domenica 31 agosto 2014

La teoria delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione




Hyman P. Minsky

The Debt Deflation Theory of Great Depressions

20 aprile 1994, Testo preparato per l’Encyclopedia of Business Cycles.
Pubblicazione disponibile qui.



La teoria delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



La teoria delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione ha sia aspetti empirici che aspetti teorici.
L’aspetto empirico immediatamente osservabile è che con il passare del tempo le economie capitaliste mostrano condizioni di inflazione e di debito e deflazione [debt deflations] che possono andare fuori controllo. [1]
In questi processi le reazioni del sistema economico a un movimento dell’economia amplificano il movimento – l’inflazione alimenta l’inflazione, e la deflazione e i debiti alimentano la deflazione e i debiti.
Questi episodi storici costituiscono l’evidenza a sostegno dell’idea che l’economia capitalista non sempre si conformi ai precetti stabiliti da Smith e Walras secondo i quali le economie di mercato sono sistemi che si muovono verso l’equilibrio e che lo mantengono.
In alcune delle crisi verificatesi nella storia, gli interventi del governo diretti a contenere l’inflazione e il debito e la deflazione sono stati errati [inept].
L’errore [ineptness] è la conseguenza che ci si deve aspettare se si impiega come base per l’intervento una teoria economica che non contempla il comportamento non tendente all’equilibrio dei mercati [non-equilibrating behavior of markets].

The Debt Deflation Theory of Great Depressions [2] di Irving Fisher è la classica descrizione di un processo generato dal debito e dalla deflazione, e Maniacs, Panics and Crashes [3] di Charles Kindleberger descrive gli stadi attraverso i quali avvengono processi tendenti verso il disequilibrio che si rinforzano da sé [self sustaining disequilibratng processes]. Financial Crises [4] di Martin Wolfson esamina diverse teorie del ciclo economico basate sulle crisi finanziarie e offre una raccolta di dati sull’emergere di relazioni finanziarie che conducono all’instabilità finanziaria.

La teoria di Fisher basata sul debito e sulla deflazione descriveva le interazioni che si verificano in una condizione di debito e deflazione, non era una teoria di come le azioni dei banchieri, degli uomini d’affari e delle famiglie come possessori e gestori di portafogli avviano il processo.
Fisher enfatizzava il sovra-indebitamento come la condizione iniziale per una depressione causata dal debito e dalla deflazione, senza spiegare come questa condizione iniziale si generi, quale sia una misura di un indebitamento eccessivo e dove sia l’eccesso di debito.

Albert G. Hart, in The Twentieth Century Fund’s, Debts and Recovery, raccoglie l’evidenza del fatto che il sovra-indebitamento agì come un ostacolo a una completa ripresa dalle profondità della grande recessione degli anni 1929-1933. [5]

La teoria di Fisher era espressa in termini pre-keynesiani. Essa assumeva con disinvoltura che la teoria quantitativa della moneta fosse valida. Hyman Minsky ha riformulato la teoria di Fisher, basata sul debito e la deflazione, in un moderno linguaggio post-keynesiano. [6]

L’interpretazione di Minsky non dipende dall’assunzione di uno stretto legame, meccanico, tra l’offerta di moneta e i salari e i prezzi: la moneta è più direttamente legata ai prezzi delle attività che ai prezzi della produzione o dei salari nominali.
Nella sua interpretazione basata sulla instabilità finanziaria della teoria keynesiana, Minsky ha sviluppato una teoria che integra strettamente la struttura delle passività [liabilities structures] con il comportamento del sistema [system behavior].
Questo ha colmato la lacuna nella interpretazione di Fisher delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione: la teoria delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione di Fisher è un caso particolare della ipotesi della instabilità finanziaria [financial instability hypothesis] di Keynes e Minsky.

Come teoria economica, l’ipotesi della instabilità finanziaria è una interpretazione della General Theory of Employment, Interest and Money di Keynes [7,8].
La teoria dell’ipotesi della instabilità finanziaria parte dalla caratterizzazione dell’economia come una economia capitalista con costosi beni capitali [capital assets] e un complesso e sofisticato sistema finanziario.
Seguendo Keynes, il problema economico è identificato come lo “sviluppo del capitale dell’economia” [capital development of the economy] anziché come “l’allocazione di date risorse tra impieghi alternativi” [allocation of given resources among alternative employments] di Knight.
L’attenzione è posta su di una economia capitalista che accumula capitale muovendosi nel tempo reale [an accumulating capitalist economy that moves through real calender time].

Lo sviluppo del capitale di una economia capitalista è accompagnato dagli scambi di denaro nel presente in cambio di denaro nel futuro [exchanges of present money for future money] e dall’ampia accettazione delle passività correnti [contingent liabilities], specialmente da parte del sistema finanziario.
Il denaro nel presente paga per la produzione di beni di investimento, mentre il denaro nel futuro è costituito dai “profitti” che si accumuleranno quando i beni capitali saranno impiegati nella produzione: le passività correnti delle istituzioni finanziarie conducono a una accettazione degli strumenti rappresentanti passività maggiore di quella che si avrebbe altrimenti.
In una economia capitalista le passività, che sono impegni a pagare denaro a date specificate o al verificarsi di determinate condizioni, finanziano il controllo sullo stock di capitale.
Per ogni unità economica le passività presenti nel suo bilancio determinano una serie temporale di impegni di pagamento assunti a date determinate o al verificarsi di determinate condizioni, anche se i beni capitali generano una serie temporale di flussi di cassa in entrata solo congetturati.

Perciò in una economia capitalista il passato, il presente e il futuro sono collegati non solo dalle caratteristiche dei suoi beni capitali e della sua forza lavoro ma anche dalle relazioni finanziarie.
Le relazioni finanziarie principali collegano la creazione e il possesso dei beni capitali con la struttura delle relazioni finanziarie e con i cambiamenti in questa struttura.
La complessità istituzionale si manifesta nei diversi strati di intermediazione tra gli effettivi possessori della ricchezza della società e le unità che controllano e gestiscono la ricchezza della società.

Le aspettative riguardanti i profitti che le imprese possono conseguire determinano sia il flusso dei contratti di finanziamento [financing contracts] delle imprese che il prezzo di mercato dei contratti di finanziamento esistenti.
La realizzazione dei profitti da parte delle imprese determina se gli impegni assunti nei contratti di finanziamento sono soddisfatti oppure no, e se le attività finanziarie danno i risultati indicati nei documenti esaminati nel corso delle negoziazioni [tra le imprese e le istituzioni finanziarie] oppure no.

Nel mondo moderno l’analisi delle relazioni finanziarie e delle loro implicazioni per il comportamento del sistema non può essere ristretta alla struttura delle passività delle imprese e ai flussi di cassa che esse comportano.
Le famiglie possono indebitarsi per acquistare automobili e case, con le carte di credito e possono acquistare attività finanziarie. I governi hanno ampi debiti, sia a breve che a lunga scadenza [floating and funded debts].
A causa dell’internazionalizzazione della finanza la bilancia commerciale di una economia è collegata con la necessità di validare gli impegni di pagamento.

Una caratteristica dominante delle moderne economie capitaliste è la struttura delle passività che può essere validata o non validata dai risultati correnti e dai risultati futuri attesi dell’economia.

Una crescente complessità della struttura finanziaria e un maggiore coinvolgimento dei governi nella veste di rifinanziatori sia delle istituzioni finanziarie che delle normali imprese, entrambe caratteristiche marcate del mondo moderno, possono rendere il comportamento attuale del sistema diverso da quello tipico dei periodi passati.
In particolare, la molto maggiore partecipazione dei governi nazionali nell’assicurare che la finanza non degeneri come nel periodo degli anni 1929-1933 significa che la vulnerabilità verso il basso dei flussi di profitto aggregato è stata molto ridotta.
Tuttavia, gli stessi interventi possono bene indurre un maggior grado di distorsione verso l’alto, cioè inflazionistica, all’economia.

