mercoledì 25 dicembre 2013

Il teorema della piscina



Alberto Bagnai

L’uscita dall’euro prossima ventura

Il manifesto, 22 agosto 2011.
Disponibile inizialmente sul sito de Il manifesto, qui, poi cancellato.
Ripubblicato e commentato dall’Autore il 29 novembre 2011 sul blog Goofynomics, qui.



Il teorema della piscina




Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato?
Una domanda simile a quella di Rossanda.
Aristide, economista di sinistra, mi raggelò:
“caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro.
Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.”
Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”.
Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare.
Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua.
Bella democrazia in un intellettuale di sinistra!
Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo.
“Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio.
Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui.
Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi.
La nemesi è  nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali.


Il debito pubblico non c’entra.

Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico.
Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma”  seguita al crollo del muro.
Questo a Rossanda è chiaro.
Le ricordo che  nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei).
Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate.
Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato).
Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione?
Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede.
Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori.
Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia.
Cosa accomuna questi paesi?
Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione.
Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”.
I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).


Inflazione e debito estero.

Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti.
La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia.
Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza.
Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano.
Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit).
Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus.
Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni.
E se, come i Pigs, non ci riescono?
Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si indebita con l’estero per finanziare le proprie importazioni.
I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62).
Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.


Lo spettro del 1992.

E l’Italia?
Dice Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”.
Non è più vero.
Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi?
Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”?
Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili.
Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata).


Cui Prodest?

Calata nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di classe.
Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività.
Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo.
La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena.
Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici.
Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici.
La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno.
Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando).
Alla domanda di Rossanda “non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non c’è stato nessun errore.
Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a guida democristiana accomodatevi.
Lo dice il manuale di Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati.


Più Europa?

Secondo la teoria economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione.
Una “soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli squilibri esterni).
È il famoso “più Europa”.
Un esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare?
Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia).
Dopo cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania.
L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”.
Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri.


Deutschland über alles.

Le soluzioni “a valle” dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche quelle “a monte”.
La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista.
Bisognerebbe prevedere simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di inflazione.
Il coordinamento del quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo.
Ma il peso dei paesi “virtuosi” lo impedirà.
Perché l’euro è l’esito di due processi storici.
Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco.
Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda  dei paesi emergenti.
Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24).
I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita.
I dati dicono il contrario.
La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso,  sostiene la crescita tedesca.
E la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando.
Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania?
Lo dice il manuale di Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?).
Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania).


La svalutazione rende ciechi.

È un film già visto.
Ricordate lo Sme “credibile”?
Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero fissi.
In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?).
La Germania viaggiava su una media del 2%. 
La competitività italiana diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991 l’Italia dovette svalutare.
Svalutazione!
Provate a dire questa parola a un intellettuale di sinistra.
Arrossirà di sdegnato pudore virginale.
Non è colpa sua.
Da decenni lo bombardano con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo.
Non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità.
Ma cosa accadde dopo il 1992?
L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94.
Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil).
La bolletta energetica migliorò (da -1.1 a -1.0 punti).
Dopo uno shock iniziale, l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001.
La lezioncina sui danni della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa.


Irreversibile?

Ma tutto questo Rossanda non lo sa.
Sa che la svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste, quindi...
Quindi cosa?
Veramente Rossanda è così ingenua da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e politica (e come tale reversibile)?
Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera.
Ma porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992.
Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del default.
Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”?
Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo.
È già successo e succederà.
“I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”.
Altra idiozia.
Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero.
È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero.
Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito.
Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%.
Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani.


Non faccia la sinistra ciò che fa la destra.

Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta.
Sta alla sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata.
Non sto parlando delle prossime elezioni.
Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime.
E gli schizzi di sangue stonano meno sul grembiule rosso.
Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra.
Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo dall’euro.
Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo.
“Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen.
Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta.
Si espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi.
Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra.
Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di sinistra.
Questo spiega tanta unanimità di vedute.


[FINE]



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