Augusto Graziani
Un instancabile combattente
Il manifesto, 21
settembre 1989.
Ripubblicato ne “I
conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana”, Bollati Boringhieri,
Torino 1997, pp. 241-245.
Nicholas Kaldor. Un instancabile
combattente
A poco più di due anni dalla morte,
avvenuta a Cambridge nel 1986, Ferdinando Targetti
effettua una ricostruzione completa dell’opera di Nicholas Kaldor, che della
scuola post-keynesiana fu il rappresentante più attivo e più direttamente
impegnato nei problemi di politica economica.
Kaldor è un caso esemplare di
intellettuale che, pur vedendo con lucidità i difetti delle economie di
mercato, non perse mai la fede nella possibilità di elaborare una politica
economica capace di correggerli.
Esaurita la fase giovanile, dedicata
a lavori teorici, la sua vita fu dedicata a elaborare progetti infiniti di
ingegneria economica, alla ricerca della ricetta magica, capace di contrastare
il dominio degli interessi organizzati, di temperare la prepotenza dei colossi
finanziari, di frenare le prevaricazioni dei paesi avanzati sui paesi in via di
sviluppo.
Lucidità di giudizio, prontezza di
autocritica, lena instancabile pervadono la sua vita e la sua opera.
Nato a Budapest nel 1908 da una
famiglia della borghesia ebraica, Kaldor, insieme a Polanyi,
von Neumann, Balogh, Scitovsky, fa parte del gruppo di intellettuali ungheresi
destinati ad acquisire prestigio nel mondo anglosassone.
La posizione del padre, avvocato, gli
permise di studiare prima in patria, poi a Berlino, infine alla London School
of Economics.
Pur essendosi formato in ambiente
accademico, sono i problemi di rilevanza immediata ad attrarre la sua
attenzione, e le sue prime esperienze professionali hanno luogo nel
giornalismo.
La sua vita accademica fu divisa fra
la London School e l’Università di Cambridge, con un intervallo a Ginevra,
presso la Commissione economica europea.
Alla London School of Economics
Kaldor entrò nel 1927 come studente e vi rimase come docente dal 1932 al 1974.
A quell’epoca, l’influsso socialista
di Laski e di Beveridge era ancora dominante; ma non appena, nel 1928, Lionel
Robbins, che era stato alla London School come studente, vi rientra come
professore, l’orientamento degli studi economici subisce un brusco cambiamento.
Robbins intendeva rinverdire gli
studi di economia in Gran Bretagna, innestando
sull’insegnamento di Marshall la dottrina delle grandi scuole
neoclassiche.
Venne così accolto Hicks, allora
dedito a studiare Pareto, Walras e la scuola dell’equilibrio economico
generale.
Dall’estero vennero chiamati
conferenzieri di sicura fede neoclassica, come Haberler, Bresciani-Turroni,
Ohlin e, nel 1931, F.A. von Hayek, al quale fu assegnata una cattedra.
Nel 1932, Robbins stesso pubblicò, a
mo’ di manifesto, il saggio su Natura e
rilevanza della scienza economica.
Nei medesimi anni, a Cambridge, sotto
l’influsso di Keynes, si svolgeva una rivoluzione di segno opposto.
A differenza di Robbins, ciò che
attraeva Keynes erano i temi dello squilibrio, della gestione monetaria
dell’economia, del potere diseguale dei salariati e dei capitalisti.
Fra Londra e Cambridge il conflitto
esplose allorché, nel 1930, Keynes pubblicò il Trattato sulla moneta e, nel 1931,
Hayek pubblicò Prezzi e produzione.
Kaldor non poteva non risentire della
presenza eminente di Hayek.
Ma le forze convergenti lo portavano
in direzione opposta.
I suoi interessi lo spingevano ad
analizzare più lo squilibrio e il conflitto che non i miracoli prodotti dal
mercato nel conciliare le preferenze individuali (è del 1939 lo scritto su Speculazione e stabilità economica, che perfino Frank Hahn ha definito
“un saggio splendido”); ancora, l’insegnamento ricevuto da Allyn Young l’aveva iniziato ai segreti dello sviluppo economico e dell’aumento della
produttività; infine la presenza di Beveridge (nel 1943-44 Kaldor collaborerà
alla stesura del famoso rapporto su Piena occupazione in una società libera)
e l’anima socialista della London School of Economics non potevano che renderlo
scettico di fronte al tentativo di Hayek di attribuire all’equilibrio di
concorrenza di un’economia non monetaria la prerogativa forma unica ed
esclusiva di equilibrio pieno.
Negli anni della guerra, la London
School riparò a Cambridge e il contatto diretto tra Kaldor e Keynes produsse i
suoi frutti.
Alla fine degli anni quaranta, Kaldor
rientrava a Cambridge come fellow del King’s College.
