domenica 12 ottobre 2014

Una politica tributaria per la prosperità




Beardsley Ruml

Tax Policies for Prosperity

The Journal of Finance, Vol. 1, No. 1 (Aug., 1946), pp. 81-90.



Una politica tributaria per la prosperità

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Il nostro primo obiettivo oggi - l’organizzazione di una pace mondiale giusta e duratura - richiede che le relazioni economiche mondiali siano stabilite a partire dalle necessità dell’umanità e dalla necessità di ordine.

Per il successo di tutti questi piani internazionali è universalmente riconosciuto come indispensabile un elevato livello di occupazione e di produzione negli Stati Uniti.
Con una grande prosperità, avremo bisogno di grandi importazioni di materie prime, e troveremo il modo di ottenere per noi stessi i vantaggi economici derivanti da minori dazi sui generi alimentari e sui prodotti manifatturieri.
Con una grande prosperità, saremo meno avidi di mercati di sbocco all’estero [foreign outlets] che impegnino la nostra capacità produttiva in eccesso e saremo più desiderosi di vedere che le nostre esportazioni sono dirette a soddisfare le necessità più essenziali del mondo.
Con una grande prosperità, ridurremo più facilmente quelle pratiche restrittive e quei pregiudizi discriminatori che nascono dalla paura e generano disprezzo e odio.

Il primo requisito per la prosperità sono quegli elementi basilari dai quali dipende tutta la produzione: le materie prime, un’energia poco costosa e ampiamente disponibile, un sistema di trasporti affidabile, una moneta solida, e una abbondanza e varietà di abilità umane - scientifiche, meccaniche, artistiche, e gestionali.
Gli Stati Uniti sono ben forniti di questi requisiti di base per la prosperità.
Non siamo così completamente forniti di questi elementi da poterci isolare dal resto del mondo senza una perdita economica e culturale, ma siamo abbastanza forniti da poter accedere con il commercio a ciò di cui abbiamo bisogno e che desideriamo.

Il secondo requisito della prosperità è l’organizzazione di questi elementi di base in un sistema funzionale di produzione e distribuzione [working pattern of production and distribution].
Oggi vediamo chiaramente che, anche se tutto il resto è organizzato, non è di alcuna utilità a meno che non abbia un armonioso e accettabile fondamento in relazioni di lavoro [labor relations] soddisfacenti.
I conflitti che oggi si manifestano non sono così semplici come talvolta sono descritti: come una controversia tra due avversari, il capitale e il lavoro.
Oggi esistono quattro parti direttamente interessate dal conflitto - i proprietari, gli amministratori, i leader dei lavoratori, e i lavoratori - con milioni di lavoratori non organizzati e piccoli imprenditori ai margini ma niente affatto al di fuori della zona di pericolo nella quale si può incorrere in lievi danni o disastri.
L’obiettivo di fondo nel campo delle relazioni di lavoro non è diverso dall’obiettivo di fondo nel campo delle relazioni internazionali; e cioè eliminare l’uso della forza dalla composizione delle liti e di stabilire al suo posto un sistema legislativo e giudiziario basato sul consenso [a system of law and justice based on consent].
Non possiamo aspettarci di eliminare le controversie e le dispute ma possiamo ridurne il numero e fare in modo che le composizioni di esse siano raggiunte sulla base di principi riconosciuti, applicati con giustizia e fatti rispettare adeguatamente.

In questo periodo di tensioni teniamo bene a mente che quello che vogliamo fondamentalmente è eliminare l’uso della forza nella composizione delle liti tra gli uomini in tutti i campi, in patria e all’estero.
Quindi desideriamo portare nel campo delle relazioni di lavoro, per la composizione delle liti quando esse sorgono, un sistema di leggi riconosciute e una giustizia imparziale amministrata in un’atmosfera di consenso.
Solo in questo modo possiamo ottenere quell’elevato livello di prosperità produttiva nella democrazia [productive prosperity under democracy] che abbiamo posto come nostro obiettivo.

