Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo
Il Pci nel trasformismo
Capitolo V del saggio
“I comunisti italiani e il riformismo: Un confronto con le socialdemocrazie
europee”, Giulio Einaudi editore, Torino 1986, pp. 100-120.
Pubblicazione
disponibile qui.
Un ringraziamento a Sergio Cesaratto
per aver consigliato questo interessantissimo libro.
Mito e realtà del Partito comunista italiano
Una strategia politica di lungo periodo non può essere compresa
se viene isolata dalla descrizione dei comportamenti dell'avversario per cui
essa è stata «ideata».
Un duello è possibile solo a partire da una qualche posizione
di reciprocità dei duellanti i quali ... per duellare, devono in qualche modo
riconoscere i ruoli rispettivi.
Anche lo scontro più feroce implica l'esistenza di un «gioco
delle parti».
Ci sembra, in altre parole, che la caratterizzazione del
modello trasformista non possa, ad un certo punto, non trapassare nell'analisi dei
modi in cui il movimento operaio italiano è venuto collocandosi al suo interno;
e che, di converso, qualsiasi tentativo di identificare i connotati più
strutturali della politica comunista, o meglio gli aspetti salienti di quella
che si è soliti chiamare la sua «tradizione», non possa aver luogo se non
tenendo presenti alcune costanti nella storia delle classi dirigenti italiane.
1. Esclusione e
iperidentità
A nostro avviso solo in riferimento alla strategia
dell'esclusione - quale ha avuto la sua manifestazione più cospicua nel
fascismo, in quanto tentativo di ricomprendere tutto il movimento operaio
dentro un'organizzazione autoritaria di massa - diviene più comprensibile la
coesistenza, nella elaborazione politica più matura di Palmiro Togliatti, di
quei due elementi che il più geniale «critico» del marxismo in quanto dottrina
del partito operaio di massa, George Sorel, aveva individuato già all'inizio
del secolo come reciprocamente escludentesi:
1)
da
un lato la propaganda del mito del socialismo,
il cui ingresso nella storia fattuale viene sostenuto da Togliatti, con la
costituzione dello stato sovietico;
2)
dall'altro
il perseguimento coerente di una prospettiva definibile - ancora con il lessico
di Sorel - come «il movimento operaio nella democrazia», ossia di una coerente
autodefinizione come forza di rappresentanza e gestione di interessi operai e
popolari, all'interno di un quadro liberaldemocratico, secondo una prospettiva
aliena e incompatibile con ogni ipotesi di «nuova società» [1].
La contraddizione logica tra questi due elementi del
comunismo italiano solo negli anni '70 giunge ad esplodere come contraddizione politica, allorché cessa di essere
quello che è stata, paradossalmente, nel passato, ossia un fattore di forza del
movimento.
Si potrebbe dire che a fronte della strategia dell'esclusione
il mito svolge la funzione di provvedere sul piano internazionale una sorta di iperidentità che consente di rispondere
ad una costante minaccia all'autonomia di una rappresentanza politica.
Il mito viene cosi a costituire una «risorsa» addizionale,
suppletiva, per il compimento di un impegno redistributivo che è, nelle linee
generali, quello della tradizione europea, ma che nella storia concreta delle
lotte di classe nel nostro paese si è rivelato particolarmente arduo e
contestato.
In definitiva, in questa peculiare finalizzazione del mito stanno
le ragioni della forte capacità di conquista della tradizione socialista
dimostrata dal comunismo italiano.
Proprio nelle regioni in cui il partito acquisirà dopo il
1945 più stabili basi di massa, là lo «stalinismo» potrà convivere con i
contenuti e l'«arte di governo» del vecchio riformismo socialista.
E la stessa idea di rivoluzione, strettamente connessa
all'esistenza del mito, se certo rappresenta per molti aspetti una rottura con
l'«evangelismo» socialista, è vero anche che veicola ed esprime istanze
tipicamente egualitarie.
L'accoglimento da parte delle vaste masse popolari del culto
della personalità implica appunto una visione del capo dello stato sovietico
come grande giustiziere, che ripristina il diritto in una società in cui
l'ineguaglianza appare profondamente stratificata.
Pare innegabile, in altri termini, che proprio il caso
italiano contribuisca a sottolineare l'esistenza di elementi di verità nella
celebre tesi di Louis Han, secondo cui la presenza in Europa di quella forte
tradizione socialista assente nel «nuovo mondo» sia da attribuire più che allo
sviluppo capitalistico in quanto tale, alla esistenza di una secolare tradizione
feudale.
L'ancien régime
lascia dietro di sé un enorme groviglio di istanze egualitarie, assente in uno
scenario fatto di born equal che
sovraccarica il liberalismo europeo di quell'antagonismo sociale supplementare,
da cui si sprigiona l'ideologia socialista [2].
È chiara la valenza apologetica di un'affermazione di questo tipo. Essa può portare a sostenere che un
capitalismo pienamente sviluppato sia una società esente da contraddizioni.
A noi interessa invece solo uno spumo di riflessione critica sul
ruolo dell'ideologia nello svolgimento della lotta politica nel nostro paese.
Ossia, quel «prerequisito» supplementare di una forza sociale e politica
tendenzialmente minoritaria, come è già stato sottolineato da chi ha ricondotto
la forte ideologizzazione dell'azione sindacale negli anni '50 ad una
particolare debolezza e fragilità contrattuale della classe operaia italiana
sul terreno del mercato del lavoro [3].
Ma se da un lato il mito contribuisce all'assolvimento di quel
ruolo integrativo di massa, particolarmente necessario per una linea di
«movimento operaio nella democrazia» applicata in un universo politico
trasformista, dall'altro esso impone anche un prezzo da pagare assai alto,
nella misura in cui apre un'ipoteca costante sulla legittimità democratica di un
movimento che, per i suoi contenuti concreti, è tuttavia permanentemente teso
al consolidamento e alla estensione del quadro liberaldemocratico.