Da allora, la sua identità di
economista keynesiano e le sue qualità di fondatore, insieme a Joan Robinson e
a Richard Kahn, della scuola post-keynesiana sono rimaste indiscusse.
Lo sforzo di Kaldor è stato sempre
quello di comprendere i meccanismi della realtà, mai quello di costruire
modelli di compiuto rigore formale.
La teoria post-keynesiana della
distribuzione del reddito, modestamente presentata come estensione
dell’insegnamento di Keynes alle economie di piena occupazione, gli servì per
mettere in risalto il potere dei capitalisti nel determinare l’assetto
dell’economia.
Allorché, nel 1957, presentò un
modello preciso di crescita economica,
diede da pensare la sua analisi della produzione, che fondeva gli effetti del
progresso tecnico e dell’accumulazione del capitale.
Si parlò di semplificazione di comodo
e se ne mise in dubbio la legittimità analitica.
Oggi, le trasmigrazioni
dell’industria verso i paesi in via di sviluppo hanno reso palese che ogni
investimento impone un’acquisizione di tecnologie e di professionalità.
Il caso della Gran Bretagna, afflitta
da una debolezza cronica nella bilancia dei pagamenti, spinse Kaldor ad
applicare alle economie aperte il suo modello di distribuzione del reddito,
formulando il famoso “circolo virtuoso” delle esportazioni: un aumento delle
esportazioni, ottenuto anche mediante una svalutazione, consente di espandere
la produzione; grazie ai rendimenti crescenti, i costi unitari cadono, e la
maggiore competitività consente di guadagnare ulteriore terreno nei mercati
esteri, creando un avanzo nella bilancia commerciale.
Poiché un avanzo esterno equivale a
un investimento e gli investimenti determinano i profitti, gli imprenditori
ricevono ulteriori stimoli, e il processo si riproduce.
Di qui, il favore con cui Kaldor
considerò sempre la gestione dei cambi esteri come strumento per il controllo
della produzione e dell’occupazione.
Kaldor fu anche il primo a
riconoscere che, nel caso dei paesi in via di sviluppo, nessuna politica dei
cambi potrebbe far nascere dal nulla una struttura industriale inesistente: la
protezione doganale, sia pure temporanea, del mercato diventa allora
necessaria.
Kaldor non ritenne mai che le
autorità monetarie possano controllare la quantità di moneta, strumento
principe della scuola monetarista: non possono espanderla, perché maggiore
quantità di moneta implica maggiore credito bancario e le imprese potrebbero
rifiutare di indebitarsi; non possono ridurla, perché distruzione di moneta
implica un rimborso effettuato da un’impresa a corto di liquidità.
Kaldor dedicò invece grande attenzione
al controllo dei tassi di interesse.
Anche qui l’ispirazione keynesiana è
evidente.
Del pensiero di Keynes in merito
all’interesse, Kaldor riprende l’aspetto più rilevante sotto l’aspetto sociale.
Auspica quindi una politica di tassi
di interesse moderati, non tanto allo scopo di stimolare le decisioni di
investimento, quanto per evitare la formazione di una classe di rentiers
improduttivi.
Il problema acquista rilievo ancora
maggiore in relazione al debito pubblico, perché i tassi elevati aggravano
l’indebitamento dello Stato.
L’ingegnosità di Kaldor si rivela nei
meccanismi escogitati per regolare e stabilizzare il sistema dei pagamenti
internazionali.
L’obiettivo, per Kaldor, deve essere
quello di evitare crisi di liquidità ai danni dei paesi in via di sviluppo.
Il piano consiste nell’affidare la
gestione dei pagamenti a una banca mondiale, che regoli la liquidità
internazionale in base alla produzione di prodotti primari.
Nei periodi di sovrapproduzione e
caduta dei prezzi, i paesi in via di sviluppo non si troverebbero più a corto
di liquidità, e il loro sviluppo non ne sarebbe pregiudicato.
La monografia di Targetti, prima
allievo e poi amico di Kaldor, è basata non soltanto sulle opere stampate ma
anche su carte personali, sulla corrispondenza, su colloqui diretti che hanno
permesso di riscontrare episodi che i soli documenti lascerebbero nel dubbio.
Quella di Targetti non è, né vuole
essere, una testimonianza neutrale, né egli tenta di formulare un giudizio
definitivo sull’opera di Kaldor nel quadro del pensiero economico di questo
secolo.
Oggi, in pieno, riflusso teorico, la
moda dominante condannerebbe il suo contributo come approssimativo e lacunoso.
Ma, come ha riconosciuto Frank Hahn,
Kaldor possedeva una visione del processo capitalistico che altri non pensano nemmeno
di doversi procurare.
Dovrà passare del tempo, e il clima
politico dovrà maturare profondamente, prima che alle sue idee venga fatta
piena giustizia.
Targetti, fornendo un resoconto
minuzioso della sua opera, rende l’omaggio più appropriato che sia possibile
tributare a un instancabile combattente.
[FINE]
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