Il terzo requisito per la prosperità è il mantenimento di una domanda adeguata, effettiva, per i prodotti e i servizi che siamo in grado di produrre.
Anche se abbiamo tutti gli elementi di base per la produzione e li abbiamo organizzati in modo tale da poter realizzare una produzione abbondante, senza una domanda effettiva che porti questi prodotti al loro consumo, i canali della distribuzione si ostruiranno, i mezzi di produzione diventeranno inoperosi, la disoccupazione di massa apparirà, e la prosperità scomparirà.

Oggi sperimentiamo una domanda senza precedenti per i prodotti industriali e agricoli.
Questa domanda è il risultato di molti anni di scarsità e di un enorme potere di acquisto nelle mani delle persone.
La domanda infatti è così grande che molte restrizioni sono necessarie per impedire che essa si esprima in un incremento inflazionistico dei prezzi.
In un periodo come quello attuale, nel quale la domanda effettiva è così grande che regolamenti e controlli sono ancora necessari per prevenire l’inflazione, è facile dimenticare che per tutti gli anni Trenta, e probabilmente anche durante gli anni Venti, la domanda effettiva non è stata sufficiente per movimentare tutti i prodotti che il settore industriale e quello agricolo avrebbero potuto produrre.
E’ facile dimenticare che non sono state attuate neppure quelle correzioni delle politiche e delle pratiche passate che potrebbero assicurarci che periodi simili non si ripeteranno.
E’ per questa ragione che c’è la necessità di considerare la politica fiscale nazionale come il principale strumento che può aiutarci a mantenere una condizione di grande prosperità.

L’importanza della politica fiscale nazionale nell’ottenere e mantenere un elevato livello di prosperità è così grande che ci sono alcune persone che sopravvalutano quello che la politica fiscale può fare, e che danno l’impressione che una solida politica fiscale di per se stessa sia una panacea per tutti i nostri malanni economici.
Questo, ovviamente, è molto lontano dal vero.
Le misure della politica fiscale possono liberare la strada e possono essere d’aiuto, non possono produrre beni e servizi, non possono dare occupazione.
Esse possono creare una situazione nella quale un elevato livello di occupazione diviene possibile perché l’industria, il lavoro e l’agricoltura trovano la strada.
Ma tutte le condizioni favorevoli relative agli elementi di base e all’organizzazione degli uomini e dei materiali per la produzione sono inutili se la domanda effettiva è insufficiente per mantenere in moto gli ingranaggi.

Dobbiamo riconoscere che l’obiettivo della politica fiscale nazionale è soprattutto quello di mantenere solida la moneta ed efficienti le istituzioni finanziarie; ma coerentemente con questo scopo di base, la politica fiscale deve e può contribuire molto all’ottenimento di un elevato livello di occupazione produttiva e di prosperità.

Se una politica fiscale nel complesso costruttiva deve essere approvata con leggi e applicata dall’amministrazione, le misure correttive necessarie devono essere adottate dallo Stato sia nel ramo legislativo che in quello esecutivo.
In questo momento, anche se si raggiungesse un accordo per una politica fiscale e monetaria complementare o integrativa dell’attività delle imprese private, non ci sarebbe la possibilità di renderla operativa o effettiva nell’attuale organizzazione dello Stato federale.

Poiché la politica tributaria [taxation] è una delle più importanti parti della politica fiscale, discutiamo dei principi della politica tributaria dello Stato.

Durante la guerra abbiamo imparato molte cose sull’imposizione tributaria nella sua relazione con la politica fiscale.
Se guardiamo alla storia finanziaria degli anni recenti è evidente che le nazioni sono state capaci di pagare i propri conti anche se i loro proventi tributari sono stati minori delle spese.
Quelle nazioni le cui spese sono state maggiori degli incassi derivanti dalle imposte hanno pagato i loro conti prendendo in prestito il denaro necessario.
Prendere in prestito il denaro, perciò, è un’alternativa che gli Stati impiegano per integrare i proventi dell’imposizione fiscale al fine di ottenere i mezzi necessari per il pagamento delle loro spese.

