domenica 9 febbraio 2014

Vita tragica di un ministro polrugarese




Isaac Deutscher  

Eretici e rinnegati  

1950. Longanesi, Milano 1970, pp. 37-54. Traduzione di Elsa Pelitti.   




Vita tragica di un ministro polrugarese



 
La Polrugaria non è necessariamente definita da precise coordinate geografiche.
Basta sapere che si trova da qualche parte nelle zone orientali dell’Europa.
E nemmeno è il caso di andare a cercare nel Chi è? internazionale il nome di Vincent Adriano, altro funzionario polrugarese, perché si tratta di un personaggio per metà reale e per metà immaginario.
I suoi tratti fisici e morali si potrebbero tuttavia ritrovare in alcune delle persone che attualmente governano i paesi satelliti della Russia e nessuna delle sue esperienze raccontate qui di seguito è stata inventata.
Non è nemmeno necessario precisare quale carica Vincent Adriano occupa nel governo del suo paese.
Potrebbe essere il presidente oppure il presidente del Consiglio o il vice presidente del Consiglio, o anche soltanto il ministro degli Interni o quello della Pubblica Istruzione.
In ogni caso però è membro del Politburo e noto come un pilastro della democrazia popolare in Polrugaria.
Le sua azioni e le sue parole vengono riportate dalla stampa di tutto il mondo.

Si suole riferirsi a individui dello stampo di Adriano definendoli “servi di Stalin”, “fantocci della Russia” e “capi della quinta colonna del Cominform”.
Ma se etichette del genere bastassero a descriverlo esaurientemente, non varrebbe davvero la pena di dedicargli un’attenzione particolare.
Senza dubbio, com’è inevitabile, Adriano è fino a un certo punto un fantoccio e un agente di una potenza straniera, ma è molto più di questo.

Vincent Adriano è sotto i cinquanta o li ha passati da poco.
La sua età è importante perché gli anni della sua formazione sono stati quelli della febbre rivoluzionaria seguita alla prima guerra mondiale.
Uscito da una famiglia della media borghesia che prima del 1914 aveva goduto di una certa prosperità e creduto nella stabilità delle dinastie, dei governi, della moneta e dei principi morali, tra i quindici e i vent’anni Vincent aveva visto crollare tre vasti imperi senza che nessuno versasse una lacrima.
In seguito vide i governi costituirsi e cadere in successione così rapida che era quasi impossibile tener dietro al conto.
In media, ne passavano da dodici a venti in un anno e l’avvento di ogni nuovo governo era salutato come l’inizio di una nuova era; ogni nuovo primo ministro era applaudito come il salvatore.
Dopo qualche settimana, o qualche giorno, lo si fischiava e lo si cacciava a pedate come un inetto, un ribaldo, un imbecille.

La moneta della Polrugaria, come quella di tutti i paesi limitrofi, perdette valore da un mese all’altro, poi da un giorno all’altro, infine da un’ora all’altra.
Il padre di Adriano vendette la casa all’inizio di un anno: alla fine di quello stesso anno col denaro ricavato avrebbe potuto comprarsi sì e no due scatole di fiammiferi.
Nessuna combinazione politica, nessuna istituzione, nessuna tradizione, nessuna ideologia tradizionale sembrava in grado di sopravvivere.
Anche i principi morali si liquefacevano.
La realtà pareva perdere la chiarezza dei contorni e questo si rifletteva nella nuova arte, poesia, pittura, scultura.

Il giovane Vincent si convinse facilmente di assistere al disfacimento di un decrepito ordine sociale, di vedere con i propri occhi il capitalismo che soccombeva all’attacco dell’insanabile follia che portava in sé.
Si entusiasmò per gli incandescenti manifesti dell’Internazionale comunista firmati da Lenin e da Trotzky e ben presto si iscrisse al partito comunista, che a quel tempo in Polrugaria era ferocemente perseguitato (le pene per gli iscritti potevano variare da cinque anni di carcere alla condanna a morte).
Chi aderiva al partito in quei giorni, non lo faceva certo per motivi di lucro personale o di carriera.