Nonostante la maggiore complessità delle attuali relazioni finanziarie rispetto al passato, la determinante principale del comportamento del sistema rimane il livello dei profitti.
La teoria delle grandi depressioni come effetto del debito e della deflazione così come la più generale ipotesi della instabilità finanziaria incorporano la visione di Kalecki e Levy dei profitti [9], secondo la quale la struttura della domanda aggregata determina i profitti.
Nel modello più semplice, con un comportamento di consumo estremamente semplificato da parte dei percettori di profitti e salari, in ogni periodo i profitti aggregati sono pari agli investimenti aggregati.
In un modello più complicato, ma ancora molto astratto, i profitti aggregati sono pari alla somma degli investimenti aggregati e del disavanzo pubblico.
Dato che le aspettative di profitti dipendono degli investimenti che saranno realizzati nel futuro e i profitti realizzati dipendono dagli investimenti, che le passività siano validate oppure no dipende dagli investimenti.
Gli investimenti hanno luogo oggi perché gli uomini d’affari e i loro banchieri si aspettano che investimenti avranno luogo nel futuro.

L’ipotesi della instabilità finanziaria perciò è una teoria dell’impatto del debito sul comportamento del sistema e del modo in cui il debito è validato.
In contrasto con la teoria quantitativa della moneta ortodossa, l’ipotesi della instabilità finanziaria prende sul serio l’attività bancaria come una attività che mira al conseguimento di profitti.
Le banche ricercano il profitto finanziando le attività e i banchieri, come tutti gli imprenditori in una economia capitalista, sono consapevoli dal fatto che l’innovazione assicura profitti.
Così i banchieri, utilizzando questo termine in modo generale per indicare tutti gli intermediari finanziari, sia che siano mediatori o rivenditori [broker or dealers], sono mercanti del debito che si sforzano di introdurre delle innovazioni nelle attività che acquistano e nelle passività che vendono.
Questa caratteristica innovativa dell’attività bancaria e finanziaria invalida l’assunzione fondamentale della teoria quantitativa della moneta ortodossa che esista qualcosa come una immutabile “moneta” la cui velocità di circolazione sia così sufficientemente vicina all’essere costante che cambiamenti dell’offerta di questa moneta siano legati con una relazione lineare proporzionale a un ben definito livello dei prezzi.

Possono essere individuate tre relazioni tra il reddito e il debito [income-debt relations] per le unità economiche, che sono indicate come coperta, speculativa, e finanza Ponzi.
Le unità con una posizione finanziaria coperta [hedge financing units] sono quelle unità che possono soddisfare tutte le loro obbligazioni contrattuali di pagamento con i loro flussi di cassa: maggiore è il peso del finanziamento con capitale proprio [equity financing] nella struttura finanziaria di una unità e maggiore è la probabilità che sia una unità con una posizione finanziaria coperta.
Le unità con una posizione finanziaria speculativa [speculative financing units] sono quelle unità che possono soddisfare i loro impegni di pagamento sulle loro passività nel conto economico [on income account] anche se non possono rimborsare il capitale preso in prestito con i loro flussi di cassa in entrata.
Queste unità devono rinnovare [roll over] le loro passività: devono emettere nuovo debito per poter rimborsare il debito giunto a scadenza. I governi con debiti a breve termine, le società per azioni con obbligazioni a breve scadenza, e le banche sono tipicamente unità con una posizione finanziaria speculativa.
Per le unità con una posizione finanziaria Ponzi i flussi di cassa derivanti dall’attività non sono sufficienti né per il pagamento del capitale preso in prestito né per il pagamento degli interessi sul debito esistente.
Queste unità possono o vendere le attività che possiedono o indebitarsi. Indebitarsi per pagare gli interessi o vendere le attività per pagare gli interessi e anche i dividendi alle azioni comuni diminuisce il capitale proprio di una unità anche se incrementa le passività e l’impegno già deciso dei futuri redditi.
Una unità con una posizione finanziaria Ponzi riduce il margine di sicurezza che offre ai detentori dei suoi debiti.

Si può mostrare che se la posizione finanziaria coperta domina allora l’economia può ben essere un sistema che tende verso l’equilibrio e che lo conserva e che maggiore è il peso delle posizioni finanziarie speculative e Ponzi e maggiore è la probabilità che l’economia sia un sistema che amplifica le deviazioni [dall’equilibrio].

Il primo teorema della ipotesi della instabilità finanziaria è che l’economia possiede regimi finanziari nei quali è stabile e regimi finanziari nei quali è instabile
Il secondo teorema della ipotesi della instabilità finanziaria è che nel corso dei periodi di prolungata prosperità l’economia passa dalle relazioni finanziarie che la rendono un sistema stabile alle relazioni finanziarie che la rendono un sistema instabile: il debito e la deflazione e il sovra-indebitamento sono le naturali conseguenze del modo in cui le disposizioni nei confronti del rischio sono influenzate da una serie di successi in un mondo nel quale le proprietà evolutive del sistema rendono non chiaro se il mondo continui a comportarsi ora come si comportava nel passato.

L’ipotesi della instabilità finanziaria è un modello di una economia capitalista che non si basa su shock esogeni per la generazione di cicli economici di severità variabili: l’ipotesi afferma che i cicli economici della storia sono il risultato congiunto delle dinamiche interne delle economie capitaliste e del sistema di interventi e regolazioni che sono progettati per mantenere l’attività economica all’interno di confini ragionevoli.
Come tale, l’ipotesi della instabilità finanziaria incorpora la teoria delle grandi deflazioni come effetto del debito e della deflazione come una parte del processo interattivo che caratterizza una moderna economia capitalista.


__________


[1]           L’esperienza dell’economia statunitense negli anni 1988-1992 può essere interpretata come una condizione di debito e deflazione stroncata sul nascere nella quale il salvataggio dei depositanti delle Savings and Loan e delle banche dapprima da parte dei Deposit Insurance Funds [fondi per l’assicurazione dei depositi] e poi da parte del Federal Treasury [Tesoro Federale] prevenirono il trasferimento delle perdite delle istituzioni finanziarie sui portafogli da esse posseduti ai detentori delle passività di queste istituzioni.
[2]           Fisher, Irving. 1933. “The Debt Deflation Theory of Great Depressions.” Econometrica 1:337-57
[3]           Kindleberger, Charles. 1978. Manias, Panics and Crashes New Tork Basic Books
[4]           Wolfson, Martin H. 1986. Financial Crises. Armonk New York, M.E. Scarpe Inc.
[5]           The Twentieth Century Fund, Debts and Recovery 1937. Albert G. Hart è indicato come “ [sic]
[6]           Hyman P. Minsky. 1982. “Debt Deflation Processes in Today’s Institutional Environment”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, Number 143 (December 1982)
[7]           Keynes, John Maynard. 1936. The General Theory of Employment, Interest and Money. New York: Harcourt Brace.
[8]           L’ipotesi della instabilità finanziaria si basa anche sulla visione della moneta e della finanza come credito esposta da Joseph Schumpeter in The Theory of Economic Development, specialmente nel capitolo 3.
Schumpeter, Joseph A, 1934 The Theory of Economic Development. Cambridge, Mass.Harvard University Press
[9]           Kalecki, Michal. 1965. Theory of Economic Dynamics. London: Allen and Unwin
Levy S. Jay and David A. Profits and the Future of American Society. New York, Harper and Row.
Minsky, Hyman P. 1986. Op. cit.


[FINE]


venerdì 22 agosto 2014

L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco




Heiner Flassbeck

Avis de tempête sur l'Union monétaire européenne

Le Monde, 5 marzo 2010.
Pubblicazione disponibile qui



L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco  

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Nella marea di prese di posizione e di commenti pubblicati dalla stampa europea in queste ultime settimane sulla Grecia, ben pochi sono stati quelli che si sono occupati degli stretti legami tra la zona euro e la crisi.
La maggior parte dei commentatori trattano dei problemi interni della Grecia e degli altri paesi meridionali dell'Unione monetaria europea come se essi fossero totalmente indipendenti dal commercio internazionale, sia tra i paesi dell’Unione che con il resto del mondo.
Pochi hanno fatto notare gli enormi squilibri commerciali interni all’Unione monetaria europea e il fatto che essi generano una situazione fiscale insostenibile.
Nessuno ha tentato una valutazione equilibrata dei problemi interni all'Unione né ha identificato le loro cause.
Non c'è alcun dubbio che i deficit di bilancio siano un grosso problema.
Tuttavia è un fatto che sono gli squilibri internazionali quelli che potrebbero condurre ad una dissoluzione dell’Unione monetaria europea, se non si prendono rapidamente misure correttive draconiane.