Un governo che dipende dai prestiti e dal rimborso di questi prestiti per ottenere il denaro di cui ha bisogno per le sue attività è necessariamente dipendente dalle fonti dalle quali il denaro può essere ottenuto.
In passato, se un governo persisteva nell’indebitarsi pesantemente per coprire le sue spese, i tassi di interesse diventavano sempre più elevati, e il governo doveva offrire sempre maggiori incentivi ai prestatori.
Questi governi alla fine scoprivano che l’unico modo in cui potevano mantenere sia la loro indipendenza che la loro solvibilità era di imporre tributi abbastanza pesanti da soddisfare una parte notevole delle loro necessità finanziarie, e di essere pronti - nel caso in cui fossero stati posti sotto pressione - a imporre tributi ancora maggiori per soddisfarle tutte.

La necessità per un governo di imporre tributi per mantenere sia la sua indipendenza che la sua solvibilità è ancora vera per una amministrazione pubblica locale ma non è più vera per un governo nazionale.
Due cambiamenti della massima rilevanza sono accaduti negli ultimi venticinque anni che hanno modificato sostanzialmente la posizione degli Stati nazionali rispetto al finanziamento delle loro necessità correnti.
Il primo di questi cambiamenti è stato l’accumulazione di una vasta esperienza nella gestione delle banche centrali.
Il secondo cambiamento è stato l’eliminazione, per gli scopi interni, della convertibilità della moneta in oro.

Ogni Stato nazionale nel quale esista una istituzione che funzioni come una moderna banca centrale, e la cui moneta non sia convertibile in oro o in un’altra merce, ha oggi conquistato la libertà assoluta dal mercato dei capitali interno.

Gli Stati Uniti sono uno Stato nazionale che ha una sistema bancario centrale, il Federal Reserve System, e la cui moneta per gli scopi interni non è convertibile in oro o in un’altra merce.
Ne consegue che il nostro governo federale è assolutamente libero dal mercato dei capitali nel soddisfare le sue necessità finanziarie.
Perciò oggi, nel decidere la politica tributaria, si devono considerare innanzitutto le conseguenze economiche e sociali di ciascuno e di tutti i tributi.
Gli Stati nazionali non devono più imporre tributi per procurarsi i mezzi per far fronte alle loro spese.
Perciò, dato che tutti i tributi hanno conseguenze sociali ed economiche, il governo deve considerare queste conseguenze nella formulazione della sua politica tributaria.
Tutti i tributi devono essere giudicati alla luce della politica nazionale e dei loro effetti pratici.
Lo scopo politico che si intende raggiungere con determinati tributi non deve mai essere nascosto sotto la maschera della necessità di incrementare le entrate dello Stato.

I tributi possono essere imposti per raggiungere quattro principali scopi di carattere sociale ed economico.
Questi scopi sono:
  1. facilitare la stabilizzazione del potere di acquisto della moneta, impiegando i tributi come uno strumento della politica fiscale;
  2. esprimere la politica pubblica per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza e del reddito, come avviene nel caso delle imposte progressive sul reddito e sul patrimonio;
  3. esprimere la politica pubblica sussidiando o penalizzando i diversi settori industriali e gruppi economici;
  4. isolare e valutare direttamente i costi di certi servizi nazionali, come le autostrade e la previdenza sociale.

Nel passato recente, abbiamo impiegato il nostro programma di tributi federali consapevolmente per ciascuno di questi scopi.
Nel perseguimento di questi scopi, la politica tributaria è un mezzo per raggiungere un fine.
Gli scopi stessi sono una questione fondamentale di politica nazionale e devono essere stabiliti, in prima istanza, indipendentemente da ogni programma tributario nazionale.

Con ogni probabilità, il più importante singolo scopo che deve essere perseguito con l’imposizione dei tributi è il mantenimento di una moneta che abbia un potere di acquisto stabile nel corso degli anni.
Talvolta questo scopo è affermato come “evitare l’inflazione”; e senza l’impiego dei tributi tutti gli altri strumenti di stabilizzazione, come la politica monetaria e il controllo dei prezzi e i sussidi, sono inutili.
Tutti gli altri mezzi, in ogni caso, devono essere integrati con la politica tributaria se dobbiamo avere domani una moneta che abbia un valore prossimo a quello che essa ha oggi.

