venerdì 7 novembre 2014

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»




Fernando Vianello  

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»

Attilio Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.
Con in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77».  



Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»




l. Introduzione.

«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).

L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).


2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.

Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile - che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva - è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.

Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della prima generazione» (8), fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè (9). «Se non esistono riserve di capacità o queste sono insufficienti - scrive Kalecki in questo libro - il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.

Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio - ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn - se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).

Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti) può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese. A proposito delle critiche frequentemente rivolte all’impiego di questi strumenti, uno degli autori del volume L’economia della piena occupazione, Burchardt, ha osservato che «non esistono ragioni a priori per le quali le discriminazioni operate dal mercato contro coloro che hanno meno capacità di pagare debbano considerarsi ispirate a un criterio più obiettivo di quelle consapevolmente adottate dalla collettività contro certi usi o utenti» (13).


3. «E’ consentito discutere di protezionismo economico?».

Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio - egli affermava nel 1977 - gran parte dei mali economici del presente è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).

Caffè non si nascondeva l’impopolarità di simili misure. Ma riteneva che la si dovesse combattere attraverso un’opera di persuasione volta a chiarire quali fossero gli obiettivi dei controlli e quali, ben più dolorosi, inconvenienti si sarebbero potuti evitare grazie a essi. «E’ bensì vero - scriveva a questo riguardo - che gli atteggiamenti sociali sono tutt’altro che favorevoli a interventi del genere. Ma la responsabilità degli economisti come professione non consiste nel prendere atto passivamente di tali atteggiamenti, ma [nel] chiedersi sia quanto essi possano aver contribuito ad alimentarli (drammatizzando i costi che sono inevitabili in ogni azione dei pubblici poteri in campo economico); sia quanto possa essere fatto per modificare gli atteggiamenti stessi con opera di chiarificazione e convincimento. Pure, era stato esattamente previsto che l’alternativa ai controlli, ove essi risultino necessari, “non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione con il succedersi di fluttuazioni economiche» (15). La citazione che chiude il brano è tratta dall’ultimo capitolo dell’Economia della piena occupazione (16).

L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo articolo, E’ consentito discutere di protezionismo economico? Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava). Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni - leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un piano di mutua comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).


4. Contro la libertà di movimento dei capitali.

Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali, particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in tempo con determinate procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni. La prima è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria, impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche settimane.

Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in vigore solo fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi valutari concessi (18). Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti - non importa a quali costi - intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.

Mi piace anche ricordare l’apprezzamento espresso da Caffè (19) per l’imposta sugli acquisti di valuta proposta con insistenza da James Tobin (20). Un’imposta del genere ridurrebbe il rendimento dei titoli del paese A per chi dispone di moneta del paese B (propria o presa a prestito), e con esso il divario che è necessario mantenere fra i tassi di interesse del paese B e quelli del paese A quando sulla moneta del primo gravano attese di svalutazione. La suddetta riduzione del rendimento (annuo) dei capitali affluiti nel paese A risulterebbe poi tanto più forte quanto minore è la durata dell’operazione, attenuando così la già segnalata caratteristica che l’operazione stessa presenta, di risultare tanto più attraente quanto più vicina è la data alla quale ci si attende che la svalutazione abbia luogo (anche se va subito aggiunto che ciò non esime dall’apprestare una seconda, più robusta, linea di difesa contro gli attacchi speculativi).


5. Messaggi non ricevuti.

Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22). Particolarmente degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della prima essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione keynesiana.

La preoccupazione che l’Europa nascesse sotto un segno deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23). Al grande equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano.
Da allora Caffè non ha mai smesso di sfidare il conformismo imperante. Né di ammonire che una cosa sono le difficoltà economiche del paese, altra cosa la loro indebita drammatizzazione come strumento di pressione sul movimento sindacale e sui partiti della sinistra, e come pretestuosa giustificazione di politiche deflazionistiche: si pensi a titoli quali La strategia dell’allarmismo economico (24) o Dal falso miracolo alla falsa agonia (25). (Personalmente schivo, e dimesso nello stile, Caffè amava consegnare il proprio messaggio a titoli squillanti).