È qui che la strategia trasformista e quella comunista si
avvitano in un circolo vizioso, giustificandosi e alimentandosi a vicenda,
secondo quella logica paradossalmente cooperativa che sta dietro ad ogni duello.
Ne deriva, sul terreno della concreta iniziativa politica, una
differenza sostanziale rispetto al quadro del movimento operaio europeo, quale
risulta in Austria, Germania e Svezia.
Mentre il trade-off
socialdemocratico tende, come abbiamo visto, a scambiare la moderazione nel
conflitto sociale con incrementi diretti o indiretti di salario reale, quello
comunista tende sempre a riproporre come contropartita adeguata un più ampio
riconoscimento della propria legittimità.
La rapidità con cui nel triennio 1976-79 si determina il
passaggio dal riformismo all'emergenza ha in definitiva qui la sua ragione di
fondo.
Qui anche la differenza essenziale tra la politica di
compromesso storico e l'esperienza di «grande coalizione» compiuta dai tre
partiti socialdemocratici [4].
Il modo in cui il problema della identità, e conseguentemente quello della autolegittimazione, finisce per fare aggio su quello di un'autonoma
proposizione programmatica è visibile se si volge l'attenzione a quelle che
sono forse le due principali proposizioni politiche della «tradizione comunista
[5].
In primo luogo l'autodefìnizione di partito di governo che, sia pure in una gradazione assai ampia di
significati, tende essenzialmente a sottolineare la particolare vocazione
politica di un partito, che pur dando in qualche modo per scontata la sua
natura di partito di opposizione (fuori da una logica di alternanza) non vuole
rinunciare ad un rapporto con la dimensione del governo proprio in quanto
organizzatore della protesta sociale.
Entro questa prospettiva - «governare dall'opposizione» - il
Pci, se per un verso riesce a dare un volto largamente positivo al suo ruolo di
opposizione, ponendosi oltre i toni di una agitazione solo propagandistica, non
giunge mai, nello stesso tempo, a realizzare quella dimensione politica
programmatica di partito di alternativa.
Governare dall'opposizione; riuscire a «premere per il mutamento»,
anche stando all'opposizione, questo, in sostanza l'orizzonte storico della
politica comunista, la quale anche quando giunge a proporre la sua
partecipazione a grandi coalizioni, tende a prospettare questa sua nuova
collocazione come un'estensione e un prolungamento quasi naturali di una
preesistente fisionomia politica contrassegnata dal tema della responsabilità
nazionale.
«Governare senza avere la responsabilità diretta del governo,
essere l'eminenza grigia del governo borghese» [6], scriveva Gramsci nel 1921 proponendo
una caratterizzazione polemica sia del riformismo che del massimalismo
socialista in qualche modo tuttora efficace per disegnare il modo in cui tutto
il movimento operaio italiano ha teso a introiettare la strategia
dell'esclusione.
La disponibilità ad essere cooptati in maggioranze estremamente vaste, in nome di un interesse
nazionale, si configura dunque come il momento di massima approssimazione ai
problemi del governo che la tradizione del comunismo italiano riesce ad
esprimere.
Entro questo quadro si chiarisce anche il senso della seconda
proposizione-chiave nella definizione del rapporto tra Pci e governo: quella
relativa alla necessità di sacrifici
della classe operaia.
Il passaggio è di grande importanza perché dimostra come la strategia
della esclusione condizioni internamente tutta la visione dello scambio
politico propria del comunismo italiano - anche se, in realtà, il termine
stesso di scambio è qui respinto,
quasi in via di principio.
L'orizzonte entro cui si affrontano i problemi dell'economia
è infatti quello dell'egemonia, quale
si definisce attraverso una singolare finalizzazione di passaggi importanti
della teoria gramsciana alla politica di unità, o solidarietà nazionale:
«L'egemonia - scrive Gramsci - significa ricerca di compromessi e richiede
anche che il gruppo dirigente faccia sacrifici di ordine economico corporativo».
Si potrebbe dire che la visione del socialismo come mito
incarnato nell'Unione Sovietica impedisce al Pci di comprendere il reale
significato di questo passo dei Quaderni [7].
Gramsci sta qui ancora interloquendo - come quasi sempre avviene
nelle formulazioni più importanti della sua teoria politica - con il dibattito
sul «socialismo in un solo paese» e l'eredità profonda che esso ha lasciato in
tutto il movimento comunista.
Il suo punto di riferimento polemico è una visione puramente
amministrativa dell'esercizio del potere in Unione Sovietica.
Di contro ad una linea politica che punta ad identificare la
realizzazione del socialismo con la modificazione violenta di una determinata
stratificazione di interessi economici e di gruppi sociali, Gramsci richiama in
continuazione, sulla base di una concezione sempre più intimamente consensualistica
del potere, il ruolo decisivo che svolge la soggettività di massa nel
compimento dei grandi mutamenti sociali.
La sua critica allo stalinismo sta nella individuazione delle
radici della violenza nel tentativo di andare, di contro, verso una rapida
uniformazione della struttura degli interessi.
Trasferita nella prospettiva politica di unità nazionale questa
teoria dell'egemonia finisce, paradossalmente, per legittimare tutta una
posizione politica tendente a interpretare la partecipazione al governo, non
tanto come alternativa e rottura con il modello trasformista, quanto piuttosto
come giustificazione teorica di una sua molecolare
modificazione dall'interno, e quindi anche come accettazione di alcune sue compatibilità
di base.
2. Togliatti e il
centrosinistra
Nel contesto di questa rapidissima caratterizzazione
concettuale di alcuni passaggi-chiave della «tradizione» comunista ci sembra di
grande interesse ricordare come nel corso del dibattito sul centrosinistra
Togliatti giungesse ad un chiarimento esplicito sul nesso esistente tra
politica di unità nazionale, che anche allora si viene proponendo, e il modello
trasformista delle classi dirigenti italiane, quale si definisce alle origini
stesse dello stato liberaldemocratico.