Eppure, nessuna forte azione politica sarà possibile fintanto che queste evidenze resteranno dei tabù perché gli stati politicamente forti dell'Unione monetaria europea non vogliono mettere in discussione la teoria tradizionale sulla flessibilità del mercato del lavoro.

La Grecia non è che la punta dell'iceberg.
Nel 2007, il disavanzo delle sue partite correnti aveva già raggiunto quasi il 15% del suo PIL, per poi diminuire lievemente con il calo delle importazioni dovuto alla recessione.

Cos'è andato male?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Grecia hanno ristagnato mentre la sua domanda interna è aumentata al rispettabile tasso annuale del 2,3%, secondo le stime della Commissione Europea.
I redditi da lavoro reali annuali per addetto sono aumentati dell’1,9%, un po' meno della produttività.
Il costo unitario del lavoro, la più importante misura della competitività in una unione monetaria, è aumentato del 2,8% all'anno, raggiungendo un livello pari a 130 nel 2010 (base 100 nel 2000).
Nello stesso tempo, la maggiore economia dell'Unione monetaria europea, la Germania, accumulava un enorme avanzo delle sue partite correnti, arrivando all'8% del suo PIL nel 2007.

Cos'è andato bene?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Germania sono esplose mentre la sua domanda interna stagnava, con un insignificante tasso di crescita dello 0,2% all'anno.
Un crescita quasi nulla dei redditi da lavoro - solo lo 0,4% all'anno, molto al di sotto degli incrementi di produttività - spiega il rallentamento della domanda interna, la compressione salariale non ha condotto alla prevista creazione di posti di lavoro.
In questi ultimi dieci anni il costo unitario del lavoro in Germania non è cresciuto che solo marginalmente, raggiungendo un livello pari a 105 nel 2010.

Questo significa semplicemente che un bene o un servizio che era prodotto allo stesso costo da tutti i membri dell’Unione monetaria europea nel 2000, e che poteva dunque essere venduto allo stesso prezzo, oggi costa il 25% in più se è prodotto in Grecia di quanto costa se è prodotto in Germania.
La differenza con la Germania è dello stesso ordine di grandezza per la Spagna, il Portogallo e l'Italia.
Ed è del 13% anche per la Francia, sebbene la Francia sia l'unico paese nel quale il costo unitario del lavoro è cresciuto seguendo rigorosamente l'obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2% stabilito dalla Banca Centrale Europea.

Come il presidente e il capo degli economisti della Banca Centrale Europea, alcuni funzionari ritengono che questa differenza non sia significativa perché la Germania soffriva di uno svantaggio assoluto prima della creazione dell’Unione monetaria europea, a causa del costo della riunificazione tedesca.
La logica tuttavia li smentisce.
Se il risultato della compressione dei salari da parte della Germania fosse stato solo l’eliminazione di uno svantaggio assoluto, essa non si ritroverebbe ora con un vantaggio assoluto.
Eppure, è proprio questo quello che sta avvenendo alla Germania.
La Germania è l'unico grande paese europeo che ha potuto stabilizzare la sua quota di mercato mondiale negli ultimi dieci anni, quando tutti gli altri, compresa la Francia, l'hanno vista diminuire fortemente.

Questo conduce all'ultima linea della difesa tedesca, secondo la quale il dumping salariale tedesco sarebbe stato giustificato da una elevata disoccupazione, e continuerebbe ad esserlo.
Altro errore: la disoccupazione in Germania è diminuita ma resta al livello prevalente in Francia e in altri Paesi perché la debolezza della domanda interna compensa il dinamismo della domanda estera.

Inoltre, i paesi che desiderano esercitare una pressione verso il basso sui salari per ragioni interne non dovrebbero entrare in una unione monetaria se non vogliono o non possono convincere gli altri paesi membri a fare altrettanto.

Ancora peggio, la Germania è entrata in una Unione monetaria che ha l’obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2%, non di un tasso di inflazione massimo del 2%.
Di fatto, l'inflazione e il costo unitario del lavoro, che sono fortemente correlati, hanno avuto un andamento in Germania molto al di sotto di questa norma del 2%.
Questo ha costituito, da parte del governo tedesco, una chiara violazione dell'obiettivo comune riguardante l’inflazione fissato dall’Unione monetaria europea, ed ha esercitato in questo modo un’enorme pressione sulle contrattazioni salariali che si sono concluse con un aumento del costo della mano d'opera vicino allo zero.

I leader europei hanno torto nel credere che ci sarà un'uscita dalla crisi greca, spagnola, portoghese o una qualsiasi altra soluzione nazionale all'interno dell’Unione monetaria europea.
Se la Germania continua a stringere la cinghia, e tutto porta a credere che lo farà, questi paesi e la Francia saranno costretti ad abbassare i loro salari in termini assoluti.
Questo provocherà la deflazione e la depressione in tutta l’Europa, che non potrà rinascere dalle sue ceneri fintanto che la sopravvalutazione delle valute nazionali non potrà essere corretta con una svalutazione.

La crisi europea non è una tragedia greca.

Se l'Europa non può accordarsi per una azione comune, prendendo delle decisioni chiare sull’evoluzione dei salari su di un orizzonte temporale di molti anni, o persino decenni, con lo scopo di riequilibrare il suo commercio, allora tutti i paesi dell'Europa del Sud, inclusa la Francia, devono considerare l’uscita dall'Unione monetaria.

L’economia di nessun paese al mondo può sopravvivere se tutte le sue imprese hanno uno svantaggio assoluto nei confronti dei principali concorrenti internazionali.



[FINE]


mercoledì 20 agosto 2014

Mito e realtà del Partito comunista italiano




Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo

Il Pci nel trasformismo     

Capitolo V del saggio “I comunisti italiani e il riformismo: Un confronto con le socialdemocrazie europee”, Giulio Einaudi editore, Torino 1986, pp. 100-120.
Pubblicazione disponibile qui. 
Un ringraziamento a Sergio Cesaratto per aver consigliato questo interessantissimo libro.



Mito e realtà del Partito comunista italiano




Una strategia politica di lungo periodo non può essere compresa se viene isolata dalla descrizione dei comportamenti dell'avversario per cui essa è stata «ideata».
Un duello è possibile solo a partire da una qualche posizione di reciprocità dei duellanti i quali ... per duellare, devono in qualche modo riconoscere i ruoli rispettivi.
Anche lo scontro più feroce implica l'esistenza di un «gioco delle parti».
Ci sembra, in altre parole, che la caratterizzazione del modello trasformista non possa, ad un certo punto, non trapassare nell'analisi dei modi in cui il movimento operaio italiano è venuto collocandosi al suo interno; e che, di converso, qualsiasi tentativo di identificare i connotati più strutturali della politica comunista, o meglio gli aspetti salienti di quella che si è soliti chiamare la sua «tradizione», non possa aver luogo se non tenendo presenti alcune costanti nella storia delle classi dirigenti italiane.


1. Esclusione e iperidentità

A nostro avviso solo in riferimento alla strategia dell'esclusione - quale ha avuto la sua manifestazione più cospicua nel fascismo, in quanto tentativo di ricomprendere tutto il movimento operaio dentro un'organizzazione autoritaria di massa - diviene più comprensibile la coesistenza, nella elaborazione politica più matura di Palmiro Togliatti, di quei due elementi che il più geniale «critico» del marxismo in quanto dottrina del partito operaio di massa, George Sorel, aveva individuato già all'inizio del secolo come reciprocamente escludentesi:

1)       da un lato la propaganda del mito del socialismo, il cui ingresso nella storia fattuale viene sostenuto da Togliatti, con la costituzione dello stato sovietico;
2)       dall'altro il perseguimento coerente di una prospettiva definibile - ancora con il lessico di Sorel - come «il movimento operaio nella democrazia», ossia di una coerente autodefinizione come forza di rappresentanza e gestione di interessi operai e popolari, all'interno di un quadro liberaldemocratico, secondo una prospettiva aliena e incompatibile con ogni ipotesi di «nuova società» [1].


La contraddizione logica tra questi due elementi del comunismo italiano solo negli anni '70 giunge ad esplodere come contraddizione politica, allorché cessa di essere quello che è stata, paradossalmente, nel passato, ossia un fattore di forza del movimento.
Si potrebbe dire che a fronte della strategia dell'esclusione il mito svolge la funzione di provvedere sul piano internazionale una sorta di iperidentità che consente di rispondere ad una costante minaccia all'autonomia di una rappresentanza politica.
Il mito viene cosi a costituire una «risorsa» addizionale, suppletiva, per il compimento di un impegno redistributivo che è, nelle linee generali, quello della tradizione europea, ma che nella storia concreta delle lotte di classe nel nostro paese si è rivelato particolarmente arduo e contestato.