Del fatto che queste denunce e questi ammonimenti cadessero sistematicamente nel vuoto Caffè soffriva acutamente, pur senza darsi per vinto. «Gli scritti riuniti in questo volume - così inizia l’introduzione a Un’economia in ritardo - sono accomunati dal destino di costituire, in qualche modo, dei “messaggi non ricevuti”» (26).

Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè annoverava non solo le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al keynesismo.
La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi successi elettorali, entrò a far parte di una vasta coalizione parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli accordi di Bretton Woods).

Considerava un grave errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad andare deluse.
La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi di coalizione caratterizzati sul piano economico in senso conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.

Mi accadde di intervistarlo, proprio su questi temi, per una rivista delle tante che nascevano e morivano nel convulso clima politico di quegli anni. La rivista, legata alla sinistra sindacale, si chiamava «Sinistra 77» e in quella forma non andò oltre il numero zero (ma rinacque immediatamente, con una diversa redazione e una diversa veste tipografica, come «Sinistra 78», «Sinistra 79» e «Lettere di Sinistra 80», e Caffè prese a collaborarvi direttamente) (27). All’intervista fu dato il titolo 1947-1977: gli stessi errori? Poiché si tratta di un testo introvabile, credo di fornire un utile contributo di documentazione riproducendolo in appendice a questo scritto.


6. Una discussione su Sraffa.

Essendo con ciò venuto a dire dei miei personali rapporti con Caffè, e poiché anche attraverso essi è possibile gettare qualche ulteriore luce su di lui, mi si consenta di indugiarvi sopra brevemente. La profonda intesa che c’era fra noi in tema di politica economica e il conforto che me ne veniva si accompagnavano a un netto dissenso teorico, tacere del quale non mi pare né giusto né utile. La concezione che Caffè aveva della scienza economica nel suo divenire era quella che amava esprimere con le parole di Gustavo Del Vecchio (un economista che egli ha a più riprese tentato di strappare all’oblio) (28): «un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico» (29). Questa concezione, diciamo così, continuista (o sincretista) era sopravvissuta in lui al chiarimento fornito da Sraffa circa la radicale inconciliabilità fra l’impostazione marginalista e quella propria degli economisti classici e di Marx: per cui non di aggiungere piani si trattava, secondo Sraffa, ma di riprendere un punto di vista «Sommerso e dimenticato» (30).

Fu appunto in occasione della morte di Sraffa che non potei trattenermi dall’entrare in aperta, anche se affettuosissima, polemica con Caffè sulle colonne del «Manifesto», di cui egli era allora un collaboratore abituale. Contro la sua opinione che il contributo di Sraffa dovesse essere assunto come mero «correttivo di incoerenze o storture di ragionamento (31) - dunque, per insistere nella metafora, come consolidamento e abbellimento del vecchio edificio - asserivo che quel che Sraffa aveva mostrato (e inteso mostrare) era la necessità di gettare al macero il marginalismo e di rifondare la teoria economica su basi del tutto diverse (32).

Gettare al macero: l’espressione non gli piacque né punto né poco, e mi telefonò di prima mattina per dirmelo. Per iscritto precisò il suo concetto con accattivante finezza. «Gettare al macero», osservò, è «una variante peggiorativa del “mettere in soffitta” che almeno non esclude che qualcuno possa riscoprire ciò che vi è stato accantonato (33). In seguito mi confessò di essersi convinto che, per quanto riguardava gli intendimenti di Sraffa, avevo probabilmente ragione. Aggiungendo però che si trattava di intendimenti per lui inaccettabili.