Bisogna dire che in precedenza il tema del trasformismo è
quasi bandito in via di principio dalla cultura politica del Pci.
La tesi di fondo è che la «rivoluzione antifascista» e la
formazione di un sistema di partiti di massa rappresenta la condizione essenziale
per una «avanzata democratica al socialismo».
Ma ancora alla metà degli anni '70, il dibattito sul rapporto
di continuità tra fascismo e postfascismo, che non a caso si apre allora, viene
sentito come esplicitamente critico di tutta una strategia politica e quindi
tendenzialmente esorcizzato con formule di rito.
Le affermazioni avanzate da Togliatti per respingere la tesi
presente all'inizio degli anni '6o nella sinistra, secondo cui il riformismo
borghese fosse da considerare come la principale minaccia per il movimento
operaio, meritano perciò una particolare attenzione.
E qui viene a proposito accennare alla opinione, da noi .
stessi più volte espressa, che, tutto sommato, ci si possa trovare di fronte
niente altro che a una operazione trasformistica tentata da una parte delle
classi dirigenti e dal partito oggi dominante.
La cosa non si può negare.
La confessano apertamente coloro che parlano di «allargamento
dell'area democratica» attraverso la rottura dei vincoli unitari oggi esistenti
nel campo delle forze popolari.
Una operazione trasformistica è però sempre una operazione
che presuppone un movimento, delle contraddizioni interne nel fronte delle
classi dominanti, il riconoscimento di certe conquiste dei lavoratori e di
concessioni non più dilazionabili in un quadro di conservazione del sistema nel
suo complesso.
Tale fu l'operazione tentata dalla borghesia liberale nel
primo decennio di questo secolo, sotto la guida di Giovanni Giolitti.
Ne ho parlato qui un'altra volta, e ripeto che l'errore, in
quel periodo storico del movimento operaio e socialista italiano, fu di avere
mancato di unità e soprattutto di non essere intervenuto in modo attivo,
evitando le secche, sia dell'anarchismo massimalista sia dell'opportunismo
riformista, con un proprio disegno politico, che gli consentisse di inserirsi
nel complesso del movimento, di aprire e allargare le brecce del fronte
borghese, strappandogli l'iniziativa politica e facendo fallire il suo piano
conservatore.
Oggi bisogna evitare di ripetere quegli errori.
Se si ripetessero, il risultato potrebbe essere analogo a
quello di allora, quando, dopo pochi anni, ci si trovò di fronte a una
offensiva reazionaria, in cui già erano presenti i germi del fascismo.
Il movimento operaio e popolare deve accettare la sfida che
gli viene lanciata, non può e non deve rifiutare di battersi sui nuovi terreni
che vengono proposti... [8].
Dietro la definizione conclusiva del centrosinistra come nuovo
terreno di lotta si trovano alcuni punti di analisi che conviene ricapitolare
brevemente:
1)
il
trasformismo come strategia volta alla negazione dell'autonomia del movimento
operaio (e non la capacità integrativa del riformismo borghese) è la minaccia
storica con cui il movimento operaio è chiamato a fare i conti;
2)
nello
stesso tempo, l'operazione trasformista è segno che un problema di mutamento, o
di aggiornamento, si è posto negli equilibri del blocco dominante;
3)
il
movimento operaio raggiunge, con l'esperienza storica rappresentata dal Partito
comunista, forza organizzativa e maturità politica sufficienti per tentare di inserirsi
dentro la manovra trasformistica, cercando di divaricarla e facendo in modo
che, anziché porzioni della sinistra, sia l'intero movimento organizzato ad
inserirsi nel varco che si apre;
4)
la
politica di unità nazionale, ossia una riedizione della coalizione del 1944-47,
è il modo in cui il movimento operaio interpreta la manovra trasformista come
occasione per uno sviluppo della propria influenza politica.
È condensata in questo tipo di analisi tutta la forza di
penetrazione del togliattismo, sia sul piano dell'analisi che su quello
dell'iniziativa politica, e insieme l'indicazione del suo limite storico.
In effetti, entro l'orizzonte di questa politica il problema
del governo viene accolto e affrontato solo come risposta, se si vuole, gioco
di rimessa, di una partita impostata dagli altri, le cui regole del gioco non
si è in grado, e quasi non si pensa possibile modificare.
Più che di governare il problema vero del togliattismo è
quello di portare il movimento operaio a «pesare di più», poiché, in effetti,
questa visione di una «avanzata democratica al socialismo» implica, di
necessità, il determinarsi di profondi mutamenti sul piano internazionale.
È tutto il sistema di equilibrio uscito dalla seconda guerra mondiale
che deve conoscere una dislocazione in avanti, affinché si possano avere
mutamenti di sostanza sul piano interno.
La realistica accettazione della divisione del mondo in sfere
di influenze, in questo senso, esprime solo un
aspetto della posizione di Togliatti.
Un regime duraturo di coesistenza pacifica e insieme uno
sviluppo quantitativo e qualitativo del «campo socialista» sono infatti
permanentemente sottolineati come le condizioni indispensabili per la
riapertura di una partita politica in cui il Partito comunista possa giocare, a
pieno titolo, tutte le sue cane.
La divisione tra Cina e Urss, proprio perché mette in
discussione questi due presupposti, è, non a caso, vissuta da Togliatti come la
fine del quadro di riferimento storico-strutturale in cui egli ha collocato la
sua strategia politica [9].
Venendo meno la possibilità di individuare il socialismo come
un sistema di forze e di istituzioni (stati, partiti, movimenti) concretamente,
già ora presente nella storia, e attivamente operante, è la stessa idea di una
manovra politica interna al trasformismo («aprire e allargare le brecce del
fronte borghese») che viene ad essere pregiudicata.