La guerra ha insegnato al governo e il governo ha insegnato al popolo, che i tributi hanno molto a che fare con l’inflazione e la deflazione, con i prezzi che devono essere pagati per i beni che sono acquistati e venduti.
Se i tributi sono insufficienti, o del tipo sbagliato, il potere di acquisto nelle mani del pubblico è probabilmente maggiore della produzione di beni e servizi con la quale questa domanda di acquisto può essere soddisfatta.
Se la domanda diviene troppo grande, il risultato sarà un incremento dei prezzi, e non ci sarà un incremento proporzionale nella quantità dei beni posti in vendita.
Questo significherà che la moneta varrà meno di quanto valesse prima.
Questa è l’inflazione.
D’altra parte, se i tributi sono troppo pesanti o del tipo sbagliato, il potere di acquisto effettivo nelle mani del pubblico sarà insufficiente per acquistare dai produttori di beni e servizi tutto quello che questi produttori vorrebbero realizzare.
Questo significherà una diffusa disoccupazione.
In breve, l’idea sottostante la nostra politica tributaria deve essere questa: che i nostri tributi devono essere abbastanza elevati da proteggere la stabilità della nostra moneta, e non più elevati di così.
Da un altro punto di vista, i nostri tributi devono essere ridotti finché è possibile senza esporre il valore del nostro denaro al rischio di inflazione.
Minori sono i nostri tributi e maggiore sarà il potere di acquisto che sarà rimasto disponibile nelle mani delle persone - denaro che possono spendere per i beni che desiderano acquistare o che può essere risparmiato e investito in qualsiasi modo decidano.

Segue dunque da questo principio che le nostre aliquote fiscali [tax rates] possono e devono essere abbassate fino al punto in cui il bilancio statale sarà in pareggio in corrispondenza con quel livello di occupazione che noi consideriamo un soddisfacente livello di elevata occupazione.
Se noi fissiamo le nostre aliquote fiscali a un livello maggiore di questo, riduciamo senza alcuna necessità il denaro che gli individui potranno spendere e investire, e perciò rendiamo per noi più difficile il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e il suo mantenimento.
C’è un ampio consenso sul fatto che un soddisfacente elevato livello di occupazione negli Stati Uniti, dopo la guerra, corrisponda a un reddito nazionale, agli attuali livelli dei prezzi, pari ad almeno 140 miliardi di dollari, e quindi noi dobbiamo fissare le nostre aliquote fiscali in modo tale da portare in pareggio il bilancio in corrispondenza con un reddito nazionale di 140 miliardi di dollari, e non di 120 miliardi o inferiore.
Non vogliamo che il nostro sistema tributario lavori contro di noi lungo tutto il percorso verso il raggiungimento di un elevato livello di occupazione.
In realtà, potremmo non raggiungere mai un elevato livello di occupazione se stabiliamo delle aliquote fiscali troppo elevate.

Ovviamente, i tributi devono essere ridotti dove la riduzione darà il maggiore beneficio nel creare la domanda dei consumatori e nell’incoraggiare gli investimenti privati.

I primi tributi che devono essere eliminati sono le imposte sul consumo - tranne che quando queste siano imposte per scopi di regolamentazione.
Se è vero che il nostro primo obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita delle masse, quale migliore strada può essere individuata del lasciare alle persone il reddito che è già nelle loro mani?
Quale metodo per restituire alle persone potere di acquisto è altrettanto accettabile dal punto di vista politico del lasciare innanzitutto loro quello che hanno?

Poi, e ad alcuni questa sembra una conclusione curiosa, l’imposta sui redditi delle società deve essere abolita.
Nello stesso tempo, devono essere adottate le misure necessarie per impedire che l’impiego delle società per lo svolgimento delle attività economiche possa essere un mezzo per evitare il pagamento delle imposte sui redditi individuali o per costituire delle riserve non necessarie e non utilizzate, o per acquisire dei vantaggi tributari nei confronti di coloro che esercitano le attività economiche senza ricorrere a società.