In definitiva, in questa peculiare finalizzazione del mito stanno le ragioni della forte capacità di conquista della tradizione socialista dimostrata dal comunismo italiano.
Proprio nelle regioni in cui il partito acquisirà dopo il 1945 più stabili basi di massa, là lo «stalinismo» potrà convivere con i contenuti e l'«arte di governo» del vecchio riformismo socialista.
E la stessa idea di rivoluzione, strettamente connessa all'esistenza del mito, se certo rappresenta per molti aspetti una rottura con l'«evangelismo» socialista, è vero anche che veicola ed esprime istanze tipicamente egualitarie.
L'accoglimento da parte delle vaste masse popolari del culto della personalità implica appunto una visione del capo dello stato sovietico come grande giustiziere, che ripristina il diritto in una società in cui l'ineguaglianza appare profondamente stratificata.

Pare innegabile, in altri termini, che proprio il caso italiano contribuisca a sottolineare l'esistenza di elementi di verità nella celebre tesi di Louis Han, secondo cui la presenza in Europa di quella forte tradizione socialista assente nel «nuovo mondo» sia da attribuire più che allo sviluppo capitalistico in quanto tale, alla esistenza di una secolare tradizione feudale.
L'ancien régime lascia dietro di sé un enorme groviglio di istanze egualitarie, assente in uno scenario fatto di born equal che sovraccarica il liberalismo europeo di quell'antagonismo sociale supplementare, da cui si sprigiona l'ideologia socialista [2].

È chiara la valenza apologetica di un'affermazione di questo tipo. Essa può portare a sostenere che un capitalismo pienamente sviluppato sia una società esente da contraddizioni.
A noi interessa invece solo uno spumo di riflessione critica sul ruolo dell'ideologia nello svolgimento della lotta politica nel nostro paese. Ossia, quel «prerequisito» supplementare di una forza sociale e politica tendenzialmente minoritaria, come è già stato sottolineato da chi ha ricondotto la forte ideologizzazione dell'azione sindacale negli anni '50 ad una particolare debolezza e fragilità contrattuale della classe operaia italiana sul terreno del mercato del lavoro [3].

Ma se da un lato il mito contribuisce all'assolvimento di quel ruolo integrativo di massa, particolarmente necessario per una linea di «movimento operaio nella democrazia» applicata in un universo politico trasformista, dall'altro esso impone anche un prezzo da pagare assai alto, nella misura in cui apre un'ipoteca costante sulla legittimità democratica di un movimento che, per i suoi contenuti concreti, è tuttavia permanentemente teso al consolidamento e alla estensione del quadro liberaldemocratico.
È qui che la strategia trasformista e quella comunista si avvitano in un circolo vizioso, giustificandosi e alimentandosi a vicenda, secondo quella logica paradossalmente cooperativa che sta dietro ad ogni duello.

Ne deriva, sul terreno della concreta iniziativa politica, una differenza sostanziale rispetto al quadro del movimento operaio europeo, quale risulta in Austria, Germania e Svezia.
Mentre il trade-off socialdemocratico tende, come abbiamo visto, a scambiare la moderazione nel conflitto sociale con incrementi diretti o indiretti di salario reale, quello comunista tende sempre a riproporre come contropartita adeguata un più ampio riconoscimento della propria legittimità.

La rapidità con cui nel triennio 1976-79 si determina il passaggio dal riformismo all'emergenza ha in definitiva qui la sua ragione di fondo.
Qui anche la differenza essenziale tra la politica di compromesso storico e l'esperienza di «grande coalizione» compiuta dai tre partiti socialdemocratici [4].

Il modo in cui il problema della identità, e conseguentemente quello della autolegittimazione, finisce per fare aggio su quello di un'autonoma proposizione programmatica è visibile se si volge l'attenzione a quelle che sono forse le due principali proposizioni politiche della «tradizione comunista [5].

In primo luogo l'autodefìnizione di partito di governo che, sia pure in una gradazione assai ampia di significati, tende essenzialmente a sottolineare la particolare vocazione politica di un partito, che pur dando in qualche modo per scontata la sua natura di partito di opposizione (fuori da una logica di alternanza) non vuole rinunciare ad un rapporto con la dimensione del governo proprio in quanto organizzatore della protesta sociale.
Entro questa prospettiva - «governare dall'opposizione» - il Pci, se per un verso riesce a dare un volto largamente positivo al suo ruolo di opposizione, ponendosi oltre i toni di una agitazione solo propagandistica, non giunge mai, nello stesso tempo, a realizzare quella dimensione politica programmatica di partito di alternativa.

Governare dall'opposizione; riuscire a «premere per il mutamento», anche stando all'opposizione, questo, in sostanza l'orizzonte storico della politica comunista, la quale anche quando giunge a proporre la sua partecipazione a grandi coalizioni, tende a prospettare questa sua nuova collocazione come un'estensione e un prolungamento quasi naturali di una preesistente fisionomia politica contrassegnata dal tema della responsabilità nazionale.
«Governare senza avere la responsabilità diretta del governo, essere l'eminenza grigia del governo borghese» [6], scriveva Gramsci nel 1921 proponendo una caratterizzazione polemica sia del riformismo che del massimalismo socialista in qualche modo tuttora efficace per disegnare il modo in cui tutto il movimento operaio italiano ha teso a introiettare la strategia dell'esclusione.
La disponibilità ad essere cooptati in maggioranze estremamente vaste, in nome di un interesse nazionale, si configura dunque come il momento di massima approssimazione ai problemi del governo che la tradizione del comunismo italiano riesce ad esprimere.
Entro questo quadro si chiarisce anche il senso della seconda proposizione-chiave nella definizione del rapporto tra Pci e governo: quella relativa alla necessità di sacrifici della classe operaia.

Il passaggio è di grande importanza perché dimostra come la strategia della esclusione condizioni internamente tutta la visione dello scambio politico propria del comunismo italiano - anche se, in realtà, il termine stesso di scambio è qui respinto, quasi in via di principio.
L'orizzonte entro cui si affrontano i problemi dell'economia è infatti quello dell'egemonia, quale si definisce attraverso una singolare finalizzazione di passaggi importanti della teoria gramsciana alla politica di unità, o solidarietà nazionale: «L'egemonia - scrive Gramsci - significa ricerca di compromessi e richiede anche che il gruppo dirigente faccia sacrifici di ordine economico corporativo».
Si potrebbe dire che la visione del socialismo come mito incarnato nell'Unione Sovietica impedisce al Pci di comprendere il reale significato di questo passo dei Quaderni [7].

Gramsci sta qui ancora interloquendo - come quasi sempre avviene nelle formulazioni più importanti della sua teoria politica - con il dibattito sul «socialismo in un solo paese» e l'eredità profonda che esso ha lasciato in tutto il movimento comunista.
Il suo punto di riferimento polemico è una visione puramente amministrativa dell'esercizio del potere in Unione Sovietica.
Di contro ad una linea politica che punta ad identificare la realizzazione del socialismo con la modificazione violenta di una determinata stratificazione di interessi economici e di gruppi sociali, Gramsci richiama in continuazione, sulla base di una concezione sempre più intimamente consensualistica del potere, il ruolo decisivo che svolge la soggettività di massa nel compimento dei grandi mutamenti sociali.
La sua critica allo stalinismo sta nella individuazione delle radici della violenza nel tentativo di andare, di contro, verso una rapida uniformazione della struttura degli interessi.
Trasferita nella prospettiva politica di unità nazionale questa teoria dell'egemonia finisce, paradossalmente, per legittimare tutta una posizione politica tendente a interpretare la partecipazione al governo, non tanto come alternativa e rottura con il modello trasformista, quanto piuttosto come giustificazione teorica di una sua molecolare modificazione dall'interno, e quindi anche come accettazione di alcune sue compatibilità di base.