7. In difesa del Welfare State.

Tutt’altra, anche se per molti versi convergente, era la sua strada: quella, per così dire, dell’autocritica radicale e dello svuotamento dall’interno, piuttosto che del ripudio dei fondamenti, della teoria neoclassica. E’ per questa strada che egli era giunto alla sfiducia, che pervadeva le fibre più profonde del suo pensiero, nella capacità del mercato di promuovere l’efficienza, di garantire la piena occupazione, di dar luogo a una distribuzione accettabile del reddito e della ricchezza. Ed è da tale motivata sfiducia che derivavano la sua impermeabilità alle lusinghe del neoliberismo e la sua ostinata fedeltà a «una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale» (34).

Criticando la fretta con cui si era voluta proclamare la «fine» del Welfare State, Caffè parlava di una «riedizione del “crollismo”» (35): come, secondo certe interpretazioni marxiste, il sistema capitalistico era in evitabilmente destinato al «crollo», così, egli diceva, le disfunzioni del Welfare State vengono spesso presentate come sintomi di una «crisi» irreversibile e della necessità di superare la «vecchia» concezione dello Stato come garante del benessere sociale. E richiamava, a questo proposito, le considerazioni di Albert Hirschman sull’«errore strutturalista (o fondamentalista)»: che consiste appunto nel vedere crisi strutturali anche dove non vi sono che rimediabilissimi difetti di funzionamento (36).

Se si accetta la diagnosi di Hirschman, secondo cui il peggioramento qualitativo dei servizi è una conseguenza dell’estensione dei servizi stessi, se ne deve concludere, osservava Caffè, che «in una visione non reazionaria del progresso sociale, non si tratta di ridurre la quantità dei servizi, ma di migliorarne la qualità» (37) combattendo con opportuni strumenti le conseguenze negative dell’estensione; nella consapevolezza che il Welfare State «è una conquista ancora da realizzare faticosamente, non un intralcio fallimentare da scrollarsi di dosso» (38). Quanto poi ai costi del Welfare State, Caffè faceva notare che, da un lato, esiste un margine elevato di «efficienza X» recuperabile a costo nullo, o pressoché nullo (39); e che, dall’altro, «la reazione critica dei contribuenti dovrebbe investire non lo strumento della tassazione in sé, ma il suo uso distorto, la sua incapacità di incidere in zone altamente protette della proprietà della ricchezza» (40).

Il completamento del Welfare State è l’obiettivo che Caffè assegnava a un riformismo che egli voleva rigorosamente laico e portatore di una concezione del Welfare come umanesimo (41); da intendersi, se ho interpretato bene il suo pensiero, come l’opposto di una concezione paternalistico-autoritaria per la quale si tratta di assistere i poveri, e non di riconoscere dei diritti ai cittadini e di promuoverne l’autonomia (42). Ma dal riformismo laico Caffè ha avuto tante e tali delusioni da indurlo ad augurarsi che i compiti cui esso si sottraeva fossero assolti da altri, quale che fosse la loro ispirazione etico-politica. A questa riflessione egli volle dare il massimo risalto esprimendola nella prima pagina della ricordata raccolta In difesa del welfare state: «Non è improbabile che questi “punti fermi” di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino - in realtà si stiano già ripresentando - sotto aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata a un’etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con un’economia “al servizio dell’uomo” [...]. Le condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive di elevarsi sono troppo gravi per poter astenersi dal riconoscimento dovuto a chi si faccia carico dei loro problemi, anche se secondo linee di pensiero che siano diverse da quelle dei principi ispiratori del riformismo laico. Ma questo avrà indubbiamente perduta un’occasione; il che del resto non gli è inconsueto» (43).


Appendice.
Intervista a Federico Caffè di «Sinistra 77».

Come ho preannunciato, riproduco qui di seguito il testo dell’intervista concessa da Caffè a «Sinistra 77» sulla partecipazione delle sinistre al governo fino alla metà del 1947 e sugli insegnamenti che se ne potevano trarre trent’anni dopo (44).



Federico Caffè  

1947-1977: gli stessi errori?

Intervista a «Sinistra 77».