Infatti, dopo le imposte sul consumo e le accise, le imposte sui redditi delle società sono quelle che pesano di più sulle condizioni di vita delle persone; e nello stesso tempo ostacolano il flusso dei risparmi verso gli investimenti.

E’ impossibile sapere esattamente chi paga e quanto paga delle imposte sui profitti delle società.
L’azionista paga una parte di esse, nella misura in cui il ritorno sul suo investimento è minore di quello che sarebbe se non ci fossero imposte.
Ma è ugualmente certo che l’azionista non paga tutta l’imposta sui redditi delle società.
In realtà potrebbe pagarne una parte minima.
Dopo un certo periodo di tempo, l’imposta sui redditi delle società è considerata come uno dei costi della produzione ed è traslata in prezzi più elevati praticati per i beni e i servizi offerti dalla società, e in salari minori, nonché in condizioni di lavoro peggiori di quelle che potrebbero essere altrimenti.

Le ragioni per le quali l’imposta sui redditi delle società è traslata devono essere comprese chiaramente.
Nella attività di una società, il management, mosso dalla ricerca dei profitti, mantiene sotto controllo quanto rimane del profitto sul suo capitale investito.
Dato che la società deve pagare l’imposta sul suo reddito prima che si abbiano i profitti netti, le imposte sono considerate - come ogni altra spesa non controllabile - come un onere che deve essere coperto con prezzi più elevati o con costi minori.
Dato che tutte le imprese in competizione nello stesso segmento del mercato ragionano nello stesso modo, i prezzi e i costi tenderanno a stabilizzarsi a un livello che produrrà un profitto, dopo le imposte, sufficiente per dare alle imprese l’accesso a nuovo capitale a un prezzo ragionevole.
Quando questo finalmente avviene, come deve avvenire se il settore deve mantenersi in piedi, l’imposta sui redditi delle società sarà stata largamente assorbita da prezzi più elevati e da salari minori.
L’effetto dell’imposta sui redditi delle società è perciò quello di innalzare i prezzi e di ridurre i salari di un ammontare indeterminabile.
Entrambe le tendenza sono nella direzione sbagliata e sono dannose per il benessere pubblico.

Il governo può permettersi di cancellare l’imposta sui redditi delle società?
Questa non è davvero la questione.
La questione è questa: l’imposta sui redditi delle società è un modo vantaggioso di applicare tributi alle persone - i consumatori, i lavoratori, gli investitori - che dopo tutto sono gli unici veri contribuenti?
E’ chiaro da ogni punto di vista che gli effetti dell’imposta sui redditi delle società sono pessimi.
Gli scopi pubblici che la politica tributaria deve servire non sono perciò serviti bene.
L’imposta è incerta nei suoi effetti con riferimento alla stabilizzazione della moneta, ed è ingiusta come parte di una imposizione progressiva sul reddito individuale. Essa tende ad innalzare i prezzi dei beni e dei servizi. Essa tende a mantenere i salari a un livello minore di quello che raggiungerebbero altrimenti
Essa riduce il rendimento degli investimenti e ostacola il flusso dei risparmi verso le imprese.
L’eliminazione della imposta sui redditi delle società dal sistema tributario incrementerà l’efficacia delle nostre politiche fiscali e monetarie e, ampliando i mercati dei beni e dei servizi, rafforzerà le imprese nel loro compito di produrre beni, fornire occupazione, e dare alle persone un posto dove i loro risparmi possano essere investiti.

Una volta che il sistema tributario sarà stato riformato dopo la guerra, dovrà essere compiuto ogni sforzo per mantenerlo semplice e comprensibile.
Una continua modificazione della struttura dei tributi produce solamente confusione, incertezza, e una costosa amministrazione.