2. Togliatti e il centrosinistra

Nel contesto di questa rapidissima caratterizzazione concettuale di alcuni passaggi-chiave della «tradizione» comunista ci sembra di grande interesse ricordare come nel corso del dibattito sul centrosinistra Togliatti giungesse ad un chiarimento esplicito sul nesso esistente tra politica di unità nazionale, che anche allora si viene proponendo, e il modello trasformista delle classi dirigenti italiane, quale si definisce alle origini stesse dello stato liberaldemocratico.
Bisogna dire che in precedenza il tema del trasformismo è quasi bandito in via di principio dalla cultura politica del Pci.
La tesi di fondo è che la «rivoluzione antifascista» e la formazione di un sistema di partiti di massa rappresenta la condizione essenziale per una «avanzata democratica al socialismo».
Ma ancora alla metà degli anni '70, il dibattito sul rapporto di continuità tra fascismo e postfascismo, che non a caso si apre allora, viene sentito come esplicitamente critico di tutta una strategia politica e quindi tendenzialmente esorcizzato con formule di rito.

Le affermazioni avanzate da Togliatti per respingere la tesi presente all'inizio degli anni '6o nella sinistra, secondo cui il riformismo borghese fosse da considerare come la principale minaccia per il movimento operaio, meritano perciò una particolare attenzione.
E qui viene a proposito accennare alla opinione, da noi . stessi più volte espressa, che, tutto sommato, ci si possa trovare di fronte niente altro che a una operazione trasformistica tentata da una parte delle classi dirigenti e dal partito oggi dominante.
La cosa non si può negare.
La confessano apertamente coloro che parlano di «allargamento dell'area democratica» attraverso la rottura dei vincoli unitari oggi esistenti nel campo delle forze popolari.
Una operazione trasformistica è però sempre una operazione che presuppone un movimento, delle contraddizioni interne nel fronte delle classi dominanti, il riconoscimento di certe conquiste dei lavoratori e di concessioni non più dilazionabili in un quadro di conservazione del sistema nel suo complesso.
Tale fu l'operazione tentata dalla borghesia liberale nel primo decennio di questo secolo, sotto la guida di Giovanni Giolitti.
Ne ho parlato qui un'altra volta, e ripeto che l'errore, in quel periodo storico del movimento operaio e socialista italiano, fu di avere mancato di unità e soprattutto di non essere intervenuto in modo attivo, evitando le secche, sia dell'anarchismo massimalista sia dell'opportunismo riformista, con un proprio disegno politico, che gli consentisse di inserirsi nel complesso del movimento, di aprire e allargare le brecce del fronte borghese, strappandogli l'iniziativa politica e facendo fallire il suo piano conservatore.
Oggi bisogna evitare di ripetere quegli errori.
Se si ripetessero, il risultato potrebbe essere analogo a quello di allora, quando, dopo pochi anni, ci si trovò di fronte a una offensiva reazionaria, in cui già erano presenti i germi del fascismo.
Il movimento operaio e popolare deve accettare la sfida che gli viene lanciata, non può e non deve rifiutare di battersi sui nuovi terreni che vengono proposti... [8].

Dietro la definizione conclusiva del centrosinistra come nuovo terreno di lotta si trovano alcuni punti di analisi che conviene ricapitolare brevemente:
1)       il trasformismo come strategia volta alla negazione dell'autonomia del movimento operaio (e non la capacità integrativa del riformismo borghese) è la minaccia storica con cui il movimento operaio è chiamato a fare i conti;
2)       nello stesso tempo, l'operazione trasformista è segno che un problema di mutamento, o di aggiornamento, si è posto negli equilibri del blocco dominante;
3)       il movimento operaio raggiunge, con l'esperienza storica rappresentata dal Partito comunista, forza organizzativa e maturità politica sufficienti per tentare di inserirsi dentro la manovra trasformistica, cercando di divaricarla e facendo in modo che, anziché porzioni della sinistra, sia l'intero movimento organizzato ad inserirsi nel varco che si apre;
4)       la politica di unità nazionale, ossia una riedizione della coalizione del 1944-47, è il modo in cui il movimento operaio interpreta la manovra trasformista come occasione per uno sviluppo della propria influenza politica.

È condensata in questo tipo di analisi tutta la forza di penetrazione del togliattismo, sia sul piano dell'analisi che su quello dell'iniziativa politica, e insieme l'indicazione del suo limite storico.
In effetti, entro l'orizzonte di questa politica il problema del governo viene accolto e affrontato solo come risposta, se si vuole, gioco di rimessa, di una partita impostata dagli altri, le cui regole del gioco non si è in grado, e quasi non si pensa possibile modificare.
Più che di governare il problema vero del togliattismo è quello di portare il movimento operaio a «pesare di più», poiché, in effetti, questa visione di una «avanzata democratica al socialismo» implica, di necessità, il determinarsi di profondi mutamenti sul piano internazionale.

È tutto il sistema di equilibrio uscito dalla seconda guerra mondiale che deve conoscere una dislocazione in avanti, affinché si possano avere mutamenti di sostanza sul piano interno.
La realistica accettazione della divisione del mondo in sfere di influenze, in questo senso, esprime solo un aspetto della posizione di Togliatti.
Un regime duraturo di coesistenza pacifica e insieme uno sviluppo quantitativo e qualitativo del «campo socialista» sono infatti permanentemente sottolineati come le condizioni indispensabili per la riapertura di una partita politica in cui il Partito comunista possa giocare, a pieno titolo, tutte le sue cane.

La divisione tra Cina e Urss, proprio perché mette in discussione questi due presupposti, è, non a caso, vissuta da Togliatti come la fine del quadro di riferimento storico-strutturale in cui egli ha collocato la sua strategia politica [9].

Venendo meno la possibilità di individuare il socialismo come un sistema di forze e di istituzioni (stati, partiti, movimenti) concretamente, già ora presente nella storia, e attivamente operante, è la stessa idea di una manovra politica interna al trasformismo («aprire e allargare le brecce del fronte borghese») che viene ad essere pregiudicata.
Il Pci può pensare di fronteggiare con successo un nuovo giolittismo solo nella misura in cui si può avvantaggiare (a differenza del socialismo prefascista) di una identità politica garantita da un sistema di forze mondiali che marciano unite verso un medesimo obiettivo storico.
Ma questa prospettiva internazionale non può non respingere sullo sfondo come irrilevante il tema della alternativa con i corrispettivi problemi di una vera cultura di governo.


3. Il mercato come «rimosso»

Cerchiamo di ricapitolare brevemente, a questo punto, i momenti più qualificanti dell'ipotesi di ragionamento che abbiamo cercato di svolgere.

Siamo partiti dalla convinzione che l'esame del rapporto tra Pci e Socialdemocrazia europea non possa esaurirsi in un confronto di tradizioni politiche.
Per questa via si alimentano inevitabilmente posizioni riduttive che vanno da una rivendicazione patriottica della tradizione comunista all'idea opposta che l'assunzione di un programma del tipo Bad Godesberg sia condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per il rinnovamento della strategia politica del Pci [10].

L'analisi delle tradizioni politiche bisogna rimandi, anche se in modo allusivo, ad una considerazione tendenzialmente strutturale della diversità dei contesti nazionali in cui esse si inseriscono.
Dal raffronto che siamo venuti svolgendo lungo questa linea di ricerca è emerso come riformismo e trasformismo, dominanti rispettivamente in Europa e in Italia, si configurino come due modelli di integrazione sociale e politica non solo estremamente diversi, ma anche in qualche misura opposti, soprattutto se in riferimento alla posizione e al ruolo assunti dal movimento operaio nel sistema politico nazionale e nel governo dell'economia.

L'esistenza di un «caso Italia» alla «rovescia» rimanda allora ad un meccanismo storico di lungo periodo che abbiamo cercato di definire in tre punti:
a)       il trasformismo intanto può e deve essere assunto come costante della storia d'Italia in quanto, con variazioni dipendenti da diverse fasi di sviluppo dello stato italiano, e corrispettivamente di crescita del quadro liberaidemocratico europeo, si propone una politica di contenimento del movimento operaio;
b)       il trasformismo come violenza politica trova una sua costante proiezione in un tipo di governo dello sviluppo che tende ad una perenne marginalizzazione del salario nella distribuzione del reddito e che ha il suo referente di cultura in una lunga e incontrastata egemonia liberista;
c)       il modello politico dell'unità nazionale che si fissa nella tradizione comunista con il crollo del fascismo, pur consentendo grandi risultati sul terreno dell'insediamento, non giunge mai a superare i limiti di una visione puramente allusiva e metaforica dei problemi relativi alla costruzione di una alternativa di governo, e finisce quindi per configurarsi come controfaccia e introiezione delle «leggi» del trasformismo.

