sabato 24 agosto 2013

La svalutazione interna a Fontamara




Ignazio Silone

Fontamara

1930, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1985, pp. 47, 175-180.


“Vedi”, gli disse “in città succedono molti fatti. In città, ogni giorno, dicono, esce un giornale e racconta almeno un fatto. In capo all’anno, quanti fatti sono? Centinaia e centinaia. E in capo a vari anni? Migliaia e migliaia. Immagina. Come può un cafone, un povero cafone, un povero verme della terra conoscere tutti questi fatti? Non può. Ma una cosa sono i fatti, un’altra è chi comanda. I fatti cambiano ogni giorno, chi comanda è sempre quello. L’autorità è sempre quella.”






Berardo, Scarpone e io avevamo un piccolo credito con don Circostanza per un reimpianto di viti in una sua vecchia vigna dietro il cimitero che l’anno prima era stata sradicata da un’alluvione.
Una domenica mattina andammo da lui per essere soddisfatti del nostro avere [...].
Don Circostanza ci strinse la mano e ci fece accomodare con segni di grande cordialità.
“Quante giornate vi devo?” ci chiese.
Berardo doveva avere quindici giornate, Raffaele e io dodici; per una persona istruita come don Circostanza il conto non era difficile.
Ma l’Amico del Popolo [don Circostanza] fece all’improvviso la faccia scura.
Rimase per alcuni momenti in silenzio.
Andò due o tre volte avanti e indietro per lo studio.
Guardò dalla finestra e origliò alla serratura della porta per sentire se qualcuno ascoltasse.
Poi ci si avvicinò e ci disse sottovoce:
“E’ terribile. Voi non potete immaginare come il Governo ci perseguiti. Ogni giorno il Governo inventa una nuova legge contro di noi. Non siamo più liberi nemmeno dei nostri soldi.”
Queste parole ci fecero una certa impressione.
Il Governo cominciava dunque a perseguitare anche i galantuomini?
“Vostra signoria non ha che da dire una parola” rispose Berardo in un tono che da qualche tempo aveva smesso “e tutti i cafoni insorgeranno."
“Non si tratta di questo”, disse don Circostanza spaventato “ma di una prepotenza più raffinata. Ecco, là erano le tre buste che avevo preparato per voi. Una per ognuno con il salario pattuito.”
Sul tavolo infatti c’erano tre buste.
“Avevo tutto preparato” continuò egli “com’era stato pattuito. Non avevo trattenuto un solo centesimo. Mi credete?”
Perché non dovevamo credergli?
Egli ci strinse di nuovo la mano, con riconoscenza.
“Ebbene”, riprese a dire “ho ricevuto il nuovo contratto di lavoro per gli operai agricoli della provincia. E’ stato per me un colpo inatteso e terribile. Leggete con i vostri occhi.”
Presi con diffidenza un giornale che don Circostanza mi porse e poiché egli insisteva lessi alcuni punti segnati con il lapis rosso.
Secondo quello scritto il salario corrente degli operai agricoli era ridotto del quaranta per cento per gli uomini dai 19 ai 60 anni, cioè, per noi.
“Non è strano? Ditemi, non è terribile?” egli interruppe. “Puoi continuare” mi disse “non è finito”.
In continuazione lessi che i lavori di miglioramento, i nuovi impianti o reimpianti di vigneti, oliveti e frutteti, le costruzioni di concimaie, i riempimenti, l’espurgo, lo scavo di fossati, le estirpazioni di piante e le aperture di strade, hanno carattere straordinario, intesi ad alleviare la disoccupazione e come tali devono essere compensati con mercedi inferiori a quelle stabilite, con una riduzione fino al venticinque per cento.
“Non è insopportabile?” riprese a dire l’avvocato. "Cosa ha a che fare la legge tra padroni e cafoni? Dove andrà a finire la nostra libertà?”
L’inganno era evidente.
Si trattava di una nuova invenzione per derubarci in nome della legge.
Don Circostanza era stato sempre maestro in simili trucchi.
Egli aveva, tra l’altro, la furberia di ricomprare da una bancarella locale le cambiali inesigibili, a un terzo o a un quarto del loro valore, e le faceva scontare ai cafoni debitori con giornate lavorative; in modo che questi faticavano senza salario e lui se la cavava con una miseria.