Anche se dobbiamo accettare l’esistenza di deficit quando c’è disoccupazione, essi saranno strettamente proporzionati all’emergenza.
La politica tributaria suggerita non prevede deficit permanenti di bilancio come un elemento necessario nell’economia.
Al contrario, i disavanzi pubblici consentono di mantenere quella grande espansione dell’attività economica privata che sarebbe impedita dalla riduzione del debito pubblico.
Queste politiche non richiedono, né giustificano, la spesa fine a se stessa, né approvano le spese inutili.

Ho affermato che la politica tributaria di base è: ridurre i tributi in modo tale da portare il bilancio in pareggio in corrispondenza di un elevato livello di occupazione, in corrispondenza di un elevato livello di occupazione. [La ripetizione è dell'Autore]
Questa semplice affermazione richiede alcuni chiarimenti per essere applicata in modo appropriato nel decidere la politica da attuare.
Il fatto è, e lo confesso senza vergogna, che il termine “bilancio” [budget] è estremamente ambiguo; e non lo userei affatto se un altro termine, che ora definirò, fosse capito e accettato da tutti.

Innanzitutto, dobbiamo riconsiderare quello che intendiamo con il termine “bilancio”.
Nell’interesse della chiarezza, propongo che il termine “bilancio” sia confinato a quegli strumenti finanziari che di volta in volta ricadono sotto la giurisdizione del direttore del bilancio federale.
Questa concezione, sebbene chiara e precisa, limita l’importanza del bilancio per la politica fiscale e monetaria, a una posizione subordinata, per quanto importante.

E’ evidente che il “bilancio” in questo senso non ha un significato economico, né monetario, né finanziario, tranne che per il fatto che è parte di un insieme più ampio.
La sua importanza è di carattere amministrativo, e il pareggio di questo bilancio non è altro che il pareggio dei conti che si è deciso di tenere insieme per convenienza amministrativa.
Non c’è perciò alcun problema di carattere economico o finanziario associato con il bilancio come è stato definito qui.

E’ possibile tuttavia, estendere il concetto di bilancio, cioè della pianificazione finanziaria, per includere tutte le transazioni finanziarie dello Stato.
Chiamiamo questo concetto più ampio “superbilancio” [superbudget].
Il superbilancio includerebbe non solo il bilancio come lo abbiamo definito, ma anche la previdenza sociale e altri conti fiduciari, incluse le attività correnti di diverse società pubbliche, come la Export-Import Bank e la Commodity Credit Corporation, che oggi non sono incluse nel bilancio.
Il termine “superbilancio” non deve essere inteso come una indicazione qualsivoglia della sua dimensione assoluta ma solo della sua completezza.

Il governo può integrare in un unico schema la totalità delle sue transazioni finanziarie, e di conseguenza acquisire la capacità di giudicare ciascuna transazione rispetto a un’altra e ciascuna transazione nei confronti del tutto.
Il Governo potrebbe perciò sviluppare una politica con riferimento al superbilancio e questa politica, quando esista, potrebbe essere indicata come la politica fiscale del governo.
La politica fiscale, dal momento che si applicherebbe al superbilancio, includerebbe, come sue componenti, la politica di bilancio, la politica tributaria, la politica del credito interna e internazionale, la politica dell’indebitamento, e così via, e trascenderebbe queste particolari politiche riunendole nel superbilancio complessivo.

Per comprendere come il superbilancio sia collegato con l’attività economia e finanziaria della comunità nazionale, è necessario fare una ulteriore distinzione tra quelli che possono essere chiamati il superbilancio “della moneta” e il superbilancio “del reddito”.
Il superbilancio “della moneta” è quello che vediamo se prendiamo una copia stampata del superbilancio. Esso consisterebbe della descrizione delle voci in entrata e in uscita e degli importi in dollari associati a ciascuna di esse. Questo superbilancio della moneta è quindi una proiezione delle transazioni finanziarie pianificate e in quanto tale ha un significato principalmente finanziario.