Sul terzo dei tre punti sopraelencati, ossia sul nesso tra trasformismo e movimento operaio, è importante aggiungere una considerazione conclusiva, sulla base di un'analisi necessariamente succinta della nozione comunista di democrazia.

Abbiamo già parlato del rapporto concettualmente contraddittorio (anche se politicamente funzionale) delle due componenti del togliattismo: il mito del socialismo realizzato in una parte del mondo, da un lato, e il «movimento operaio nella democrazia», dall'altro.
Bisogna aggiungere che di questi due termini si tenta una mediazione, sul piano teorico-strategico, con la nozione di democrazia progressiva.
La battaglia per lo sviluppo della democrazia traccia una progressione storica che si muove nella direzione del socialismo.
Al fondo di questa teoria rimane un'idea catastrofica (proveniente dalla cultura della Terza Internazionale) relativa alla incompatibilità di democrazia e capitalismo.
La democrazia è sentita ancora come «sovversiva».
Del resto non si può non aggiungere che posizioni in gran parte analoghe sono state riformulate ancora negli anni '70, magari con più eleganti e raffinate soluzioni teoriche, quando si è cercato di interpretare la crisi dello scorso decennio come il portato di una contraddizione tra esigenze dell'accumulazione capitalistica e quelle della sua legittimazione di massa [11].

Il dato costante di questo indirizzo di analisi consiste nel fatto che la nozione di democrazia perde ogni connessione logico-storica con quella di mercato, finendo per configurarsi come una formazione tutta politica di una «volontà generale», unica arbitra in definitiva di tutto lo sviluppo storico.
Una democrazia, dunque, senza capitalismo, ovvero il mercato come rimosso.

Questo aspetto del «discorso politico» del Pci rimanda a problemi teorici di ampia dimensione che non possiamo qui tentare di analizzare in modo soddisfacente.
Ci preme solo ricordare, invece, come di questa connessione tra mercato e democrazia si possono dare due opposte interpretazioni, la prima apologetica, la seconda critica.

Nel primo caso siamo all'interno, sostanzialmente, di quella che è stata chiamata la teoria economica della democrazia; il mercato, assunto nella interpretazione della teoria dell'utilità marginale, fornisce la base di lettura dell'intero sistema politico.
La logica dell'utilitarismo avanza, ancora una volta, la pretesa di fungere come spiegazione integrale della società.

Nel secondo caso la legge di esclusione del mercato è assunta come fondamento analitico del modo di produzione.
Nel caso specifico la libertà e l'eguaglianza sono riconosciute come «espressioni idealizzate dello scambio» [12].
I valori creati dal capitalismo in termini di libertà e di individualismo sono ricondotti alla matrice del valore di scambio.
Ossia, sul terreno dell'analisi politica, non c'è incremento di democrazia che possa portare oltre il capitalismo (se non in una logica ancora di tipo giacobino, che affida ad un potere politico sufficientemente forte il compito di sospendere, con la violenza, il funzionamento del mercato).

Per rimanere all'interno della tradizione del comunismo italiano bisogna dire che la consapevolezza di questo nesso tra democrazia e mercato è fortissima in Gramsci, a tal punto che, a suo parere, tutto l'insieme delle tesi della Terza Internazionale sul carattere rivoluzionario della crisi postbellica sono accettabili solo se si può dimostrare che sono in atto nel movimento operaio spinte organiche che lo stanno portando oltre ciò che esso è stato per un'intera fase storica, e non può non continuare ad essere in condizioni di normalità, ossia «una funzione della libera concorrenza capitalistica » [13].
Partito e sindacato sono, inevitabilmente, associazioni di carattere volontaristico e contrattuale, ossia pienamente partecipi della logica dominante del modo di produzione.

Del resto, quanto meno dopo il 1921, e per tutto il decennio successivo, il problema del mercato, sia sul piano interno che su quello internazionale, e dei modi con cui convivere con esso, è in qualche misura il tema dominante della cultura politica del bolscevismo, il punto a partire dal quale si determinano tutte le divisioni.
L'idea che un processo politico rivoluzionario e di mutamento possa procedere ignorando il mercato, ossia in uno scontro frontale con esso, si afferma, nella cultura comunista, solo a partire dalla «rivoluzione dall'alto».
Allora Gramsci forgerà la categoria di «parlamentarismo nero», sia per avanzare dubbi sulle «unificazioni politiche» del corpo sociale create dalla violenza staliniana, sia per ricordare al fascismo la sua natura di «parentesi», destinata inevitabilmente a rifluire dinanzi ad un ritorno a istituti politici liberaldemocratici, che hanno le loro inestinte radici proprio nel contrattualismo di una società di mercato.

In una direzione analoga si muove l'analisi che Fraenkel compie del sistema politico nazista: uno stato della «prerogativa» può essere ripristinato solo per quanto concerne i rapporti politici: non può invece chiamare in causa il regime dei contratti che si erge come normativa del mercato [14].
Profondamente divergente, come è noto, la posizione che analizza il fascismo come regime reazionario di massa.
Proprio infarti partendo da questa definizione del fascismo si vedrà nella rottura democratica costituita dal regime dei partiti di massa la premessa di un cambiamento di qualità dello stato liberaldemocratico.
Così mentre i comunisti italiani penseranno dopo il 1945 il loro quotidiano impegno rivendicativo di «movimento operaio nella democrazia» nella cornice concettuale della democrazia progressiva, o progrediente, i socialdemocratici europei parleranno di welfare state o di welfare capitalism.

In effetti la nozione di mercato svolge un ruolo centrale in quelle che possiamo considerare come le due contrapposte teorie dello stato sociale.
Essa è presente in T. H. Marshall come ancoraggio di uno sviluppo della cittadinanza in virtù del quale lo stato liberaldemocratico estende progressivamente il suo ambito di competenza senza tuttavia subire mutamenti sostanziali nella sua natura di base.
Il linguaggio del diritto (e corrispettivamente quello della protezione) s'impadronisce di un numero crescente di aspetti della vita sociale senza che per questo possa entrare in discussione il nesso organico tra sistema dei diritti ed economia di mercato [15].

In Polanyi troviamo una struttura interpretativa simmetricamente opposta.
Lo stato sociale è il moto di autodifesa e autoprotezione del corpo sociale dinanzi al dilagare di un'economia di mercato. Il mercato è sentito in questa cornice interpretativa come distruttivo del corpo sociale.
Ma proprio per questo esso rimane come punto di riferimento concettuale insopprimibile nel pensare quel doppio movimento (sviluppo del mercato e corrispettivamente dell'autodifesa sociale) che caratterizza intimamente tutte le forme storiche del capitalismo [16].

La mancata percezione di questo doppio movimento sul terreno delle tendenze storico-strutturali (e il conseguente confinamento del mercato nei limiti di un «riconoscimento» di ruolo, all'interno di proposizioni ideologico-politiche sostanzialmente estrinseche rispetto all'apparato concettuale di base) provoca sulla politica comunista due effetti importanti per comprendere come una determinata teoria della democrazia non si articoli in una visione autonoma del governo dello sviluppo.

In primo luogo un'idea di eguaglianza che non si fa carico del problema della efficienza.
Gli aspetti più vincenti dell'esperimento socialdemocratico si originano, in definitiva, come abbiamo già visto nel capitolo II, dalla capacità di mediare queste due istanze certo contraddittorie.
«La questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo dell'industria - ha scritto Arthur Okun - ha poco a che fare con la libertà, ma molto con l'efficienza» [17].
In altri termini anche là dove si abbandoni ogni aberrante tentativo di fornire una giustificazione etico-politica del mercato, rimane aperto il problema del suo contributo sul terreno dell'efficienza dello sviluppo produttivo.

In secondo luogo la dissociazione di democrazia e mercato induce nella politica del Pci una visione non contrattuale dei rapporti tra gruppi sociali, e quindi un'idea di interesse generale come qualcosa di necessariamente contraddittorio al conflitto.