Adriano rinunciò senza esitare alla prospettiva di una carriera sicura in campo accademico per diventare rivoluzionario di professione, spinto a ciò da un ideale fratellanza per gli oppressi e da qualcosa che egli chiamava “convinzione scientifica”.
Lo studio dei classici del marxismo lo aveva condotto alla ferma convinzione che la proprietà privata dei mezzi di produzione e il concetto dello Stato nazionale erano ormai sorpassati; di più, erano destinati ad essere soppiantati da una società socialista internazionale che avrebbe potuto scaturire soltanto da una dittatura del proletariato.

Dittatura del proletariato non significava governo dittatoriale di un’oligarchia e men che meno di un capo singolo, ma predominio politico e sociale delle classi lavoratrici, “la dittatura di una maggioranza preponderante su un pugno di sfruttatori, di proprietari terrieri semifeudali e di grandi capitalisti”.
Lungi dal rinnegare la democrazia, la dittatura del proletariato, pensava Adriano, ne rappresentava anzi la sublimazione.
Avrebbe riempito con la sostanza dell’uguaglianza sociale il guscio vuoto dell’uguaglianza formale, il massimo che la democrazia borghese potesse offrire.
Con questa visione del futuro, Adriano si gettò a tuffo nel movimento rivoluzionario clandestino.

Non è necessario riferire in tutti i suoi particolari la carriera rivoluzionaria di Adriano che seguì, fino a un certo punto, lo schema tipico.
Vi furono gli anni della pericolosa attività clandestina, quando Vincent visse come un uomo braccato, senza nome né domicilio e organizzò scioperi, scrisse articoli per i giornali clandestini, viaggiò per il paese intero, studiandone le condizioni sociali e creando organizzazioni.
Poi vennero gli anni del carcere e della tortura, della solitudine impaziente.
La visione del futuro che lo aveva ispirato si inquinò un poco, per necessità, con gli espedienti, i ripieghi tattici, i sotterfugi organizzativi: la routine quotidiana dell’uomo politico, anche di quello che è al servizio di una rivoluzione.
Ma nonostante tutto ciò, il suo entusiasmo e il suo idealismo non avevano ancora cominciato a evaporare.

Persino in carcere si diede da fare per mantenere vivi nei compagni convinzioni, speranze, orgoglio dei propri sacrifici.
Una volta organizzò uno sciopero della fame tra centinaia di detenuti politici, sciopero che durò sei o sette settimane e fu uno dei più lunghi che mai si fossero fatti.
Il direttore della prigione sapeva che per spezzarlo doveva prima spezzare Vincent Adriano.
Le guardie carcerarie trascinarono per i piedi il detenuto, esausto ed emaciato, giù per la scala di ferro, dalla sua cella al sesto piano, facendogli sbattere la testa su ognuno degli scalini taglienti e rugginosi, finché egli non svenne.
Vincent Adriano divenne un eroe leggendario.

Riuscì finalmente a evadere dal carcere con alcuni compagni e a rifugiarsi in Russia.
E siccome trascorse poi parecchi anni a Mosca, ora si dice e si scrive spesso di lui che appartiene al “nucleo intransigente di agenti istruiti a Mosca che controllano la Polrugaria”.
Parole che, se gli capitano sotto gli occhi, fanno salire alle sue labbra un triste, ironico sorriso.

Quando arrivò a Mosca, nel 1931 o ’32, Adriano non era uno dei capi del partito polruganese, e non gli importava gran che del proprio posto nella scala gerarchica.
Lo preoccupava molto di più la confusione sorta nella sua mente da quando aveva potuto confrontare il quadro che s’era fatto della società futura con la vita nell’Unione Sovietica sotto Stalin.
Non osava ammettere nemmeno con se stesso la portata della propria delusione e anche questa fu un’esperienza tipica degli uomini come lui, così che non è nemmeno necessario attardarsi a discuterne.
E tipici furono pure i luoghi comuni, le mezze verità, la volontà di illudersi con i quali cercò di blandire la propria conturbata coscienza comunista.
La secolare povertà della Russia, il suo isolamento nel cuore di un mondo capitalista, i pericoli che la minacciavano dall’esterno, l’analfabetismo delle masse, la loro pigrizia e la mancanza di senso civico... questo e altro ancora ricordava a se stesso per spiegarsi come mai la vita in Russia fosse così dolorosamente vuota di ideali.