Ma oltre ad essere una proiezione delle transazioni finanziarie, sotto la superficie del superbilancio c’è anche una proiezione dei suoi effetti sul reddito nazionale.
Il carattere di questa proiezione non è evidente nelle cifre superficiali del superbilancio, e può essere giudicato solo con una stima di ciò che c’è sotto, cioè con lo sviluppo di un superbilancio “del reddito”.
Il superbilancio del reddito, essendo una proiezione degli effetti desiderati sul reddito nazionale, ha un significato che è principalmente economico.

Il superbilancio della moneta può essere redatto precisamente; il superbilancio del reddito può essere predisposto solo approssimativamente entro ampi margini di errore.
Tuttavia, nonostante questo carattere approssimato del superbilancio del reddito, la politica fiscale deve tenere conto di entrambi, perché sono di natura diversa e non possono essere impiegati in modo intercambiabile.

L’ampiezza dell’effetto sul reddito di ogni categoria di entrate o di spese sarà differente di volta in volta, esso potrebbe in realtà essere positivo o negativo considerando alcuni tipi di transazioni finanziarie.
Ovviamente, la scelta di un determinato valore per una determinata transazione finanziaria in un certo istante temporale deve basarsi su di un giudizio derivante dall’esame e dell’analisi di quella evidenza statistica o qualitativa che può essere o può diventare disponibile.

Esiste un certo scetticismo in molti ambienti sulla possibilità di costruire un superbilancio del reddito perché gli effetti sul reddito non sono noti precisamente e potrebbero non essere mai conosciuti.
Questo scetticismo è giustificato se è inteso come un avvertimento contro il considerare il superbilancio del reddito con la stessa certezza con la quale si considera il superbilancio della moneta, o quasi con la stessa certezza; lo scetticismo non è giustificato se scoraggia lo studio delle conseguenze logiche delle decisioni finanziarie rese evidenti con la predisposizione del superbilancio della moneta; o se ci impedisce di trarre conclusioni ampie a proposito della politica fiscale desiderabile, sia pure all’interno di ampi margini di errore.

Come risposta finale a coloro che obiettano contro l’uso del superbilancio del reddito a causa del suo carattere necessariamente approssimato, si deve notare che gli effetti sul reddito delle transazioni finanziarie esistono sia che esse siano stimate o no, e che la realtà economica svelata del superbilancio del reddito esiste, sia che esso sia stato predisposto o no.
Conseguentemente, le deduzioni riguardanti la politica fiscale e il reddito nazionale tratte dalle cifre del superbilancio della moneta sono di fatto basate sulla più improbabile delle assunzioni, e cioè che il superbilancio della moneta e quello del reddito siano identici e che possano essere utilizzati l’uno al posto dell’altro; o, per dirlo in un altro modo, che tutte le entrate e tutte le spese abbiano gli stessi effetti sul reddito. Questo è, a mio parere, ovviamente falso.

Le definizioni, distinzioni e deduzioni compiute sinora possono essere riassunte così:
1.        Il termine “bilancio” è stato limitato alle sole transazioni finanziarie previste sotto la giurisdizione del Ministero del bilancio, e il termine “superbilancio” è stato introdotto per riferirsi alla totalità delle transazioni finanziarie sotto il controllo dello Stato.
2.        Le questioni di politica fiscale sono connesse non con il bilancio ma con il superbilancio, dal momento che è nel superbilancio che si proietta l’impatto finanziario complessivo dello Stato sull’economia; da questo impatto si possono dedurre le conseguenze economiche; e nel potere di variare l’impatto finanziario, e quindi le conseguenze economiche, si può esprimere la politica fiscale nazionale.
3.        Con riferimento al superbilancio abbiamo distinto tra il superbilancio della moneta e il superbilancio del reddito. (a) Il superbilancio della moneta è una proiezione delle transazioni finanziarie pianificate e come tale ha un’importanza principalmente finanziaria. (b) Il superbilancio del reddito, che deriva dal superbilancio della moneta, è una proiezione dell’impatto in termini di effetti sul reddito nazionale e come tale ha un’importanza principalmente economica.
4.        A causa del variare degli effetti sul reddito dei diversi elementi del superbilancio, il superbilancio della moneta e il superbilancio del reddito non sono la stessa cosa e non possono essere utilizzati l’uno al posto dell’altro.
5.        Perciò, le questioni della politica fiscale devono essere esaminate separatamente nei loro effetti sull’uno e sull’altro superbilancio.