Quali furono le scelte economiche che caratterizzarono i governi di unità nazionale?

Più che di scelte bisognerebbe forse parlare di non scelte, o di cose che si sarebbero potute fare e non si fecero. Fra le molte proposte che rimasero sulla carta, una delle più importanti è certamente quella del riconoscimento ufficiale dei Consigli di gestione. Il relativo progetto di legge, presentato da Morandi e D’Aragona, incontrò la violenta opposizione della Confindustria e fu insabbiato. Ecco una prima occasione perduta. Uso di proposito questo termine, occasione perduta, proprio perché oggi ci sentiamo troppo spesso ripetere che la storia non può essere letta come una storia di occasioni perdute.

A questo punto Caffè cita un’affermazione di Giorgio Amendola: il cliché di un paese sempre pronto a fare la rivoluzione, ma che non la fa mai per colpa di qualcuno che tradisce, è duro a morire. Si parla solo e sempre di occasioni perdute: il Risorgimento, il primo dopoguerra, la Resistenza. Ma se in cento anni questo paese non l’ha mai fatta, la rivoluzione, delle ragioni oggettive ci saranno pure («la Repubblica», 17 maggio 1977. Nel parlare mi porge il ritaglio).

In questa tesi c’è un equivoco di fondo. A chi parla di occasioni perdute si attribuisce infatti l’idea che fosse possibile uno sbocco rivoluzionario. Ma ciò serve solo a eludere il vero problema. A nessuno sfugge, oggi come allora, che vi era stata una divisione del mondo in sfere d’influenza e che avevamo gli americani in casa. Il problema storico su cui non riusciamo a intenderci è: posto che non si poteva fare la rivoluzione, che cos’altro si poteva fare? Ciò che è mancato è la volontà di attuare un coraggioso programma di riforme. Per tornare ai Consigli di gestione, si trattava semplicemente di tener conto di quanto gli operai avevano fatto durante la ritirata tedesca per salvare gli impianti industriali del Nord.

Quali sono le altre occasioni perdute?

Un esempio è quello del progetto di legge sul cambio della moneta accoppiato con un’imposta straordinaria sul patrimonio. Anche questo progetto, presentato dal governo Parri, fu deliberatamente insabbiato. Non è vero, com’è stato sostenuto, che la sua attuazione presentasse gravi difficoltà tecniche. Le difficoltà erano esclusivamente di natura politica: mantenere la fiducia di quelli che vengono tradizionalmente chiamati i risparmiatori, fu ritenuto più importante che combattere efficacemente l’inflazione. Finora ho parlato solo di proposte che formarono oggetto di specifici progetti di legge. Ma le cose che si sarebbero potute fare sono assai più numerose. Penso al mantenimento e al ripristino dei controlli amministrativi sui prezzi e di un sistema di razionamenti (anche se in questo caso le difficoltà tecniche non possono essere considerate irrilevanti, date le condizioni del paese). Penso anche a una seria riforma urbanistica. E ad alcune nazionalizzazioni, come fu fatto in Inghilterra e anche in Francia. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, per esempio, avrebbe potuto essere attuata in modo ben diverso che nel 1962, scaglionando i rimborsi su un arco di trenta o quarant’anni. Di nazionalizzare l’energia elettrica si era, in realtà, parlato durante la Resistenza, e se ne continuò a parlare nell’immediato dopoguerra. Ma non se ne fece nulla. Mentre le cose andavano in questo modo, alcuni ministeri economici erano tenuti dai partiti operai, con uomini prestigiosi e autorevoli come Pesenti e Scoccimarro. Ciò mi rende molto scettico sulla possibilità di realizzare alcunché per il semplice fatto di stare nella «stanza dei bottoni».

Se i partiti operai avallarono con la loro presenza al governo un indirizzo economico liberistico, fu perché lo condividevano o perché pensarono di non poter fare altrimenti?

