Ignazio Silone
Fontamara
1930, Arnoldo
Mondadori editore, Milano 1985, pp. 47, 175-180.
“Vedi”,
gli disse “in città succedono molti fatti. In città, ogni giorno, dicono, esce
un giornale e racconta almeno un fatto. In capo all’anno, quanti fatti sono?
Centinaia e centinaia. E in capo a vari anni? Migliaia e migliaia. Immagina.
Come può un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere
tutti questi fatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un’altra è chi comanda.
I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è sempre quello. L’autorità è sempre
quella.”
Berardo, Scarpone e io avevamo un
piccolo credito con don Circostanza per un reimpianto di viti in una sua
vecchia vigna dietro il cimitero che l’anno prima era stata sradicata da un’alluvione.
Una domenica mattina andammo da lui
per essere soddisfatti del nostro avere [...].
Don Circostanza ci strinse la mano e
ci fece accomodare con segni di grande cordialità.
“Quante giornate vi devo?” ci chiese.
Berardo doveva avere quindici giornate,
Raffaele e io dodici; per una persona istruita come don Circostanza il conto
non era difficile.
Ma l’Amico del Popolo [don
Circostanza] fece all’improvviso la faccia scura.
Rimase per alcuni momenti in
silenzio.
Andò due o tre volte avanti e
indietro per lo studio.
Guardò dalla finestra e origliò alla
serratura della porta per sentire se qualcuno ascoltasse.
Poi ci si avvicinò e ci disse
sottovoce:
“E’ terribile. Voi non potete
immaginare come il Governo ci perseguiti. Ogni giorno il Governo inventa una
nuova legge contro di noi. Non siamo più liberi nemmeno dei nostri soldi.”
Queste parole ci fecero una certa
impressione.
Il Governo cominciava dunque a
perseguitare anche i galantuomini?
“Vostra signoria non ha che da dire
una parola” rispose Berardo in un tono che da qualche tempo aveva smesso “e
tutti i cafoni insorgeranno."
“Non si tratta di questo”, disse don
Circostanza spaventato “ma di una prepotenza più raffinata. Ecco, là erano le
tre buste che avevo preparato per voi. Una per ognuno con il salario pattuito.”
Sul tavolo infatti c’erano tre buste.
“Avevo tutto preparato” continuò egli
“com’era stato pattuito. Non avevo trattenuto un solo centesimo. Mi credete?”
Perché non dovevamo credergli?
Egli ci strinse di nuovo la mano, con
riconoscenza.
“Ebbene”, riprese a dire “ho ricevuto
il nuovo contratto di lavoro per gli operai agricoli della provincia. E’ stato
per me un colpo inatteso e terribile. Leggete con i vostri occhi.”
Presi con diffidenza un giornale che
don Circostanza mi porse e poiché egli insisteva lessi alcuni punti segnati con
il lapis rosso.
Secondo quello scritto il salario
corrente degli operai agricoli era ridotto del quaranta per cento per gli
uomini dai 19 ai 60 anni, cioè, per noi.
“Non è strano? Ditemi, non è
terribile?” egli interruppe. “Puoi continuare” mi disse “non è finito”.
In continuazione lessi che i lavori
di miglioramento, i nuovi impianti o reimpianti di vigneti, oliveti e frutteti,
le costruzioni di concimaie, i riempimenti, l’espurgo, lo scavo di fossati, le
estirpazioni di piante e le aperture di strade, hanno carattere straordinario,
intesi ad alleviare la disoccupazione e come tali devono essere compensati con
mercedi inferiori a quelle stabilite, con una riduzione fino al venticinque per
cento.
“Non è insopportabile?” riprese a
dire l’avvocato. "Cosa ha a che fare la legge tra padroni e cafoni? Dove
andrà a finire la nostra libertà?”
L’inganno era evidente.
Si trattava di una nuova invenzione
per derubarci in nome della legge.
Don Circostanza era stato sempre
maestro in simili trucchi.
Egli aveva, tra l’altro, la furberia
di ricomprare da una bancarella locale le cambiali inesigibili, a un terzo o a
un quarto del loro valore, e le faceva scontare ai cafoni debitori con giornate
lavorative; in modo che questi faticavano senza salario e lui se la cavava con
una miseria.
