Il tabù della monetizzazione del debito pubblico

[ Traduzione di Giorgio D.M. * ]



Ora che si è dibattuto fino allo sfinimento sul ritmo della riduzione [tapering] del programma della Federal Reserve degli Stati Uniti di acquisto di attività finanziarie, l’attenzione si sposterà progressivamente sulle prospettive derivanti da un incremento dei tassi di interesse.
Ma si profila anche un’altra questione: come potranno le banche centrali “uscire” definitivamente dalla politica monetaria non convenzionale e ridimensionare a livelli “normali“ i loro bilanci gonfiati dalla politica monetaria non convenzionale?

Secondo molti, deve essere affrontato un problema ancora più ampio.
La riduzione degli acquisti da parte della Federal Reserve rallenta solo la crescita del suo bilancio. La banca centrale dovrebbe ancora vendere 3.000 miliardi di dollari di titoli per ritornare nella condizione precedente la crisi.

La verità che solo raramente si ammette, tuttavia, è che non c’è alcuna necessità che le banche centrali riducano i loro bilanci.

Le banche centrali possono avere un bilancio permanentemente più ampio e, per alcuni paesi, un bilancio permanentemente maggiore sarà di aiuto per ridurre l’onere del debito pubblico.

Come mostra uno studio recente pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, di Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, le economie avanzate si trovano ad affrontare oneri derivanti dai debiti pubblici che non possono essere ridotti semplicemente con un mix di austerità, astinenza e crescita.

Però, se una banca centrale possiede i titoli del debito del suo Stato, non esiste alcuna passività netta per lo Stato stesso.
Lo Stato possiede la banca centrale, quindi il debito che ha emesso e che la banca centrale possiede è verso se stesso, e la spesa per gli interessi viene restituita al governo sotto la forma dei profitti della banca centrale.
Se i titoli del debito pubblico posseduti dalla banca centrale fossero convertiti in obbligazioni perpetue che non pagano interessi, non cambierebbe nulla di sostanziale, ma diverrebbe evidente che alcuni dei titoli del debito pubblico emessi in passato non devono affatto essere rimborsati.

Questo corrisponde al gettare denaro dall’elicottero [helicopter money], a posteriori.
Nel 2003, l’allora presidente della Federal Reserve Ben Bernanke sostenne che il Giappone, trovandosi a dover affrontare la deflazione, avrebbe dovuto incrementare la spesa pubblica o ridurre le imposte, finanziando l’operazione stampando denaro [printing money] piuttosto che emettendo titoli di Stato.
Questo, disse, necessariamente avrebbe incrementato il reddito nazionale, perché l’effetto diretto di stimolo per l’economia non sarebbe stato contrastato dalle preoccupazioni relative ai futuri oneri del debito.

Il suo consiglio non fu seguito, gli ampi disavanzi del Giappone furono infatti finanziati con l’emissione di titoli di Stato. 1
I titoli posseduti dalla Banca del Giappone però possono ancora essere cancellati.
Nel caso del Giappone, questa cancellazione ridurrebbe il debito pubblico di un ammontare pari a più del 40% del PIL oggi, e di circa il 60% del PIL se attuata dopo gli acquisti di titoli programmati per il 2014.

Le obiezioni si concentrano su due rischi: le perdite della banca centrale e l’inflazione eccessiva.
Ma entrambi questi rischi possono essere evitati.

Le banche centrali hanno acquistato i titoli di Stato con denaro sul quale attualmente pagano un tasso di interesse nullo o molto basso. 2
Così, man mano che i tassi di interesse salgono, le banche centrali potrebbero dover andare incontro a costi maggiori dei loro ricavi.
Le banche centrali però possono decidere di pagare un interesse nullo su una porzione delle riserve che le banche commerciali possiedono presso di loro, anche quando incrementano i tassi di interesse della politica monetaria.
E possono richiedere alle banche commerciali di mantenere presso le banche centrali delle riserve, in proporzione ai loro prestiti, sulle quali non siano corrisposti interessi, prevenendo in questo modo una crescita inflazionistica del credito privato e del denaro.

Una permanente monetizzazione 3 dei debiti pubblici è senza alcun dubbio tecnicamente possibile.
Se sia desiderabile dipende dalle prospettive riguardanti l’inflazione.
Se l’inflazione dovesse ritornare ai livelli obiettivo, la monetizzazione del debito potrebbe essere inutilmente e pericolosamente di stimolo per l’economia.
La vendita dei titoli di Stato da parte della banca centrale, anche se certamente non inevitabile, potrebbe allora essere opportuna .
Ma se il pericolo è la deflazione, una permanente monetizzazione del debito può essere la politica migliore.