Se nel primo caso il complesso delle politiche redistributive del Pci conosce una finalizzazione unilateralmente politica, nel secondo caso, soprattutto quando prevalga l'ottica del governo, esse vengono sottoposte a forme di singolare moderazione, con effetti spesso profondamente negativi dal punto di vista dei risultati delle politiche di riforma.
Si potrebbe dire, in altri termini, che la politica del Pci non sembra in grado di fornire la base di una conciliazione e di una convivenza del «partito di governo» col « partito di lotta», determinando, al contrario, insistenze unilaterali ora su questo ora su quel termine, con oscillazioni inevitabilmente brusche, e di tipo pendolare, nella posizione politica.
La rimozione del mercato, nella misura in cui depriva la cultura del Pci da ogni ancoraggio contrattualistica, implica anche, a nostro parere, una posizione di debolezza nei confronti del trasformismo.


4. «Parigi val bene una messa»

Abbiamo non a caso usato i termini con cui nella seconda metà degli anni '70 il Pci esprime il suo dilemma irrisolto.
Si tratta infatti di vedere rapidamente in che misura l'esperienza del 1976-78 apporti mutamenti di rilievo all'impianto politico-concettuale che abbiamo cercato di caratterizzare.

Ci sembra che a partire dalla seconda metà degli anni '70 questo nesso di problemi faccia definitivamente cortocircuito provocando un sostanziale vuoto di strategia politica.
I nuovi successi elettorali del Pci provengono infarti dall'adesione di nuovi strati sociali che esprimono una domanda esplicita di ricambio politico e di alternativa di governo, sostanzialmente diversa dal «sistema dei fini» dell'antica subcultura comunista.
Le «nuove contraddizioni» intraviste da Togliatti all'inizio degli anni '60, allorché egli ha abbandonato la scelta iniziale di un atteggiamento interlocutorio verso il centrosinistra, si sono ora pienamente sviluppate [18].
Non c'è stata solo una grande crescita quantitativa e qualitativa del movimento rivendicativo.
Si è delineato anche un mutamento profondo nello spettro culturale del paese, che ha fatto emergere interrogativi spesso radicali circa il sistema delle antiche solidarietà politiche, dando luogo ad una fase di mobilitazione politica e sociale che è certo la più ampia e profonda dalla caduta del fascismo.

L'antica saggezza togliattiana consistente nel manovrare dentro il trasformismo sulla base dei rapporti di forza dati, è ora inadeguata a interpretare una effettiva crisi politica del centrismo, che chiede soluzioni alternative in tempi estremamente ravvicinati, ormai completamente difformi rispetto alla indefinita e indefinibile prospettiva storica in cui è rimasta sempre confinata la «via italiana al socialismo».

Non si può dire che questa nuova realtà si rifletta nella riformulazione berlingueriana della politica di unità nazionale, che rimane ancorata, e per certi aspetti esasperandola, all'antica congiunzione di pessimismo sul presente politico e di immutata fede nel futuro socialista.
La politica di compromesso storico è complessivamente animata da due motivi.
Il primo, dominante negli articoli del 1973, è quello relativo ai modi in cui esercitare una mediazione politica tra la nuova spinta a sinistra del paese e gli atteggiamenti e i desiderata dello schieramento conservatore [19].
Il secondo, in qualche misura procedente dal primo, è quello relativo al carattere catastrofico della crisi come argomento necessario e insostituibile per motivare l'inclusione del Pci nell'area di governo [20].

Per quanto riguarda la politica interna sembra molto spesso che il modello del 1944-47 (esistenza di una grande catastrofe nazionale e, insieme, pesante condizionamento culturale-politico di tipo conservatore proveniente dall'eredità del ventennio fascista) continui a sovrapporsi sul presente [21].
L'estrema complessità della situazione in cui si determina il forte incremento dei suffragi comunisti sbiadisce nella ripetizione di alcuni luoghi comuni e stereotipi della tradizione.

Può valere per tutti l'esempio di un tema come quello dell'inflazione che il Pci assume nel 1976 come priorità politica incondizionata.

Una politica di inflazione è contraria agli interessi delle categorie a reddito fisso (dipendenti dello stato, impiegati, funzionari) - afferma Togliatti nell'agosto del 1945 - e a quelli del medio e piccolo risparmiatore, ossia è dunque contraria agli interessi di una parte ingente della popolazione italiana, che nella sua maggioranza è orientata oggi in senso democratico e che se venisse rovinata dall'inflazione porrebbe essere gettata nelle braccia delle correnti reazionarie e fasciste [22].

Si tratta di una vera e propria concessione ad un tipico modulo einaudiano, che ritroviamo pressoché immutato a distanza di trent'anni nel modo in cui Berlinguer giustifica la scelta dell'inflazione come punto-chiave del profilo politico del Pci.

Il rischio è che si precipiti in un'inflazione [...] non più controllabile [...] se ciò avvenisse l'Italia precipiterebbe nel caos, si solleverebbero ondate di destra e verrebbe messo in forse lo stesso regime democratico.
Si ricordi sempre a questo proposito che l'inflazione successiva alla prima guerra mondiale è stata tra le condizioni che hanno creato un terreno propizio alla riscossa reazionaria che culminò in Italia nel fascismo [23].

Ci si dimentica delle profonde trasformazioni nella struttura del ceto medio italiano che, alla metà degli anni '70 è, in realtà, in gran parte economicamente avvantaggiato da una situazione di inflazione.
Ma soprattutto non si trova traccia di quell'analisi del fenomeno (che abbiamo indicato invece come largamente presente nelle politiche socialdemocratiche) tendente a ricondurre la corsa dei prezzi al processo di organizzazione politica delle forze sociali.
In questa prospettiva alla pura e semplice manovra sulla massa monetaria è possibile sostituire un processo negoziale tra le parti, saldamente inserito dentro il processo di decisione politica [24].

E tuttavia sarebbe errato vedere il compromesso storico come una tardiva ripetizione di moduli del passato.
Il terreno su cui si determina una innovazione profonda rispetto al modello togliattiano è, come è noto, quello della politica estera, in cui Berlinguer si caratterizza per un revisionismo radicale.
Conformemente ad un realismo ispirato al vecchio principio secondo cui «Parigi val bene una messa» il Pci berlingueriano si sbarazza, in un vero e proprio tour de force, di tutte quelle proposizioni politiche di natura internazionale che possono ostacolare una sua nuova collocazione di governo.

Con l'accettazione della Nato non è solo la politica estera che cessa di essere il terreno più acutamente divisivo della politica italiana.
È tutto l'insieme delle interdipendenze quale si è sviluppato dal 1945 in poi entro la sfera dell'egemonia americana, che diviene pane integrante della prospettiva comunista [25].
È il sistema uscito dagli accordi di Jalta, e il regime politico fondato sul bipolarismo, che viene ora accolto come un dato irreversibile e immodificabile, e assunto quindi come cornice obbligata di riferimento per ogni azione innovativa e di trasformazione che il Pci sia in grado di intraprendere.
La via italiana al socialismo perde il suo collegamento obbligato con l'ipotesi di mutamenti sostanziali nell'insieme del regime internazionale.

Nonostante le riaffermazioni del carattere socialista dei paesi dell'Europa orientale [26] il Pci viene cosi liquidando quella forma di iperidentità sul terreno dei rapporti internazionali che lo ha nettamente distinto per più di un trentennio dall'insieme del socialismo europeo, senza avere nello stesso tempo la possibilità, e il tempo, di produrre modifìcazioni significative nel modo in cui guardare, sul piano interno, alla prospettiva di governo.
Sospinto dalla logica delle cose il Pci manomette l'equilibrio togliattiano, senza tuttavia riuscire a crearne uno nuovo.
La lunga insistenza che si farà in quegli anni sul tema della «diversità» e della «terza via» sembra interpretabile come ricerca di soluzioni ideologiche ad un problema di identità ormai risolvibile solo all'interno di una dimensione politico-programmatica, quale si definisce essenzialmente attorno al tema del governo dello sviluppo [27].

Bisogna aggiungere che sollecitazioni positive in questo senso non giungeranno nemmeno da quella parte che nel dibattito politico nazionale viene costantemente indicata come l'ala «socialdemocratica» del Pci.
I due aspetti principali della posizione difesa da Giorgio Amendola - più marcata affiliazione ideologica all'Urss e pronunciata disponibilità ad una politica di deflazione da scambiare con prestigio politico nazionale - sembrano, in realtà riproporre una interpretazione del togliattismo più conservatrice di quella berlingueriana, che la coalizione centrista può indicare, a più riprese, come la più moderna ed «europea» perché sostanzialmente interna alla strategia del «liberalismo ristretto».