“Oh”, sospirava, “se la rivoluzione avesse invece trionfato per la prima volta in un paese più civile e progredito! Ma la storia deve essere accettata così com’è e la Russia merita se non altro il rispetto e la gratitudine dovuti ai pionieri, quali che siano i loro errori e le loro manchevolezze.”
E faceva di tutto per non vedere le realtà della vita che lo circondavano.

Poi vennero le grandi purghe del 1936-38.
Molti capi del partito polruganese furono fucilati come spie, sabotatori e agenti della polizia politica del loro paese e prima di morire furono costretti (come vi furono costretti i loro familiari, mogli, fratelli e sorelle) a testimoniare l’uno contro l’altro.
Fra gli uomini così disonorati e giustiziati ve n’era uno che più di ogni altro aveva destato l’entusiasmo di Adriano e sostenuto il suo coraggio, che lo aveva iniziato ai più difficili problemi della teoria marxista, che Adriano aveva sempre considerato amico sicuro e guida spirituale.

Anche a Vincent Adriano furono mosse le consuete accuse, ma per un capriccio della fortuna, o forse del capo della GPU, Yezhov, o di uno dei suoi scagnozzi, non lo portarono davanti al plotone di esecuzione.
Lo deportarono invece in un campo di lavoro forzato, in un punto imprecisato del circolo subpolare, dove si trovò in numerosa compagnia (seguaci di Trotzky, di Zinoviev e di Bucharin, kulaki, nazionalisti ucraini, banditi e ladri, ex generali, ex professori universitari e organizzatori del partito) e fu impiegato come gli altri ad abbattere alberi e a trasportarli da una foresta a un lontano deposito.
Il gelo, la fame e le malattie decimavano i deportati, ma il loro posto veniva sempre riempito dai nuovi arrivati.

Adriano vedeva i suoi compagni ridursi dapprima a lottare come animali per sopravvivere, poi perdere la volontà di lottare e di sopravvivere e infine crollare e morire come mosche.
Ma chissà come, la sua vitalità non cedette.
Vincent continuò a maneggiare con le dita congelate la sua ascia, a mettersi ogni tre o quattro giorni, con altri compagni di prigionia, fra le stanghe di un carro carico di tronchi per trascinarlo attraverso la pianura coperta di neve e ghiaccio, fino al deposito distante parecchi chilometri.
Erano queste le ore peggiori.
Adriano non sapeva rassegnarsi al fatto di essere usato come una bestia da soma, nel paese dei suoi sogni, lui, il fiero rivoluzionario.

Ancora oggi, quando pensa a quei giorni, sente una fitta dolorosa al cuore e per questo legge con un sorriso triste i riferimenti al suo misterioso “addestramento nelle attività da quinta colonna” che avrebbe ricevuto in Russia.

In un angolo del cervello cercava di dipanare il groviglio di circostanze che lo avevano portato a quella degradazione e di notte ne discuteva con gli altri deportati.
Il problema era vasto e confuso oltre ogni limite di comprensione.
Alcuni deportati comunisti sostenevano che Stalin aveva compiuto una controrivoluzione, distruggendo tutto ciò che era stato fatto dalla rivoluzione di Lenin.

Altri sostenevano invece che le basi della rivoluzione (proprietà pubblica ed economia collettivistica) erano rimaste intatte, ma che invece di una libera società socialista su quelle basi si era costruito un mostruoso sistema di socialismo combinato con la schiavitù.
Le prospettive erano quindi assai più gravi di quanto essi avrebbero mai potuto immaginare, ma sussisteva forse ancora qualche speranza, se non per la loro generazione, per quella successiva.
Lo stalinismo, era vero, stava gettando enorme discredito sull’ideale socialista, ma forse si sarebbe potuto ancora salvare dal naufragio quel che del socialismo era rimasto.
Adriano non sapeva che pensare, ma propendeva piuttosto per questa seconda tesi.