Viene qui in considerazione la grande influenza esercitata, sul terreno culturale, dalla scuola economica liberale, i cui esponenti erano circondati dal più grande rispetto. Da questa influenza la sinistra non fu per nulla indenne. L’egemonia culturale della triade Del Vecchio, Bresciani Turroni, Einaudi era così forte che le voci critiche riuscivano difficilmente a farsi udire. Provenivano, queste voci critiche, da giovani che gli economisti più attempati guardavano con olimpica indifferenza; oppure da studiosi molto rispettati, come Alberto Breglia, ma inclini per loro natura alla testimonianza di un dissenso piuttosto che alla lotta per l’egemonia.

Ma l’arrendevolezza della sinistra in materia economica non rifletteva anche una precisa gerarchia di obiettivi?

La preoccupazione dominante era, per la sinistra, la scelta istituzionale. Ma anche in seguito le scelte economiche furono considerate secondarie rispetto alle scelte politiche. Non a caso lo slogan di Nenni era «politique d’abord». La mia convinzione, maturata fin da allora è che si trattò di una linea miope. Prendiamo, per esempio, la crisi ministeriale del marzo 1947. Fu subito chiaro che essa preludeva all’estromissione dei partiti operai dal governo. Allora mi chiedo: non era preferibile cadere combattendo? Non era preferibile dare battaglia sulle linee di fondo lungo cui si muoveva la ricostruzione? Una riflessione su questo problema può essere ricca di insegnamenti anche per l’oggi.

Veniamo dunque all’oggi. L’attuale discussione sulla politica economica presenta delle analogie con quella svoltasi nel dopoguerra?

Sul piano dell’egemonia culturale trovo delle analogie sconcertanti. Ricompare con forza il tema dell’efficienza. Si riparla dell’impresa come centro del sistema economico e dell’imprenditore come regolatore incontrastato della vita dell’impresa. Si ripetono, talora con parole identiche; i discorsi che si sentivano nel dopoguerra, quando veniva detto che i Consigli di gestione non consentivano all’imprenditore di fare il suo mestiere, di prendere le decisioni con la necessaria rapidità e snellezza. Anche oggi la sinistra accetta un terreno di discussione proposto da altri. Non riesco a comprendere, per esempio, perché il Partito comunista debba rinunciare programmaticamente a qualsiasi estensione del settore pubblico dell’economia. In particolare, non vedo perché non si dovrebbe nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica. Per continuare il paragone con il dopoguerra, mi sembra di cogliere nell’atteggiamento del Partito comunista la stessa paralizzante preoccupazione di rassicurare i ceti medi moderati.

Il problema del Pci è sempre stato quello di farsi accettare all’interno di un assetto socio-politico che voleva emarginarlo. Non è anche per questo che esso ha assunto atteggiamenti più moderati di quelli tipici dei tradizionali partiti riformisti?

Nell’immediato dopoguerra il più forte partito della sinistra non era il Pci, ma il Psi. Il Pci ne prese il posto in seguito, grazie a una politica molto accorta. Per cominciare, lo scavalcò immediatamente a destra già dalla «svolta di Salerno•, riconoscendo la monarchia. Sotto il profilo dell’acquisizione di rispettabilità, e quindi dell’efficacia propagandistica e degli esiti elettorali, la politica di Togliatti non si può certo definire sbagliata. L’obiezione che ho rivolto ad Amendola nel corso di un dibattito è, tuttavia, che questa politica è stata utile per il partito, ma forse non altrettanto utile per il paese. Le sinistre potevano almeno far pagare qualcosa per ciò che concedevano. E ciò che concedevano non era poco: l’adesione delle forze organizzate del lavoro. Invece tutto si è risolto nell’avallo dato a una politica di restaurazione.

Con quali conseguenze?

Molte delle cose che si sarebbero potute fare allora non furono fatte, a maggior ragione, neppure in seguito. Il modo in cui si provvide alla ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano. La consapevolezza delle cose non fatte emerse improvvisamente nel 1962, quando la «Nota aggiuntiva» di La Malfa colpì molti come una rivelazione.