Il Pci può pensare di fronteggiare con successo un nuovo
giolittismo solo nella misura in cui si può avvantaggiare (a differenza del socialismo
prefascista) di una identità politica garantita da un sistema di forze mondiali
che marciano unite verso un medesimo obiettivo storico.
Ma questa prospettiva internazionale non può non respingere
sullo sfondo come irrilevante il tema della alternativa con i corrispettivi
problemi di una vera cultura di governo.
3. Il mercato come «rimosso»
Cerchiamo di ricapitolare brevemente, a questo punto, i momenti
più qualificanti dell'ipotesi di ragionamento che abbiamo cercato di svolgere.
Siamo partiti dalla convinzione che l'esame del rapporto tra
Pci e Socialdemocrazia europea non possa esaurirsi in un confronto di
tradizioni politiche.
Per questa via si alimentano inevitabilmente posizioni
riduttive che vanno da una rivendicazione patriottica della tradizione
comunista all'idea opposta che l'assunzione di un programma del tipo Bad
Godesberg sia condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per il
rinnovamento della strategia politica del Pci [10].
L'analisi delle tradizioni politiche bisogna rimandi, anche
se in modo allusivo, ad una considerazione tendenzialmente strutturale della
diversità dei contesti nazionali in cui esse si inseriscono.
Dal raffronto che siamo venuti svolgendo lungo questa linea
di ricerca è emerso come riformismo e
trasformismo, dominanti
rispettivamente in Europa e in Italia, si configurino come due modelli di
integrazione sociale e politica non solo estremamente diversi, ma anche in
qualche misura opposti, soprattutto se in riferimento alla posizione e al ruolo
assunti dal movimento operaio nel sistema politico nazionale e nel governo
dell'economia.
L'esistenza di un «caso Italia» alla «rovescia» rimanda
allora ad un meccanismo storico di lungo periodo che abbiamo cercato di
definire in tre punti:
a)
il
trasformismo intanto può e deve essere assunto come costante della storia
d'Italia in quanto, con variazioni dipendenti da diverse fasi di sviluppo dello
stato italiano, e corrispettivamente di crescita del quadro liberaidemocratico europeo,
si propone una politica di contenimento del movimento operaio;
b)
il
trasformismo come violenza politica trova una sua costante proiezione in un
tipo di governo dello sviluppo che tende ad una perenne marginalizzazione del
salario nella distribuzione del reddito e che ha il suo referente di cultura in
una lunga e incontrastata egemonia liberista;
c)
il
modello politico dell'unità nazionale che si fissa nella tradizione comunista
con il crollo del fascismo, pur consentendo grandi risultati sul terreno
dell'insediamento, non giunge mai a superare i limiti di una visione puramente
allusiva e metaforica dei problemi relativi alla costruzione di una alternativa
di governo, e finisce quindi per configurarsi come controfaccia e introiezione delle
«leggi» del trasformismo.
Sul terzo dei tre punti sopraelencati, ossia sul nesso tra trasformismo
e movimento operaio, è importante aggiungere una considerazione conclusiva,
sulla base di un'analisi necessariamente succinta della nozione comunista di
democrazia.
Abbiamo già parlato del rapporto concettualmente
contraddittorio (anche se politicamente funzionale) delle due componenti del
togliattismo: il mito del socialismo realizzato in una parte del mondo, da un
lato, e il «movimento operaio nella democrazia», dall'altro.
Bisogna aggiungere che di questi due termini si tenta una
mediazione, sul piano teorico-strategico, con la nozione di democrazia
progressiva.
La battaglia per lo sviluppo della democrazia traccia una
progressione storica che si muove nella direzione del socialismo.
Al fondo di questa teoria rimane un'idea catastrofica
(proveniente dalla cultura della Terza Internazionale) relativa alla incompatibilità
di democrazia e capitalismo.
La democrazia è sentita ancora come «sovversiva».
Del resto non si può non aggiungere che posizioni in gran
parte analoghe sono state riformulate ancora negli anni '70, magari con più
eleganti e raffinate soluzioni teoriche, quando si è cercato di interpretare la
crisi dello scorso decennio come il portato di una contraddizione tra esigenze
dell'accumulazione capitalistica e quelle della sua legittimazione di massa [11].
Il dato costante di questo indirizzo di analisi consiste nel fatto
che la nozione di democrazia perde ogni connessione logico-storica con quella
di mercato, finendo per configurarsi come una formazione tutta politica di una
«volontà generale», unica arbitra in definitiva di tutto lo sviluppo storico.
Una democrazia, dunque,
senza capitalismo, ovvero il mercato come rimosso.
Questo aspetto del «discorso politico» del Pci rimanda a problemi
teorici di ampia dimensione che non possiamo qui tentare di analizzare in modo
soddisfacente.
Ci preme solo ricordare, invece, come di questa connessione
tra mercato e democrazia si possono dare due opposte interpretazioni, la prima
apologetica, la seconda critica.
Nel primo caso siamo all'interno, sostanzialmente, di quella
che è stata chiamata la teoria economica della democrazia; il mercato, assunto
nella interpretazione della teoria dell'utilità marginale, fornisce la base di
lettura dell'intero sistema politico.
La logica dell'utilitarismo avanza, ancora una volta, la
pretesa di fungere come spiegazione integrale della società.
Nel secondo caso la legge di esclusione del mercato è assunta
come fondamento analitico del modo di produzione.
Nel caso specifico la libertà e l'eguaglianza sono riconosciute
come «espressioni idealizzate dello scambio» [12].
I valori creati dal capitalismo in termini di libertà e di
individualismo sono ricondotti alla matrice del valore di scambio.