Prevedo che il Giappone, in effetti, monetizzerà permanentemente una parte del debito pubblico.
Dopo due decenni di bassa crescita e deflazione, il debito pubblico lordo giapponese è oggi maggiore del 240% del PIL (e maggiore del 140% del PIL in termini netti); e, con un disavanzo fiscale pari al 9,5% del PIL, l’onere del debito continua ad aumentare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, per ridurre il suo debito pubblico netto all’80% del PIL entro il 2030 il Giappone dovrebbe convertire il suo attuale disavanzo primario (il saldo di bilancio che si ottiene escludendo il pagamento degli interessi sul debito pubblico) pari all’8,6% del PIL in un avanzo primario pari al 6,7% del PIL e mantenere questo avanzo con continuità fino al 2030.

Questo non accadrà, e ogni tentativo di raggiungere questo obiettivo condurrebbe il Giappone in una grave depressione.
Ma il governo non deve rimborsare i 140.000 miliardi di yen (1.400 miliardi di dollari) del suo debito che la Banca del Giappone possiede già.

La Banca del Giappone continuerà ad espandere il suo bilancio finché raggiungerà il suo obiettivo di una inflazione pari al 2%.
Una volta raggiunto questo obiettivo, il suo bilancio si potrà stabilizzare in termini nominali assoluti e ridursi leggermente in rapporto al PIL, ma la sua dimensione in termini assoluti probabilmente non si ridurrà mai - una possibilità che non deve generare alcuna preoccupazione.
E’ precisamente quello che avvenne al bilancio della Federal Reserve dopo che i suoi acquisti di titoli del governo degli Stati Uniti nel periodo della guerra e nell’immediato dopoguerra terminarono nel 1951.
Anche se si verifica una permanente monetizzazione del debito pubblico, tuttavia, la verità può essere nascosta.
Se il governo continuasse a rimborsare alla Banca del Giappone i titoli di Stato giunti a scadenza, ma i rimborsi fossero sempre compensati da nuovi acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale, e se la Banca del Giappone mantenesse nullo il tasso di interesse pagato sulle riserve delle banche commerciali, l’effetto netto sarebbe lo stesso di una cancellazione del debito, ma la finzione di una “normale“ attività della banca centrale potrebbe essere mantenuta.

Le banche centrali possono monetizzare il debito pubblico fingendo di non farlo.
Questa finzione può riflettere un utile tabù: se riconosciamo apertamente che la cancellazione o monetizzazione del debito pubblico è possibile, i politici potrebbero pretenderla in continuazione e in misura eccessiva, non solo quando è opportuna.
Le esperienze storiche della Germania di Weimar, o dello Zimbabwe oggi, illustrano il pericolo.

Quindi, anche quando una permanente monetizzazione del debito pubblico si verifica - come quasi certamente accadrà in Giappone e probabilmente altrove - essa rimane sempre la politica che non osa dire il suo nome.
Questa reticenza può essere utile.
Ma non deve nascondere alle banche centrali e ai governi l’ampio ventaglio degli strumenti di politica monetaria disponibili per affrontare gli attuali gravi eccessi di debito pubblico.



 [FINE]



* Note
1 Sembra che con “printing money” l’Autore intenda la creazione di denaro direttamente da parte dello Stato o del governo.
2 In realtà le banche centrali acquistano i titoli di Stato accreditando le riserve che le banche commerciali hanno presso di esse: le banche centrali creano denaro acquistando attività. Come poi viene detto, l’accreditamento corrispondente all’acquisto dei titoli di Stato e la remunerazione delle riserve sono operazioni logicamente e operativamente distinte e indipendenti.
3 “Permanente monetizzazione” del debito pubblico è quindi per l’Autore l’acquisto da parte della banca centrale di  titoli di Stato che non saranno più rivenduti sul mercato, né rimborsati dallo Stato. Anziché “stampare denaro”, il governo emette un titolo di Stato che direttamente o indirettamente viene acquistato dalla banca centrale. In questo modo il governo si procura il denaro di cui ha bisogno senza “stamparlo” ma anche senza dover pagare interessi sul debito e senza dover rimborsare i titoli emessi.