Perciò quel giorno, prima di entrare nel suo studio, avevamo fatto un piccolo esame di coscienza. Ci eravamo interrogati: “Nessuno di noi ha qualche cambialetta in protesto? Qualche cambialetta dimenticata?” Nessuno.
Ma quella volta l’inganno era diverso.
“Là ci sono le tre buste” osservò Berardo semplicemente; “noi ce le prendiamo e tutto è a posto”.
E Berardo fece l’atto di prendere la sua busta.
Ma don Circostanza, che se l’aspettava, prevenne il gesto.
“Cosa?” si mise a gridare cambiando voce ed espressione. “In casa mia queste prepotenze?”
Io mi interposi subito per non lasciar compromettere Berardo.
“Non è una prepotenza” dissi. “Noi abbiamo lavorato per una data paga e un certo numero di giorni. Non è difficile fare il conto di quello che dobbiamo avere e restiamo amici come prima.”
“E la legge?” riprese a gridare, contro di me, l’avvocato. “Dove va a finire la legge? Sapete voi quali pene rischia chi trasgredisce simili leggi? Voi non lo sapete, voi siete ignoranti, ma io lo so. Io non voglio andare in galera per causa vostra.”
“La legge di Mosé dice di non rubare” io aggiunsi.
“La legge di Mosé serve per il tribunale di Dio” mi replicò don Circostanza. “Quaggiù comanda la legge del Governo. D’altronde non sono io che devo far rispettare la legge. Se voi non vi persuadete con le buone, non mi resta che chiamare i carabinieri.”
Quest’ultima parola produsse uno strano effetto e lo stesso don Circostanza mi parve subito pentito di averla pronunciata.
Per Berardo fu come una frustata in faccia che lo fece scattare in piedi, ma io mi avvicinai a lui ed egli capì e tornò a sedersi.
Si stabilì un silenzio imbarazzante.
“Non vorrei essermi spiegato male” balbettò l’avvocato. “Anche la mia vita è difficile.”
Poteva persino darsi che dicesse il vero.
Su una parete dello studio c’era una grande fotografia del figlio morto in guerra e accanto quella della moglie ricoverata al manicomio.
E a guardarlo si capiva che don Circostanza non era più l’uomo fortunato e gioviale di un tempo; ma era un motivo perché affliggesse noi, assai più disgraziati di lui?
“Quando sta male il pastore, stanno male anche le pecore” egli aggiunse quasi per rispondere ai nostri pensieri.
Berardo era come un uomo in catene che freme e si dimena, ma non può e neppure vuole liberarsi dalle catene.
Egli sembrava assai avvilito e umiliato e non osava guardare dalla parte di Scarpone.
“Quanto fa?” chiese Berardo tra i denti.
Don Circostanza fu assai sorpreso dalla insolita remissività di Berardo ed ebbe il cattivo gusto di congratularsi con lui.
“Se tu avessi dimostrato sempre lo stesso buon senso di ora”, gli disse” non è per rinfacciartelo, ma la tua condizione sarebbe migliore.”
Andò allo scrittoio; prese la busta di Berardo e ne trasse il denaro.
Prese un foglio di carta e un lapis e cominciò a borbottare i conti:
“Secondo la legge” disse “dobbiamo innanzitutto togliere il quaranta per cento. Dalla somma che resta, secondo la legge, dobbiamo togliere il venticinque per cento come alleviamento della disoccupazione. Restano per Berardo trentotto lire [delle ottantaquattro dovute, se l'Amico del Popolo ha fatto i conti correttamente]. Caro Berardo mi dispiace, ma la colpa è del Governo.”
Poi don Circostanza prese la mia busta e ne trasse il denaro.
Su di essa riprese a scarabocchiare i suoi calcoli: mi restavano trentaquattro lire.
La stessa strana operazione egli ripeté sulla busta di Scarpone.
Trentaquattro lire per dodici giornate di fatica.
Quel compenso era talmente irrisorio che sembrava una stregoneria.
Val la pena, pensavo, val la pena di continuare a zappare la terra per essere beffati in tal modo? [...]
In vena di generosità e per dimostrare che non ci serbava rancore, don Circostanza chiamò la serva e ci offrì un bicchiere di vino.
(Purtoppo, noi lo bevemmo.)


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Negli anni Venti la quota 90, oggi l’euro.


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