Knut Wicksell
Lectures on Political Economy Volume I General Theory
1911.
Augustus M. Kelley Publishers, Fairfield - New Jersey
1977, pp.3-4.
Pubblicazione
disponibile qui.
Economisti indegni
[
Traduzione di Giorgio D.M. ]
Quando diciamo che qualcosa è
benefico o dannoso dal punto di vista economico, ci basiamo su di un postulato
etico o filosofico, cioè su di una determinata concezione del diritto degli
uomini a vivere e a godere dei beni della vita.
O assumiamo che tutti gli uomini
abbiano gli stessi diritti e riconosciamo ogni individuo membro della società
come uguale, o altrimenti, per una ragione o per l’altra, assumiamo l’esistenza
di una differenza tra i singoli individui e in questo caso le ragioni di questa
assunzione devono essere chiaramente espresse, se vogliamo che il nostro punto
di vista sia fondato scientificamente.
Come sappiamo, le opinioni intorno a
questa questione sono cambiate grandemente nel corso della storia.
Nei tempi più antichi solo le persone
libere e successivamente solo le classi possidenti sono state considerate come
effettivi membri della società; gli schiavi e le persone prive di proprietà
venivano considerate come oggi sono considerati gli animali domestici - come
semplici mezzi e non come fini. [...]
Negli scritti degli economisti svedesi del
diciottesimo secolo [...] troviamo spesso affermazioni che mostrano come la
concezione, così repellente per la nostra mentalità, del lavoratore come
semplice bestia da soma fosse, non più di due secoli fa, profondamente diffusa
e radicata.
Davvero si può considerare in qualche
misura come un merito della scienza economica l’aver prodotto da questo punto
di vista una rivoluzione nell’opinione pubblica.
Non appena cominciamo a considerare
seriamente i fenomeni economici nel loro
complesso e a ricercare le condizioni per il benessere della collettività,
la considerazione degli interessi del proletariato deve emergere; e da questa
alla proclamazione di diritti uguali
per tutti il passo è breve.
Il concetto stesso di economia
politica, perciò, o l’esistenza di una scienza che porti questo nome, implica a
rigore un programma rivoluzionario.
Non deve far meraviglia che il
concetto sia vago, perché questo accade spesso per un programma rivoluzionario.
Naturalmente, molti problemi pratici
e teorici rimangono insoluti prima che l’obiettivo dello sviluppo economico e
sociale si possa dire chiaramente compreso.
Qualcosa si può dire ancora in favore
del vecchio punto di vista; ma, in ogni caso, va detto con chiarezza e senza
tergiversazione.
Se per esempio, noi consideriamo le
classi lavoratrici come esseri inferiori, o se, senza andare così lontano le
consideriamo non ancora mature per avere integralmente una quota del prodotto
della società, allora noi dovremmo esprimerci chiaramente e basare il nostro
ulteriore ragionamento su questa opinione.
Vi è soltanto una cosa che è indegna
della scienza: nascondere o fuorviare la verità.
Vale a dire, in questo caso:
-
presentare
la situazione come se le classi lavoratrici avessero già ricevuto tutto ciò che
ragionevolmente potrebbero desiderare o attendere, oppure
-
far
assegnamento su infondate, ottimistiche convinzioni che gli sviluppi economici
in se stessi tendano alla maggior soddisfazione di tutti.
[FINE]
Commento
Non è difficile riconoscere una
radicata ideologia reazionaria o una psicopatologia antisociale (o entrambe)
nelle parole di un economista che considera le classi lavoratrici come
inferiori e predica, per loro, la durezza del vivere.
E’ invece difficile riconoscere la
menzogna, l’inganno, la verità nascosta, la pura falsità nel discorso economico.
Gli economisti indegni si guardano
bene dal manifestare la loro ideologia reazionaria, dall’esplicitare le loro
preferenze di classe, dall’affermare che per loro i lavoratori sono bestie da
soma, o anche solo bestie, untermenschen o esseri inferiori.
Wicksell indirettamente ci offre un
criterio per riconoscere gli economisti indegni: a fructibus eorum cognoscetis eos,
dai loro frutti li riconoscerete.
Sono indegni gli economisti che invitano
a “far assegnamento su infondate, ottimistiche convinzioni che gli sviluppi
economici in se stessi tendano alla maggior soddisfazione di tutti”.
Non sono forse questi gli
economisti che parlano di “luci in fondo al tunnel”, che lodano i conti in ordine, che condannano
“i debiti lasciati ai nascituri” o “alle future generazioni”, quelli che
predicano l’austerità espansiva, che auspicano tagli sempre più estesi ai
salari, alle pensioni e alla spesa sociale e la riduzione complessiva della
spesa pubblica, quelli che premono perché si approvino le riforme del diritto
del lavoro, i jobs act, con l’azzeramento dei diritti dei lavoratori, la
precarietà eretta a sistema, l’insicurezza per tutti?
Non sono forse questi gli
economisti che auspicano queste
riforme strutturali dicendo che solo dal mercato può venire lo sviluppo
economico e che questo sviluppo economico beneficerà egualmente tutti?
Sono indegni gli economisti che
presentano la situazione come se le classi lavoratrici avessero “già ricevuto
tutto ciò che ragionevolmente potrebbero desiderare o attendere”.
Oggi molti economisti sono discesi a
un livello di indegnità ancora più profondo rispetto a quello stigmatizzato da
Wicksell e presentano la situazione come se le classi lavoratrici avessero già
ricevuto più di quanto
ragionevolmente avrebbero dovuto attendersi o desiderare.
La retorica dell’”abbiamo vissuto al
di sopra dei nostri mezzi” è a un livello di indegnità che Wicksell
probabilmente non avrebbe potuto nemmeno immaginare ma è coerente con
un’ideologia reazionaria (e/o una psicopatologia antisociale) che vuole rimettere
indietro le lancette della storia e distruggere tutte le conquiste che le
classi lavoratrici hanno realizzato, in Italia e in Europa, nel dopoguerra.
P.S.
Ho trovato la citazione di una parte
del testo di Wicksell nel bel libro di Joan Robinson Economic Philosophy (tradotto in italiano con il titolo Ideologie e scienza economica).
Come esercizio per l’applicazione del
criterio di Wicksell propongo il confronto tra due articoli sul tema della
monetizzazione del debito pubblico: uno di Adair Turner del 18 marzo, tradotto
nel blog, Il tabù della monetizzazione del debito pubblico, e uno de lavoce.info del 16 maggio, Le conseguenze di un ripudio. Del debito.
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