La maggior parte delle controversie riguardanti la politica fiscale nazionale scaturiscono dall’incapacità di distinguere tra (a) il superbilancio della moneta, e (b) il superbilancio del reddito, e di separare le questioni che sono rilevanti per l’uno da quelle che sono rilevanti per l’altro.

Possiamo ora riformulare i principi della nostra politica tributaria così: le aliquote fiscali devono essere fissate in modo tale da portare in pareggio il superbilancio del reddito ad un elevato livello di occupazione, ad un elevato livello di occupazione.

Lasciatemi ripetere che la nostra preoccupazione a proposito della politica fiscale, espressa in queste osservazioni, non deve portarci a sopravvalutare questi problemi, per quanto importanti essi possano essere.
Le misure fiscali e monetarie sono principalmente degli strumenti di supporto che ci aiutano ad attuare azioni correttive e preventive, il merito delle quali deve essere valutato impiegando altri termini di riferimento.
Decisioni come le fonti delle entrate dello Stato, o gli obiettivi della spesa pubblica, la stessa dimensione del superbilancio - sono decisioni che comportano questioni di politica nazionale che trascendono la politica fiscale.
Ma dobbiamo essere certi - e qui la politica fiscale è importante - che una politica e una pratica fiscale sbagliate non ci impediscano più di raggiungere gli obiettivi che noi, come nazione, ci siamo posti.

Mi sembra che una grande promessa per il futuro possa essere contenuta nella considerazione di questi superbilanci della moneta e del reddito, perché essi forniscono una prova di come un programma fiscale positivo può produrre effetti economici desiderabili nel quadro di un atteggiamento basato sulla prudenza finanziaria.

E’ chiaro, ad esempio, che un programma tributario deve nascere da una esplicita politica fiscale, le cui diverse parti devono essere internamente coerenti.
E’ chiaro che le decisioni riguardanti il programma tributario devono essere basate in parte sui fatti e in parte su giudizi.
E’ chiaro che l’amministrazione del programma richiederà l’azione di diverse agenzie che dovranno lavorare insieme come una squadra.

Su questo punto, sulle politiche fiscale e monetaria, nelle quali le relazioni tra il governo e le imprese sono della massima importanza per la risoluzione dei problemi dell’occupazione e della produzione in tempo di pace, le imprese possono giustamente essere preoccupate.
Possono essere preoccupate non che le intenzioni del governo possano essere ostili o anche solo indifferenti ma che, a meno che non si compia il necessario lavoro organizzativo preparatorio, il governo non sarà capace di mettere in esecuzione neppure il più elementare programma di collaborazione.

Le imprese vogliono una politica fiscale che le aiuti a creare prodotti buoni, buoni posti di lavoro, e buoni investimenti.
Le imprese non si aspettano una politica fiscale nazionale che lavori al loro posto.
Domandano una cooperazione nel mantenere un flusso di domanda di acquisto che abbia una generale corrispondenza con quello che l’agricoltura, il lavoro e l’industria sono capaci di produrre e distribuire.

Con un tale flusso di domanda di acquisto possiamo evitare la regolamentazione, mantenere un elevato livello di occupazione e innalzare le condizioni di vita a nuovi livelli per tutto il popolo.


[FINE]


Beardsley Ruml fu un direttore, dal 1937 al 1947, della New York Federal Reserve Bank, della quale fu anche presidente dal 1941 al 1946, e fu consigliere di Herbert Hoover e Franklin Delano Roosevelt. Partecipò inoltre, con un ruolo chiave, alla Conferenza di Bretton Woods, che nel 1944 stabilì il sistema monetario internazionale del dopoguerra.

N.B. Il corsivo è dell’articolo, il grassetto è mio.


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