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Note:

[1]                 G. Sorel, Matériaux d'une théorie du prolétariat, Paris 1919; vedi in particolare l'introduzione.
[2]                 L. Hart, La tradizione liberale in America, Milano 1960.
[3]                 Pizzorno, I soggetti del pluralismo cit., pp. 99-154.
[4]                 Vale la pena di rileggere quello che ha scritto di recente un protagonista di questa politica: «Ci sembrava che la crisi economica e politica, culturale e morale, della società italiana richiedesse la formazione di un governo di larga coalizione. Ponevamo cioè l'esigenza di un governo di emergenza, che fosse capace, con un programma di emergenza, di affrontare problemi acuti sul piano economico e su quello democratico. Anche in altri paesi europei (come la Germania Federale) si era fatto ricorso, in un certo periodo, a governi di larga coalizione, senza che passasse per la mente dei socialdemocratici tedeschi o di altri alcuna idea paragonabile a quella del compromesso storico. In Italia c'era, in più, per noi, e per il funzionamento normale della democrazia, un altro problema: quello di riuscire a superate nei fatti una discriminazione politica nei nostri confronti» (G. Chiaromonte, Il significato del compromesso storico, in «Critica marxista », 1985, n. 2-3, pp. 75-76).
[5]                 È evidente che non ci proponiamo in alcun modo una ricostruzione esauriente delle formulazioni teoriche della politica comunista, ma solo qualche fugace richiamo a momenti importanti per l'analisi che cerchiamo di prospettare.
[6]                 Gramsci, Socialismo e fascismo, Torino 1966, p. 51.
[7]                 Id., Note sul Machiavelli, in Quaderni del carcere, Roma 1977, p. 51. Per tutto il problema della critica gramsciana dello stalinismo rimandiamo a Paggi, Le strategie del potere in Gramsci cit., capp. VII e VIII.
[8]                 Togliatti e il centrosinistra, Firenze 1975, p. 977.
[9]                 Su questo tema cfr. P. lngrao, «Via italiana» o «vie nazionali al socialismo»?, in «Critica marxista», 1985, n. 4.
[10]              Per questa posizione, del resto assai diffusa, vedi, ad esempio, G. E. Rusconi, La strada stretta della socialdemocrazia tedesca, in «Politica ed economia», 1985, n. 12.
[11]              Uno svolgimento storico-sistematico di questa tesi, con spunti analitici spesso interessanti, si trova in A. Wolfe, I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, Bari 1981. Sul piano teorico il tema è stato elaborato, come è noto, da Habermas e Offe. Di quest'ultimo vedi ora la raccolta di saggi, Contradictions of the Welfare State, Boston 1985. Il contrasto tra legittimazione e accumulazione viene qui fondato essenzialmente sull'idea che l'intervento dello stato sia portatore di una logica antitetica a quella del mercato, tale cioè da innescare processi di demercificazione. Ci sembra di contro che lo stato sociale: 1) sia certamente espressione di una perenne ambiguità, nel senso che alla logica della sicurezza e della protezione ne unisce una opposta volta alla soddisfazione « disinteressata» dei bisogni; ma che 2) questa ambiguità non possa in alcun modo essere assunta come introduzione di una diversa logica sociale, che «sospende le relazioni di mercato» (p. 142). Del resto, se l'intervento dello stato, inevitabilmente basato e agito dal principio di esclusione insito nella relazione contrattuale da cui si origina, aprisse la strada ad un nuovo modo di produzione, allora lo stesso esperimento sovietico dovrebbe essere assunto per ciò che esso ha sempre detto di sé, ossia come ingresso, di fatto, nell'epoca del socialismo. Rimandiamo comunque per questo insieme di questioni teoriche a Paggi e Pinzauti, Pace e sicurezza cit., passim.
[12]              Vedi rispettivamente A. Downs, Economic Theory of Democracy, New York 1957 e K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia, vol. I, Firenze 1968, pp. 207-21.
[13]              Gramsci, L'ordine nuovo, Torino 1954, p. 14.
[14]              E. Fraenkel, Il doppio Stato, Torino 1985.
[15]              T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, T orino 1976.
[16]              Polanyi, La grande trasformazione cit., p. 98. Ma per l'insieme della critica di Polanyi è estremamente importante lo scritto del 1947, Our Obsolete Market Mentality, in Primitiv, Archaic, and Modern Economies, New York 1968, pp. 59 sgg.
[17]              Okun, Equality and Efficiency: The Big Trade Off, Washington (D.C.) 1975, p. 61.
[18]              Togliatti e il centrosinistra cit., p. 1230: «Accanto ad una spinta demografica e ad una spinta che verrà dall'avanzata delle tecniche produttive, vi sarà una spinta rivendicativa potente nei prossimi anni, e le rivendicazioni saranno sì di quantità, ma anche di qualità, probabilmente e quasi certamente differenziate, rispetto alla qualità, dalle rivendicazioni che sono state avanzate finora. È qui la chiave della svolta che rivendichiamo, perché questa spinta rivendicativa, se dovrà avere soddisfazione - e dovrà averla perché altrimenti ci sarà un aggravamento di rutti i contrasti, di tutte le contraddizioni sociali - dovrà averla in modo nuovo, con delle soluzioni economiche, organizzative, politiche nuove, diverse da quelle adottate finora».
[19]              Dei tre articoli pubblicati su «Rinascita» il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre 1973 questa è probabilmente l'affermazione centrale: «Un grosso problema che ci impegna in sede politica [...] è come far sì che un programma di profonde trasformazioni sociali - che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da parte dei gruppi retrivi - non venga effettuato in modo da sospingere in posizioni di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione». Dopo aver riaffermato la necessità di grandi alleanze, si continua: «D'altra parte la contrapposizione e l'urto frontale fra i partiti che hanno una base nel popolo, e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura, a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello stato democratico».
[20]              Dei molti luoghi che si potrebbero citare, vale ricordare, per la sua chiarezza, il saggio di Amendola, Coerenza e severità cit., in cui si sostiene che dinanzi ad una inevitabile tendenza della Democrazia cristiana ad appoggiarsi ad una ripresa di congiuntura per riacquistare maggiore libertà di manovra politica, il movimento operaio deve sottolineare la gravità della crisi e rendersi quindi immediatamente disponibile a pagare i prezzi necessari.
[21]              Con un lungo saggio di Tobias Abse, Judging the Pci, il n.153 della «New Left Review» (1985) apre ufficialmente le ostilità contro un'opinione largamente presente nella sinistra laburista secondo cui il Pci poteva rappresentare, comparativamente con il Labour Party, un esempio positivo di coerenza strategica e di efficacia politica. Della caduta dei miti non ci si deve dolere. Non ci sembra però che il saggio, che si conclude con la prospettazione di uno scenario alternativo consistente in una maggioranza laica comprendente oltre al Pci, repubblicani, socialisti e radicali riesca a cogliere sia la profondità di radici che la scelta di compromesso storico ha nel political discourse del Pci, sia l'ampiezza delle opposizioni espresse dal ceto capitalistico italiano, non certo aggirabili solo con una diversa maggioranza politica.
[22]              Sono affermazioni fatte al convegno economico del Pci nell'agosto del 1945, ora in A. Graziani, L'economia italiana: 1945-1970, Bologna 1972, p. 112.
[23]              Togliamo la citazione dal saggio di P. Lange, Il Pci e i possibili esiti della crisi italiana, in La crisi italiana cit., p. 671, che offre una ricostruzione tuttora assai utile della politica comunista nella seconda metà degli anni '70.
[24]              Rimandiamo ancora, come esemplificativo di una diversa impostazione analitica, al volume curato da Hirsch e Goldthorpe, The Political Economy of Inflation cit.
[25]              Un'ottima ed esauriente rassegna dell'insieme delle proposizioni con cui il Pci viene in questi anni ridefinendo la sua posizione all'interno del «mondo occidentale» in R. Putnam, The Interdependence and the Italian Communism, in «International Organization», vol. 32 (1978), n. 2.
[26]              Come è noto il mutamento di giudizio sull'Urss si avrà solo dopo il colpo di stato in Polonia.
[27]              È questo il tema su cui insiste programmaticameme G. Napolitano, In mezzo al guado, Roma 1979, nella introduzione premessa alla raccolta di saggi.


[FINE]