Poi gli eventi presero a un tratto una piega tanto fantastica che nemmeno l’immaginazione più fertile avrebbe potuto concepirla.
Un giorno, verso la fine del 1941 (gli eserciti di Hitler erano appena stati ricacciati dalle porte della capitale russa), Adriano fu liberato dal campo di concentramento e condotto con i massimi onori a Mosca.
Il Cremlino aveva bisogno urgente di comunisti dell’Europa centrale e orientale in grado di trasmettere messaggi radio ai paesi occupati dai nazisti e di stabilire contatti con i movimenti clandestini alle spalle delle linee nemiche e a questo scopo erano particolarmente ricercati i polrugaresi, data l’importanza strategica della loro patria.
Ma non uno dei capi del partito comunista polrugarese era rimasto vivo.
I pochi esponenti meno importanti, sparsi nei vari campi di concentramento, furono ricondotti d’urgenza a Mosca, riabilitati e messi al lavoro.
La riabilitazione avvenne sotto forma di scuse da parte della polizia di sicurezza, la quale dichiarò che la deportazione del compagno Tal dei Tali era stata un deplorevole errore.

Parecchie volte la settimana Adriano, messo davanti a un microfono, gridò all’etere la propria fiducia nella Terra del Socialismo, esaltò Stalin e la sua opera, esortò i polrugaresi a sollevarsi dietro le linee nemiche e a prepararsi per la liberazione.

Adriano era profondamente cosciente dell’assurdità di quella situazione.
Era diventato il propagandista dei suoi carcerieri e torturatori, di color che avevano denigrato e distrutto i capi del comunismo polrugarese, compreso l‘uomo che era stato per lui amico e guida.
In cuor suo, non poteva dimenticare né perdonare le sofferenze e le vergogne delle purghe.
E con una parte del suo cervello non poteva distaccarsi dagli infelici che erano rimasti lassù, al nord.

Ma non poteva rifiutare l’incarico.
Un rifiuto sarebbe stato giudicato come sabotaggio dello sforzo bellico e punito con la condanna a morte o alla deportazione.
Tuttavia non fu soltanto per salvare la pelle che Adriano si prestò a fare quel lavoro.
Bramava contribuire alla disfatta del nazismo e per questo, pensava, era giusto dare la mano “al demonio e a sua nonna”... e a Stalin.

Ma il desiderio di sconfiggere il nazismo non era tutto.
Nonostante le sue dolorose esperienze, Adriano era tuttora attaccato alle proprie vecchie idee e speranze.
Era ancora comunista.
Anticipava con la mente il fermento rivoluzionario che dopo la guerra sarebbe dilagato in tutto il mondo capitalista.
Quanto più grave era la delusione inflittagli dall’Unione Sovietica, tanto più intensa era la sua speranza che la vittoria del comunismo in altri paesi avrebbe rinnovato il suo spirito e lo avrebbe liberato dall’infida tutela del Cremlino.

Gli stessi motivi lo indussero ad accettare una proposta che Stalin gli fece personalmente dopo qualche mese, quella di organizzare un comitato di liberazione della Polrugaria e divenirne il segretario.
Era certo che prima o poi l’armata rossa sarebbe entrata in Polrugaria.
Il comitato di liberazione sarebbe entrato nella sua scia per diventare il nucleo di un governo provvisorio.

Adriano era sovraccarico di lavoro.
Quale incaricato dei contatti con la resistenza polrugarese, impartiva istruzioni agli emissari che penetravano fra le linee nemiche o venivano paracadutati alle loro spalle; riceveva i rapporti dai guerriglieri sparsi nei paesi occupati e li trasmetteva ai superiori; provvedeva perché i capi dei partiti non comunisti e persino anticomunisti potessero espatriare clandestinamente e raggiungere Mosca.
Riuscì persino a convincerne alcuni a entrare nel comitato di liberazione.

Il seguito lo conoscono tutti.
Il comitato di liberazione divenne il governo provvisorio, poi il governo effettivo della Polrugaria.
I partiti non comunisti vennero estromessi l’uno dopo l’altro e poi soppressi.
La Polrugaria divenne una democrazia popolare.
Adriano è uno dei pilastri del nuovo governo e niente finora lascia prevedere una sua probabile eclissi.
Non ha potuto uscire dalla trappola, ma non v’è rimasto schiacciato.

Esistono due Vincent Adriano ora.
Uno pare non avere mai avuto un attimo di dubbio o di incertezza.
La sua ortodossia stalinista non ha mai destato sospetti, la sua devozione al partito non ha mai vacillato, le sue doti di capo e di statista sono ritenute insuperabili.
L’altro Adriano è torturato quasi senza soste dalla propria coscienza comunista, sempre in preda a scrupoli e paure, a illusioni e delusioni.
Il primo è eloquente ed espansivo, il secondo rimugina in silenzio e non si confida nemmeno con i più vecchi amici.
Il primo agisce, il secondo non smette mai di riflettere.