Ossia, sul terreno dell'analisi politica, non c'è incremento
di democrazia che possa portare oltre il capitalismo (se non in una logica
ancora di tipo giacobino, che affida ad un potere politico sufficientemente
forte il compito di sospendere, con la violenza, il funzionamento del mercato).
Per rimanere all'interno della tradizione del comunismo italiano
bisogna dire che la consapevolezza di questo nesso tra democrazia e mercato è
fortissima in Gramsci, a tal punto che, a suo parere, tutto l'insieme delle
tesi della Terza Internazionale sul carattere rivoluzionario della crisi
postbellica sono accettabili solo se si può dimostrare che sono in atto nel
movimento operaio spinte organiche che lo stanno portando oltre ciò che esso è
stato per un'intera fase storica, e non può non continuare ad essere in
condizioni di normalità, ossia «una funzione della libera concorrenza
capitalistica » [13].
Partito e sindacato sono, inevitabilmente, associazioni di
carattere volontaristico e contrattuale, ossia pienamente partecipi
della logica dominante del modo di produzione.
Del resto, quanto meno dopo il 1921, e per tutto il decennio successivo,
il problema del mercato, sia sul piano interno che su quello internazionale, e
dei modi con cui convivere con esso, è in qualche misura il tema dominante
della cultura politica del bolscevismo, il punto a partire dal quale si
determinano tutte le divisioni.
L'idea che un processo politico rivoluzionario e di mutamento
possa procedere ignorando il mercato, ossia in uno scontro frontale con esso,
si afferma, nella cultura comunista, solo a partire dalla «rivoluzione dall'alto».
Allora Gramsci forgerà la categoria di «parlamentarismo nero»,
sia per avanzare dubbi sulle «unificazioni politiche» del corpo sociale create
dalla violenza staliniana, sia per ricordare al fascismo la sua natura di
«parentesi», destinata inevitabilmente a rifluire dinanzi ad un ritorno a
istituti politici liberaldemocratici, che hanno le loro inestinte radici proprio
nel contrattualismo di una società di mercato.
In una direzione analoga si muove l'analisi che Fraenkel compie
del sistema politico nazista: uno stato della «prerogativa» può essere
ripristinato solo per quanto concerne i rapporti politici: non può invece
chiamare in causa il regime dei contratti che si erge come normativa del
mercato [14].
Profondamente divergente, come è noto, la posizione che
analizza il fascismo come regime reazionario di massa.
Proprio infarti partendo da questa definizione del fascismo
si vedrà nella rottura democratica costituita dal regime dei partiti di massa
la premessa di un cambiamento di qualità dello stato liberaldemocratico.
Così mentre i comunisti italiani penseranno dopo il 1945 il
loro quotidiano impegno rivendicativo di «movimento operaio nella democrazia»
nella cornice concettuale della democrazia progressiva, o progrediente, i socialdemocratici
europei parleranno di welfare state o
di welfare capitalism.
In effetti la nozione di mercato svolge un ruolo centrale in quelle
che possiamo considerare come le due contrapposte teorie dello stato sociale.
Essa è presente in T. H. Marshall come ancoraggio di uno sviluppo
della cittadinanza in virtù del quale lo stato liberaldemocratico estende
progressivamente il suo ambito di competenza senza tuttavia subire mutamenti sostanziali
nella sua natura di base.
Il linguaggio del diritto (e corrispettivamente quello della
protezione) s'impadronisce di un numero crescente di aspetti della vita sociale
senza che per questo possa entrare in discussione il nesso organico tra sistema
dei diritti ed economia di mercato [15].
In Polanyi troviamo una struttura interpretativa
simmetricamente opposta.
Lo stato sociale è il moto di autodifesa e autoprotezione del
corpo sociale dinanzi al dilagare di un'economia di mercato. Il mercato è
sentito in questa cornice interpretativa come distruttivo del corpo sociale.
Ma proprio per questo esso rimane come punto di riferimento concettuale
insopprimibile nel pensare quel doppio
movimento (sviluppo del mercato e corrispettivamente dell'autodifesa sociale)
che caratterizza intimamente tutte le forme storiche del capitalismo [16].
La mancata percezione di questo doppio movimento sul terreno
delle tendenze storico-strutturali (e il conseguente confinamento del mercato
nei limiti di un «riconoscimento» di ruolo, all'interno di proposizioni
ideologico-politiche sostanzialmente estrinseche rispetto all'apparato
concettuale di base) provoca sulla politica comunista due effetti importanti per
comprendere come una determinata teoria della democrazia non si articoli in una
visione autonoma del governo dello sviluppo.
In primo luogo un'idea di eguaglianza
che non si fa carico del problema della efficienza.
Gli aspetti più vincenti dell'esperimento socialdemocratico
si originano, in definitiva, come abbiamo già visto nel capitolo II, dalla
capacità di mediare queste due istanze certo contraddittorie.
«La questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo
dell'industria - ha scritto Arthur Okun - ha poco a che fare con la libertà, ma
molto con l'efficienza» [17].
In altri termini anche là dove si abbandoni ogni aberrante
tentativo di fornire una giustificazione etico-politica del mercato, rimane
aperto il problema del suo contributo sul terreno dell'efficienza dello sviluppo
produttivo.
In secondo luogo la dissociazione di democrazia e mercato induce
nella politica del Pci una visione non contrattuale dei rapporti tra gruppi
sociali, e quindi un'idea di interesse generale come qualcosa di
necessariamente contraddittorio al conflitto.
Se nel primo caso il complesso delle politiche redistributive
del Pci conosce una finalizzazione unilateralmente politica, nel secondo caso,
soprattutto quando prevalga l'ottica del governo, esse vengono sottoposte a
forme di singolare moderazione, con effetti spesso profondamente negativi dal punto
di vista dei risultati delle politiche di riforma.