Perciò quel giorno, prima di entrare
nel suo studio, avevamo fatto un piccolo esame di coscienza. Ci eravamo
interrogati: “Nessuno di noi ha qualche cambialetta in protesto? Qualche
cambialetta dimenticata?” Nessuno.
Ma quella volta l’inganno era
diverso.
“Là ci sono le tre buste” osservò
Berardo semplicemente; “noi ce le prendiamo e tutto è a posto”.
E Berardo fece l’atto di prendere la
sua busta.
Ma don Circostanza, che se
l’aspettava, prevenne il gesto.
“Cosa?” si mise a gridare cambiando
voce ed espressione. “In casa mia queste prepotenze?”
Io mi interposi subito per non
lasciar compromettere Berardo.
“Non è una prepotenza” dissi. “Noi
abbiamo lavorato per una data paga e un certo numero di giorni. Non è difficile
fare il conto di quello che dobbiamo avere e restiamo amici come prima.”
“E la legge?” riprese a gridare,
contro di me, l’avvocato. “Dove va a finire la legge? Sapete voi quali pene
rischia chi trasgredisce simili leggi? Voi non lo sapete, voi siete ignoranti,
ma io lo so. Io non voglio andare in galera per causa vostra.”
“La legge di Mosé dice di non rubare”
io aggiunsi.
“La legge di Mosé serve per il
tribunale di Dio” mi replicò don Circostanza. “Quaggiù comanda la legge del
Governo. D’altronde non sono io che devo far rispettare la legge. Se voi non vi
persuadete con le buone, non mi resta che chiamare i carabinieri.”
Quest’ultima parola produsse uno
strano effetto e lo stesso don Circostanza mi parve subito pentito di averla
pronunciata.
Per Berardo fu come una frustata in
faccia che lo fece scattare in piedi, ma io mi avvicinai a lui ed egli capì e
tornò a sedersi.
Si stabilì un silenzio imbarazzante.
“Non vorrei essermi spiegato male”
balbettò l’avvocato. “Anche la mia vita è difficile.”
Poteva persino darsi che dicesse il
vero.
Su una parete dello studio c’era una
grande fotografia del figlio morto in guerra e accanto quella della moglie
ricoverata al manicomio.
E a guardarlo si capiva che don
Circostanza non era più l’uomo fortunato e gioviale di un tempo; ma era un
motivo perché affliggesse noi, assai più disgraziati di lui?
“Quando sta male il pastore, stanno
male anche le pecore” egli aggiunse quasi per rispondere ai nostri pensieri.
Berardo era come un uomo in catene
che freme e si dimena, ma non può e neppure vuole liberarsi dalle catene.
Egli sembrava assai avvilito e
umiliato e non osava guardare dalla parte di Scarpone.
“Quanto fa?” chiese Berardo tra i
denti.
Don Circostanza fu assai sorpreso
dalla insolita remissività di Berardo ed ebbe il cattivo gusto di congratularsi
con lui.
“Se tu avessi dimostrato sempre lo
stesso buon senso di ora”, gli disse” non è per rinfacciartelo, ma la tua
condizione sarebbe migliore.”
Andò allo scrittoio; prese la busta
di Berardo e ne trasse il denaro.
Prese un foglio di carta e un lapis e
cominciò a borbottare i conti:
“Secondo la legge” disse “dobbiamo
innanzitutto togliere il quaranta per cento. Dalla somma che resta, secondo la
legge, dobbiamo togliere il venticinque per cento come alleviamento della disoccupazione.
Restano per Berardo trentotto lire [delle ottantaquattro dovute, se l'Amico del
Popolo ha fatto i conti correttamente]. Caro Berardo mi dispiace, ma la colpa è
del Governo.”
Poi don Circostanza prese la mia
busta e ne trasse il denaro.
Su di essa riprese a scarabocchiare i
suoi calcoli: mi restavano trentaquattro lire.
La stessa strana operazione egli
ripeté sulla busta di Scarpone.
Trentaquattro lire per dodici
giornate di fatica.
Quel compenso era talmente irrisorio
che sembrava una stregoneria.
Val la pena, pensavo, val la pena di
continuare a zappare la terra per essere beffati in tal modo? [...]
In vena di generosità e per
dimostrare che non ci serbava rancore, don Circostanza chiamò la serva e ci
offrì un bicchiere di vino.
(Purtoppo, noi lo bevemmo.)
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