Dal 1945 al 1947 i due Adriano vissero quasi in pace l’uno con l’altro.
In quegli anni il partito polrugarese attuò alcune delle riforme radicali che aveva in programma da decenni.
Attaccò il problema del latifondo.
Divise tra i contadini affamati di terre gli immensi possedimenti semifeudali.
Diede il via a piani grandiosi per lo sviluppo industriale di un paese gravemente sottosviluppato.
Promosse una vasta legislazione sociale progressista e un’ambiziosa riforma scolastica.
Quei provvedimenti riempirono di gioia e di orgoglio il cuore di Adriano.
Proprio per quello, in fin dei conti, egli aveva languito nelle prigioni del suo paese.

In quegli anni poi, anche Mosca, per ragioni sue, andava dicendo ai polrugaresi che non dovevano uniformarsi troppo al modello sovietico, che dovevano cercare e seguire una loro “via nazionale al socialismo”.
Per Adriano questo significava che alla Polrugaria sarebbero stati risparmiati le purghe e i campi di concentramento, l’abbietto servilismo e le paure.
Comunismo, intenso sviluppo industriale e scolastico, una certa autentica libertà di discussione e di critica... pareva proprio il raggiungimento dell’ideale.

Lo turbava solo lo scarso entusiasmo per la rivoluzione mostrato dalla popolazione polrugarese.
Certo, tutti ne vedevano i vantaggi e nel complesso li approvavano.
Ma si risentivano per il fatto che la rivoluzione venisse compiuta dall’alto da persone che essi non avevano scelto, che spesso non si degnavano nemmeno di consultarli e che avevano tutta l’aria di essere strumenti di una potenza straniera.

Adriano sapeva bene quanto la presenza dell’armata rossa avesse facilitato la rivoluzione.
Senza il suo appoggio, le forze della controrivoluzione, con l’aiuto delle democrazie borghesi occidentali, si sarebbero riaffermate attraverso una sanguinosa guerra civile, com’era accaduto dopo la prima guerra mondiale.
Ma rifletteva che una rivoluzione che non abbia dietro a sé un genuino entusiasmo popolare è già sconfitta a mezzo.
Tende a non fidarsi del popolo che dovrebbe servire.
E la mancanza di fiducia potrebbe generare paure e terrore com’era accaduto in Russia.

Tuttavia, pur rendendosi conto di quei pericoli, Adriano sperava che attraverso un’onesta e attiva dedizione a favore delle masse, il nuovo governo polruganese sarebbe riuscito a conquistarsi la loro fiducia e a destare il loro entusiasmo.
Allora il nuovo ordine sociale avrebbe potuto reggersi coi propri mezzi. Prima o poi l’esercito sovietico se ne sarebbe tornato in Russia.
Doveva esservi un’altra via al socialismo, pensava, forse non esattamente polrugarese, ma nemmeno russa o staliniana.

Frattanto, Vincent Adriano prese alcuni provvedimenti che furono compresi solo dagli iniziati.
Promosse in Polrugaria una vasta azione intesa a glorificare la memoria del suo vecchio amico giustiziato in Russia, benché Mosca non ne avesse riabilitato ufficialmente il nome.
La biografia del capo defunto è tuttora esposta nelle librerie, accanto alla biografia ufficiale di Stalin.
E siccome nel libro non si parla delle circostanze che accompagnarono la morte del martire, soltanto i più vecchi comunisti conoscono le implicazioni recondite di questo omaggio.

Adriano ha anche istituito un ente speciale per l’assistenza alle famiglie di tutti i comunisti polrugaresi giustiziati a Mosca come “spie e traditori”.
L’ente si chiama Fondazione dei Veterani e dei Martiri della Rivoluzione.
Questi provvedimenti danno a Vincent Adriano una certa soddisfazione morale, egli sa benissimo che dal punto di vista politico la loro importanza è irrilevante.