Si potrebbe dire, in altri termini, che la politica del Pci
non sembra in grado di fornire la base di una conciliazione e di una convivenza
del «partito di governo» col « partito di lotta», determinando, al contrario,
insistenze unilaterali ora su questo ora su quel termine, con oscillazioni
inevitabilmente brusche, e di tipo pendolare, nella posizione politica.
La rimozione del mercato, nella misura in cui depriva la
cultura del Pci da ogni ancoraggio contrattualistica, implica anche, a nostro
parere, una posizione di debolezza nei confronti del trasformismo.
4. «Parigi val bene una
messa»
Abbiamo non a caso usato i termini con cui nella seconda metà
degli anni '70 il Pci esprime il suo dilemma irrisolto.
Si tratta infatti di vedere rapidamente in che misura
l'esperienza del 1976-78 apporti mutamenti di rilievo all'impianto politico-concettuale
che abbiamo cercato di caratterizzare.
Ci sembra che a partire dalla seconda metà degli anni '70 questo
nesso di problemi faccia definitivamente cortocircuito provocando un
sostanziale vuoto di strategia politica.
I nuovi successi elettorali del Pci provengono infarti
dall'adesione di nuovi strati sociali che esprimono una domanda esplicita di
ricambio politico e di alternativa di governo, sostanzialmente diversa dal «sistema
dei fini» dell'antica subcultura comunista.
Le «nuove contraddizioni» intraviste da Togliatti all'inizio
degli anni '60, allorché egli ha abbandonato la scelta iniziale di un
atteggiamento interlocutorio verso il centrosinistra, si sono ora pienamente
sviluppate [18].
Non c'è stata solo una grande crescita quantitativa e
qualitativa del movimento rivendicativo.
Si è delineato anche un mutamento profondo nello spettro
culturale del paese, che ha fatto emergere interrogativi spesso radicali circa
il sistema delle antiche solidarietà politiche, dando luogo ad una fase di
mobilitazione politica e sociale che è certo la più ampia e profonda dalla
caduta del fascismo.
L'antica saggezza togliattiana consistente nel manovrare dentro il trasformismo sulla
base dei rapporti di forza dati, è ora inadeguata a interpretare una effettiva
crisi politica del centrismo, che chiede soluzioni alternative in tempi
estremamente ravvicinati, ormai completamente difformi rispetto alla indefinita
e indefinibile prospettiva storica in cui è rimasta sempre confinata la «via
italiana al socialismo».
Non si può dire che questa nuova realtà si rifletta nella riformulazione
berlingueriana della politica di unità nazionale, che rimane ancorata, e per certi
aspetti esasperandola, all'antica congiunzione di pessimismo sul presente
politico e di immutata fede nel futuro socialista.
La politica di compromesso storico è complessivamente animata
da due motivi.
Il primo, dominante negli articoli del 1973, è quello
relativo ai modi in cui esercitare una mediazione politica tra la nuova spinta
a sinistra del paese e gli atteggiamenti e i desiderata dello schieramento
conservatore [19].
Il secondo, in qualche misura procedente dal primo, è quello
relativo al carattere catastrofico della crisi come argomento necessario e insostituibile
per motivare l'inclusione del Pci nell'area di governo [20].
Per quanto riguarda la politica interna sembra molto spesso
che il modello del 1944-47 (esistenza di una grande catastrofe nazionale e,
insieme, pesante condizionamento culturale-politico di tipo conservatore
proveniente dall'eredità del ventennio fascista) continui a sovrapporsi sul
presente [21].
L'estrema complessità della situazione in cui si determina il
forte incremento dei suffragi comunisti sbiadisce nella ripetizione di alcuni
luoghi comuni e stereotipi della tradizione.
Può valere per tutti l'esempio di un tema come quello dell'inflazione
che il Pci assume nel 1976 come priorità politica incondizionata.
Una politica di inflazione è contraria agli interessi delle
categorie a reddito fisso (dipendenti dello stato, impiegati, funzionari) - afferma
Togliatti nell'agosto del 1945 - e a quelli del medio e piccolo risparmiatore,
ossia è dunque contraria agli interessi di una parte ingente della popolazione
italiana, che nella sua maggioranza è orientata oggi in senso democratico e che
se venisse rovinata dall'inflazione porrebbe essere gettata nelle braccia delle
correnti reazionarie e fasciste [22].
Si tratta di una vera e propria concessione ad un tipico modulo
einaudiano, che ritroviamo pressoché immutato a distanza di trent'anni nel modo
in cui Berlinguer giustifica la scelta dell'inflazione come punto-chiave del
profilo politico del Pci.
Il rischio è che si precipiti in un'inflazione [...] non più controllabile
[...] se ciò avvenisse l'Italia precipiterebbe nel caos, si solleverebbero
ondate di destra e verrebbe messo in forse lo stesso regime democratico.
Si ricordi sempre a questo proposito che l'inflazione successiva
alla prima guerra mondiale è stata tra le condizioni che hanno creato un
terreno propizio alla riscossa reazionaria che culminò in Italia nel fascismo [23].
Ci si dimentica delle profonde trasformazioni nella struttura
del ceto medio italiano che, alla metà degli anni '70 è, in realtà, in gran
parte economicamente avvantaggiato da una situazione di inflazione.
Ma soprattutto non si trova traccia di quell'analisi del
fenomeno (che abbiamo indicato invece come largamente presente nelle politiche
socialdemocratiche) tendente a ricondurre la corsa dei prezzi al processo di organizzazione
politica delle forze sociali.
In questa prospettiva alla pura e semplice manovra sulla
massa monetaria è possibile sostituire un processo negoziale tra le parti,
saldamente inserito dentro il processo di decisione politica [24].
E tuttavia sarebbe errato vedere il compromesso storico come
una tardiva ripetizione di moduli del passato.
Il terreno su cui si determina una innovazione profonda
rispetto al modello togliattiano è, come è noto, quello della politica estera,
in cui Berlinguer si caratterizza per un revisionismo
radicale.