La politica economica italiana è sempre stata caratterizzata da un orientamento deflazionistico. Oggi, tuttavia, un simile orientamento e la sua accettazione da parte della sinistra sembrano trovare qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti. Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche: esiste una strada diversa?

Continuare sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile. Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. Ma ciò avviene grazie al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare queste condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e controllato. La Robinson ha scritto che se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell’economia di guerra il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?

Economia di guerra per scopi non di guerra. Quali sono gli obiettivi prioritari?

Il problema principale è quello dell’occupazione. L’aumento dell’occupazione non può essere affidato all’espansione delle esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori del nostro controllo. E’ necessario rilanciare l’edilizia e fare una politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue componenti non assistenziali. C’è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci: si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di salari e stipendi. Ma alcune riforme fra le più importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata. E’ il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo.

E quali sono i metodi dell’economia di guerra?

Per esempio il circuito dei capitali. Noi facciamo qualcosa del genere quando blocchiamo la scala mobile, imponendo un prestito forzoso. Ma lo facciamo poco e male, colpendo alcuni e non altri. Trascuriamo, poi, lo strumento fondamentale, che è rappresentato da una politica di estesi razionamenti.

… e di controllo delle importazioni.

Certo. Ma occorre anche il razionamento. Bisogna evitare che il razionamento avvenga automaticamente attraverso l’aumento dei prezzi. La mia preoccupazione è che si continui sulla strada del liberismo economico, aggravando progressivamente la situazione del paese. Se si vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un esercizio retorico e purché l’austerità sia concretamente finalizzata all’aumento dell’occupazione. E a un’occupazione non precaria. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di venticinque anni che appassiscono nell’inattività. Non è escluso che tutto questo si traduca m un aumento dei suicidi. Occorrono misure immediate per aumentare l’occupazione, accompagnate dagli altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. Dire che tutto si risolve esportando di più praticando l’austerità e restituendo efficienza al sistema è una colossale mistificazione.

Fra gli argomenti più frequentemente addotti contro una politica di controllo delle importazioni e di razionamenti vi sono quelli relativi ai vincoli del Mercato comune e all’inefficienza della pubblica amministrazione. Qual è la forza di questi argomenti?

I regolamenti del Mercato comune sono stati fatti da persone intelligenti, e prevedono clausole di salvaguardia, scappatoie da usare ne1 momenti di difficoltà. Quanto poi all’inefficienza della pubblica amministrazione, non bisogna esagerare. Nel 1945-46, allora sì, la situazione dei ministeri era disastrosa, anche per effetto delle epurazioni. Eppure si è rapidamente compiuta un’imponente opera di ricostruzione delle ferrovie. Quindi, quando qualcuno ha voluto fare, le cose sono state fatte.

Se l’attuale linea di politica economica non verrà modificata, vi saranno ripercussioni sul quadro politico? E’ compatibile questa politica economica, con uno stabile spostamento a sinistra degli equilibri governativi?

Non mi sento completamente in grado di rispondere a questa domanda. Il mio compito di intellettuale, così come io l’intendo, è quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile. Sul resto mi è difficile addentrarmi. Posso dire solo questo. Che, dopo un periodo di restaurazione sociale e dell’assetto dell’economia, la sinistra venga ricacciata all’opposizione mi sembra un’ipotesi da prendere in seria considerazione. Vi è tuttavia, un’ipotesi che mi preoccupa ancora di più: quella di una Sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche. Vorrei aggiungere che, se per miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo, della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese. Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell’economia, senza l’introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta gli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l’ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.