Ma quando i due campi opposti, oriente e occidente, cominciarono a schierare le proprie forze e quando i capi delle due parti, ognuno alla propria maniera, misero tutti di fronte a un categorico “chi non è con me è contro di me” le prospettive di Adriano si fecero oscure.
Avesse potuto fare a suo modo, Vincent avrebbe risposto con un cordiale: “All’inferno voi e loro!”.
L’uomo che era stato un reietto nella Russia di Stalin, una bestia da soma in un campo di concentramento, l’uomo cui ogni copia della Pravda con i suoi dissennati inni a Stalin dà un acuto senso di nausea, ha visto rabbrividendo la sua “via nazionale al socialismo” diventare sempre di più la via staliniana.
Ma non vede come potrebbe distaccarsene.

E’ certo che l’occidente non abbia da offrire all’Europa centrale e orientale altro che la controrivoluzione.
L’occidente può pure esaltare la libertà e la dignità dell’uomo (e chi più di Adriano ha avuto modo di esplorare tragicamente, fino al fondo, il significato di quegli ideali?), ma gli occhi di Vincent sono fissi al baratro ch’egli vede tra le promesse occidentali e il loro adempimento.
Crede fermamente che nella sua parte di mondo ogni tentativo di ribellione aggraverà anziché alleggerire l’oppressione, peggiorerà anziché lenire la degradazione dell’uomo.

E’ disposto a concedere che quanti parlano in favore dell’occidente siano sinceri nelle loro promesse, ma aggiunge di avere conservato la vecchia abitudine marxista di non tenere conto dei desideri e delle promesse degli statisti, per tenere l’occhio sulle realtà sociali a politiche.
Chi in Polrigaria, si domanda, sarebbe pronto ad arruolarsi sotto le bandiere dell’occidente?
Sì, ci sarebbe forse anche qualche onesto in buona fede, ma questi sarebbero i minchioni.

I più energici e attivi alleati dell’occidente in Polrugaria sono coloro che avevano qualcosa in gioco nel vecchio ordine sociale, i privilegiati della dittatura d’anteguerra, i vecchi soldateska, i grandi proprietari terrieri espropriati e i loro simili.
Se dovesse prevalere l’occidente, costoro sarebbero a capo del nuovo governo e, in nome della libertà e della dignità dell’uomo, scatenerebbero un terrore bianco del quale non si è mai visto l’uguale.
Adriano ha già sperimentato anche il loro terrore.
Ma a quel tempo la vecchia classe dirigente era convinta che quel regime sarebbe durato in eterno e questa fiducia la tratteneva dallo scatenare fino alla follia quel terrore.
Ora, se tornasse al potere, sarebbe fuori di sé per la paura e il desiderio di vendetta.
La vera scelta, secondo Adriano, non è fra la tirannia e la libertà, ma fra la tirannia stalinista, riscattata in parte dal progresso sociale ed economico, e una tirannia reazionaria che non sarebbe riscatta da niente.

A volte Adriano sarebbe felice di poter rinunciare al suo alto incarico e sparire nell’oscurità.
Ma il mondo è diventato troppo piccolo.
Un uomo come lui non può cercare rifugio in occidente.
Secondo lui, sarebbe un vero e proprio tradimento, non verso la Russia, ma verso l’ideale comunista ch’egli ha sempre sognato.
Le dimissioni e il ritiro a vita privata sarebbero un gesto di opposizione e di sfida, e questo il regime che lui stesso ha concorso a stabilire non potrebbe permetterlo.

Che cosa hanno ancora in comune il giovane che un tempo si gettò nella mischia con ardore da Prometeo per vincere la follia della storia quale si manifestava nel sistema capitalistico, e il ministro di mezza età che intuisce come le forze irrazionali della storia abbiano sopraffatto anche la rivoluzione, trascinando pure lui, incidentalmente, in una trappola?
Adriano fa quanto può per conservare il rispetto di se stesso, per convincersi che come statista, come alto funzionario e come capo egli è sempre lo stesso uomo che sposò la causa degli oppressi e che per essa soffrì nelle patrie galere.
Ma talvolta, mentre riceve in forma solenne una delegazione di contadini o saluta un pittoresco corteo, una nota fitta di dolore gli trapassa il cuore e il ministro sente a un tratto di essere soltanto un patetico rottame, la bestia da soma del circolo subpolare.


[FINE]



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