Conformemente ad un realismo ispirato al vecchio principio
secondo cui «Parigi val bene una messa» il Pci berlingueriano si sbarazza, in
un vero e proprio tour de force, di tutte quelle proposizioni politiche di
natura internazionale che possono ostacolare una sua nuova collocazione di
governo.
Con l'accettazione della Nato non è solo la politica estera che
cessa di essere il terreno più acutamente divisivo della politica italiana.
È tutto l'insieme delle interdipendenze
quale si è sviluppato dal 1945 in poi entro la sfera dell'egemonia americana,
che diviene pane integrante della prospettiva comunista [25].
È il sistema uscito dagli accordi di Jalta, e il regime politico
fondato sul bipolarismo, che viene ora accolto come un dato irreversibile e
immodificabile, e assunto quindi come cornice obbligata di riferimento per ogni
azione innovativa e di trasformazione che il Pci sia in grado di intraprendere.
La via italiana al socialismo perde il suo collegamento obbligato
con l'ipotesi di mutamenti sostanziali nell'insieme del regime internazionale.
Nonostante le riaffermazioni del carattere socialista dei paesi
dell'Europa orientale [26] il Pci viene cosi liquidando quella forma di iperidentità sul terreno dei rapporti
internazionali che lo ha nettamente distinto per più di un trentennio dall'insieme
del socialismo europeo, senza avere nello stesso tempo la possibilità, e il
tempo, di produrre modifìcazioni significative nel modo in cui guardare, sul
piano interno, alla prospettiva di governo.
Sospinto dalla logica delle cose il Pci manomette
l'equilibrio togliattiano, senza tuttavia riuscire a crearne uno nuovo.
La lunga insistenza che si farà in quegli anni sul tema della
«diversità» e della «terza via» sembra interpretabile come ricerca di soluzioni
ideologiche ad un problema di identità ormai risolvibile solo all'interno di
una dimensione politico-programmatica, quale si definisce essenzialmente attorno
al tema del governo dello sviluppo [27].
Bisogna aggiungere che sollecitazioni positive in questo senso
non giungeranno nemmeno da quella parte che nel dibattito politico nazionale
viene costantemente indicata come l'ala «socialdemocratica» del Pci.
I due aspetti principali della posizione difesa da Giorgio
Amendola - più marcata affiliazione ideologica all'Urss e pronunciata disponibilità
ad una politica di deflazione da scambiare con prestigio politico nazionale - sembrano, in realtà riproporre una
interpretazione del togliattismo più conservatrice di quella berlingueriana,
che la coalizione centrista può indicare, a più riprese, come la più moderna ed
«europea» perché sostanzialmente interna alla strategia del «liberalismo
ristretto».
__________
Note:
[1]
G.
Sorel, Matériaux d'une théorie du
prolétariat, Paris 1919; vedi in particolare l'introduzione.
[2]
L.
Hart, La tradizione liberale in America,
Milano 1960.
[3]
Pizzorno,
I soggetti del pluralismo cit., pp.
99-154.
[4]
Vale
la pena di rileggere quello che ha scritto di recente un protagonista di questa
politica: «Ci sembrava che la crisi economica e politica, culturale e morale,
della società italiana richiedesse la formazione di un governo di larga
coalizione. Ponevamo cioè l'esigenza di un governo di emergenza, che fosse capace, con un programma di emergenza, di affrontare problemi acuti
sul piano economico e su quello democratico. Anche in altri paesi europei (come
la Germania Federale) si era fatto ricorso, in un certo periodo, a governi di
larga coalizione, senza che passasse per la mente dei socialdemocratici
tedeschi o di altri alcuna idea paragonabile a quella del compromesso storico.
In Italia c'era, in più, per noi, e per il funzionamento normale della
democrazia, un altro problema: quello di riuscire a superate nei fatti una
discriminazione politica nei nostri confronti» (G. Chiaromonte, Il significato del compromesso storico,
in «Critica marxista », 1985, n. 2-3, pp. 75-76).
[5]
È
evidente che non ci proponiamo in alcun modo una ricostruzione esauriente delle
formulazioni teoriche della politica comunista, ma solo qualche fugace richiamo
a momenti importanti per l'analisi che cerchiamo di prospettare.
[6]
Gramsci,
Socialismo e fascismo, Torino 1966,
p. 51.
[7]
Id.,
Note sul Machiavelli, in Quaderni del carcere, Roma 1977, p. 51.
Per tutto il problema della critica gramsciana dello stalinismo rimandiamo a
Paggi, Le strategie del potere in Gramsci
cit., capp. VII e VIII.
[8]
Togliatti e il centrosinistra, Firenze 1975, p. 977.
[9]
Su
questo tema cfr. P. lngrao, «Via italiana»
o «vie nazionali al socialismo»?, in «Critica marxista», 1985, n. 4.
[10]
Per
questa posizione, del resto assai diffusa, vedi, ad esempio, G. E. Rusconi, La strada stretta della socialdemocrazia
tedesca, in «Politica ed economia», 1985, n. 12.
[11]
Uno
svolgimento storico-sistematico di questa tesi, con spunti analitici spesso
interessanti, si trova in A. Wolfe, I
confini della legittimazione. Le
contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, Bari 1981. Sul
piano teorico il tema è stato elaborato, come è noto, da Habermas e Offe. Di
quest'ultimo vedi ora la raccolta di saggi, Contradictions
of the Welfare State, Boston 1985. Il contrasto tra legittimazione e
accumulazione viene qui fondato essenzialmente sull'idea che l'intervento dello
stato sia portatore di una logica antitetica a quella del mercato, tale cioè da
innescare processi di demercificazione.