__________


Note:
(1)                 F. Caffè, La crisi del welfare state come riedizione del «crollismo»; in Id., In difesa del welfare state, Rosenberg & Sellier, Torino 1986, p. 19.
(2)                 J. M. Keynes, Introduzione ai Cambridge Economie Handbooks, in Id., Collected Writings, 12, p. 856. Cfr. anche A. Simonazzi, Economia politica: «tecnica di pensiero» o tecniche di aggiustamento?, in «Il Mulino», marzo-aprile 1982.
(3)                 F. Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(4)                 Alle proposte avanzate da Keynes nel novembre 1939 e riformulate qualche mese più tardi in How to Pay for the War (Macmillan, London 1940) Caffè dà il massimo risalto nelle sue Lezioni di politica economica, il cui nono capitolo è significativamente intitolato L’applicazione delle politiche keynesiane: dal finanziamento del secondo conflitto mondiale agli impegni pubblici per il pieno impiego. Cfr. F. Caffè, Lezioni di politica economica, Boringhieri, Torino 1978, pp. 168-9
(5)                 Keynes, per dirne una, abbraccia il protezionismo negli anni trenta; si piega nel dopoguerra al liberoscambismo americano, adoperandosi tuttavia per una soluzione che lasci spazio alle politiche di piena occupazione; individua dapprima tale soluzione nella predisposizione di una fonte di liquidità per i paesi in disavanzo (L’International Clearing Union); reagisce infine al mancato accoglimento della sua proposta affidando la salvaguardia della piena occupazione alla modificabilità dei tassi di cambio e alla possibilità di imporre restrizioni alla libertà di movimento dei capitali. Cfr. Simonazzi, Economia politica cit., p. 225. Per un’ampia analisi delle posizioni assunte in diversi momenti da Keynes in tema di relazioni economiche internazionali cfr. L. M. Milone, Libero scambio, protezionismo e cooperazione internazionale nel pensiero di Keynes, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
(6)                 Impedire che la piena occupazione si traduca in un eccessivo aumento dei salari monetari e dei prezzi rappresenta, scrive Keynes nel 1943, «uno dei principali compiti con cui dovrà misurarsi la nostra arte di governo». Note by Lord Keynes, in «Economic Journal», december 1944, riprodotta in J. M. Keynes, Collected Writings, 26, pp. 39-40.
(7)                 Di Fuà e Steve - entrambi presenti a questo Convegno, anche se solo Steve come relatore - voglio ricordare i lucidi interventi alla Conferenza economica nazionale per il «Piano del lavoro» della Cgil. Cfr. Il Piano del lavoro. Resoconto integrale della Conferenza economica nazionale della CGIL e un’appendice. Roma 18-20 febbraio 1950, Stab. Tip. Uesisa, Roma, pp. 131-7 e 215-9. Di Steve si veda anche il notevolissimo articolo Politica finanziaria e sviluppo dell’economia italiana, in «Moneta e credito», secondo trimestre, 1950.
(8)                 Cfr. S. Steve, Politica fiscale keynesiana e inflazione, in «Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali», febbraio 1977, p. 98.
(9)                 F. A. Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1979.
(10)             M. Kalecki, Tre metodi per la piena occupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 73.
(11)             R. F. Kahn, Memorandum of evidence submitted to the Radcliffe Committee (1958), in Id., Selected Essays on Employment and Growth, Cambridge University Press, Cambridge 1972, p. 133.
(12)             Ibid., p. 136.
(13)             F. A. Burchardt, Le cause della disoccupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 66.
(14)             F. Caffè, Teoria economica e politica economica in Italia, in «Civiltà delle macchine», settembre-dicembre 1976, p. 67.
(15)             F. Caffè, Keynes oggi, in Id., L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi, Edizioni Studium, Roma 1981, p. 87.
(16)             Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 254.
(17)             F. Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico? (1977), in Id., La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella e M. Franzini, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 240.