Ci sembra di contro che lo stato sociale: 1) sia certamente espressione di una
perenne ambiguità, nel senso che alla logica della sicurezza e della protezione
ne unisce una opposta volta alla soddisfazione « disinteressata» dei bisogni;
ma che 2) questa ambiguità non possa in alcun modo essere assunta come
introduzione di una diversa logica sociale, che «sospende le relazioni di
mercato» (p. 142). Del resto, se l'intervento dello stato, inevitabilmente
basato e agito dal principio di
esclusione insito nella relazione contrattuale da cui si origina, aprisse la
strada ad un nuovo modo di produzione, allora lo stesso esperimento sovietico
dovrebbe essere assunto per ciò che esso ha sempre detto di sé, ossia come
ingresso, di fatto, nell'epoca del socialismo. Rimandiamo comunque per questo
insieme di questioni teoriche a Paggi e Pinzauti, Pace e sicurezza cit., passim.
[12]
Vedi
rispettivamente A. Downs, Economic Theory
of Democracy, New York 1957 e K. Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell'economia, vol. I, Firenze 1968, pp. 207-21.
[13]
Gramsci,
L'ordine nuovo, Torino 1954, p. 14.
[14]
E.
Fraenkel, Il doppio Stato, Torino
1985.
[15]
T.
H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale,
T orino 1976.
[16]
Polanyi,
La grande trasformazione cit., p. 98.
Ma per l'insieme della critica di Polanyi è estremamente importante lo scritto
del 1947, Our Obsolete Market Mentality,
in Primitiv, Archaic, and Modern
Economies, New York 1968, pp. 59 sgg.
[17]
Okun, Equality and Efficiency: The Big Trade Off, Washington (D.C.) 1975,
p. 61.
[18]
Togliatti e il centrosinistra cit., p. 1230: «Accanto ad una
spinta demografica e ad una spinta che verrà dall'avanzata delle tecniche produttive,
vi sarà una spinta rivendicativa potente nei prossimi anni, e le rivendicazioni
saranno sì di quantità, ma anche di qualità, probabilmente e quasi certamente
differenziate, rispetto alla qualità, dalle rivendicazioni che sono state
avanzate finora. È qui la chiave della svolta che rivendichiamo, perché questa spinta
rivendicativa, se dovrà avere soddisfazione - e dovrà averla perché altrimenti
ci sarà un aggravamento di rutti i contrasti, di tutte le contraddizioni
sociali - dovrà averla in modo nuovo, con delle soluzioni economiche,
organizzative, politiche nuove, diverse da quelle adottate finora».
[19]
Dei
tre articoli pubblicati su «Rinascita» il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre
1973 questa è probabilmente l'affermazione centrale: «Un grosso problema che ci
impegna in sede politica [...] è come far sì che un programma di profonde
trasformazioni sociali - che determina necessariamente reazioni di ogni tipo da
parte dei gruppi retrivi - non venga effettuato in modo da sospingere in
posizioni di ostilità vasti strati di ceti intermedi, ma riceva invece, in
tutte le sue fasi, il consenso della grande maggioranza della popolazione».
Dopo aver riaffermato la necessità di grandi alleanze, si continua: «D'altra
parte la contrapposizione e l'urto frontale fra i partiti che hanno una base nel
popolo, e dai quali masse importanti della popolazione si sentono
rappresentate, conducono a una spaccatura, a una vera e propria scissione in
due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi
stesse della sopravvivenza dello stato democratico».
[20]
Dei
molti luoghi che si potrebbero citare, vale ricordare, per la sua chiarezza, il
saggio di Amendola, Coerenza e severità
cit., in cui si sostiene che dinanzi ad una inevitabile tendenza della Democrazia
cristiana ad appoggiarsi ad una ripresa di congiuntura per riacquistare
maggiore libertà di manovra politica, il movimento operaio deve sottolineare la
gravità della crisi e rendersi quindi immediatamente disponibile a pagare i
prezzi necessari.
[21]
Con
un lungo saggio di Tobias Abse, Judging
the Pci, il n.153 della «New Left Review» (1985) apre ufficialmente le
ostilità contro un'opinione largamente presente nella sinistra laburista secondo
cui il Pci poteva rappresentare, comparativamente con il Labour Party, un
esempio positivo di coerenza strategica e di efficacia politica. Della caduta
dei miti non ci si deve dolere. Non ci sembra però che il saggio, che si
conclude con la prospettazione di uno scenario alternativo consistente in una
maggioranza laica comprendente oltre al Pci, repubblicani, socialisti e radicali
riesca a cogliere sia la profondità di radici che la scelta di compromesso
storico ha nel political discourse del
Pci, sia l'ampiezza delle opposizioni espresse dal ceto capitalistico italiano,
non certo aggirabili solo con una diversa maggioranza politica.
[22]
Sono
affermazioni fatte al convegno economico del Pci nell'agosto del 1945, ora in
A. Graziani, L'economia italiana: 1945-1970,
Bologna 1972, p. 112.
[23]
Togliamo
la citazione dal saggio di P. Lange, Il
Pci e i possibili esiti della crisi italiana, in La crisi italiana cit., p. 671, che offre una ricostruzione tuttora
assai utile della politica comunista nella seconda metà degli anni '70.
[24]
Rimandiamo
ancora, come esemplificativo di una diversa impostazione analitica, al volume
curato da Hirsch e Goldthorpe, The
Political Economy of
Inflation cit.
[25]
Un'ottima
ed esauriente rassegna dell'insieme delle proposizioni con cui il Pci viene in
questi anni ridefinendo la sua posizione all'interno del «mondo occidentale» in
R. Putnam, The Interdependence and the Italian
Communism, in «International Organization», vol. 32 (1978), n. 2.
[26]
Come
è noto il mutamento di giudizio sull'Urss si avrà solo dopo il colpo di stato
in Polonia.
[27]
È
questo il tema su cui insiste programmaticameme G. Napolitano, In mezzo al guado, Roma 1979, nella
introduzione premessa alla raccolta di saggi.
[FINE]