(18)             Cfr. in particolare F. Caffè, Vecchi e nuovi trasferimenti anormali dei capitali (1966), in Id., Teorie e problemi di politica sociale, Laterza, Bari 1970, p. 105.
(19)             Cfr. F. Caffè, Umanesimo del welfare (1986), in Id., La solitudine cit., pp. 258-9.
(20)             Cfr. J. Tobin, A Proposal for International Monetary Reform (1978), in Id., Essays in Economics. Theory and Policy, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1982, pp. 488-94.
(21)             Cfr. F. Caffè, Sguardi su un mondo economico in trasformazione (1957), in F. Caffè, Saggi critici di economia, De Luca, Roma 1958. Ho richiamato l’attenzione su questo saggio in un ricordo di Federico Caffè pubblicato sul «Manifesto» del 16 aprile 1988. Da tale testo ho attinto liberamente nella stesura dei punti 5 e 6.
(22)             Cfr. su ciò M. de Cecco, Gli economisti italiani e l’adesione dell’Italia al Mec, in Aa.Vv., Scelte politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978, a cura di G. Lunghini, Einaudi, Torino 1981, pp. 245-57.
(23)             Cfr. F. Caffè, Il mito della deflazione, in «Cronache sociali», 13 luglio 1949. Si veda anche, sulla stessa rivista, il successivo articolo Bilancio di una politica (settembre-ottobre 1949, 16-17 e 18).
(24)             F. Caffè, La strategia dell’allarmismo economico (1972) in Id., Un’economia in ritardo, Boringhieri, Torino 1976, pp. 48 segg.
(25)             F. Caffè, Dal falso miracolo alla falsa «agonia», in «Il punto di riferimento», maggio-giugno 1975, pp. 27-9.
(26)             F. Caffè, Un’economia in ritardo cit., p. 7.
(27)             Si vedano gli articoli riprodotti in Caffè, La solutine cit., pp. 80-2, 81-9, 143-5, 146-9, 150-1, 155-8, 163-5, 168-82 e 225-9.
(28)             Caffè ha, fra l’altro, curato una raccolta di scritti ti Del Vecchio: Antologia degli scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), introduzione e cura di F. Caffè, Collana di pubblicazioni dell’Istituto di Politica economica e finanziaria della Facoltà di economia e commercio dell’Università di Roma, Angeli, Milano 1983.
(29)             G. Del Vecchio, Economia generale, Utet Torino 1961, p. 741. Cfr. anche F. Caffè, Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Nuova Universale Studium, Roma 1977, pp. 10-1.
(30)             P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, T orino 1960, p. V.
(31)             F. Caffè, Morte di un grande economista. La solitudine insidiata di Sraffa, in «Il Mamfesto», 7 settembre 1983; ristampato in Caffè, La solitudine cit., pp. 23-5.
(32)             F. Vianello, Sraffa dopo Sraffa. Correggere o rifondare la teoria economica, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(33)             F. Caffè, Una precisazione, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(34)             Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(35)             Cfr. Caffè, La crisi del welfare state cit., p.18.
(36)             Cfr. A. O. Hirschman, Lo stato sociale in difficoltà crisi sistemica o mal di crescita?, in Id., L’economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, Napoli 1987, pp. 135-40.
(37)             Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 20.
(38)             Ibid., p. 24.
(39)             Caffè, Umanesimo del welfare cit., p. 255.
(40)             Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 18.
(41)             Caffè, Umanesimo del welfare cit.
(42)             Cfr. F. Vianello, Umanesimo del welfare: qualche riflessione, in Aa.Vv., In difesa del welfare state, a cura di G. M. Rey e G. C. Romagnoli, Angeli, Milano 1993, pp. 107-17 (in particolare p. 112).
(43)             Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 7.
(44)             All’incontro con Caffè partecipò anche Antonio Lettieri, cui è dovuta una parte delle domande. Solo mia è invece la trascrizione delle risposte.


[FINE]


1 commento:

  1. Troverei di grande interesse poter leggere, se si potesse reperire:
    "(25) F. Caffè, Dal falso miracolo alla falsa «agonia», in «Il punto di riferimento», maggio-giugno 1975, pp. 27-9."
    Sono gli elementi di un doppio mito nel quale siamo irretiti da sempre.

    RispondiElimina