Alessandro Rossi
L’etica del successo
1895, Firenze.
Ripubblicato parzialmente in Lucio Avagliano, “Alessandro Rossi: Fondare l’Italia
industriale”. Edizioni Studium, Roma 1998, pp.197-199.
La piaga antica degli economisti liberisti
italiani, dogmatici e provinciali
[
A cura di Giorgio D.M. ]
Prima di uscire dalla Università, e
poiché questa seconda parte del mio scritto si propone di raffrontare le
condizioni di fatto del nostro paese con quelle di Thayer nel paese suo [gli
Stati Uniti], non si può pretermettere [1] quanto a raggiungere l'Etica del
successo distanti sieno gli uni dagli altri gl'insegnamenti delle teorie
economiche, le quali hanno tanta prevalenza nel presente ordinamento sociale.
E poiché l'insegnamento loro nei
nostri istituti mediani e superiori è rimasto fino ad oggi, come nella vicina
Francia, uno dei cardini della istruzione pubblica, non è difficile scorgere
come la così detta Economia politica sia rimasta da noi la più
refrattaria delle scienze al soffio vitale dei tempi nuovi. (14)
La stessa metafisica ha potuto
arricchirsi di nuovi trovati, di studi e di ricerche nel regno della natura, e
tramutarsi in psicologia che fa dipendere le sue leggi dallo studio della
biologia e della fisiologia, scienze di fatti positivi che danno la carne e la polpa
alla ideologia dei metafisici.
Per l'economia politica che tratta le
cose a priori, con dommi [2] fatti, il nuovo modo statistico-industriale è
tuttora un campo chiuso.
Non vi ha quasi ramo d'insegnamento
che non subisca più o meno profonde modificazioni in questi tempi della meccanica,
della chimica, della elettricità, dove ben poco dello scibile positivo rimane
qual'era [3], tutto si muove e si cambia a vista d'occhio.
Scorransi le lezioni della massima
parte dei nostri professori in economia politica, vi si riscontrano le eterne
leggi della domanda e della offerta, come se i monopoli artificiali, le coalizioni,
i rings, i corners tra Europa ed America, col telegrafo, non
variassero giorno per giorno i pretesi effetti della legge di gomma anziché di
ferro come la chiamò Lassalle [4].
I salari son tuttora per la gran
parte dei nostri economisti la risultante delle proporzioni tra capitale e
lavoro, senza tener conto dei fattori nuovi: tasse interne, dazi di frontiera,
concorrenza di salari indiani e giapponesi e concorrenza di popoli che si
nutrono di riso, e altri di acqua e polenta in confronto d'altri che mangiano
carne tre volte al dì.
Non si tien conto del monopolio o
della concorrenza dei trasporti dove si rincara, e dove si alleggerisce il
costo della produzione, perché menata a fine una ferrovia colla vittoria delle
distanze, eccovi un tratto di penna in una tariffa che assorbe tutto il
guadagno ottenuto, oppure lo specializza a quei prodotti che a quel dato popolo
più interessano.
Aggiungansi i trattati commerciali,
le particolari condizioni economico-sociali e finanziarie tra un popolo e
l'altro: ecco altrettanti elementi a turbare la stregua dei salari.
L'istruzione tecnica, il corredo
degli utensili, il clima, le forze motrici, le condizioni del capitale: ecco
altrettanti fattori che scappano alle lezioni del gabinetto [5], le quali si
fermano al carbone ed al ferro come ai tempi del buon Adamo Smith che condannerebbero
noi a coltivare cavoli ed aranci.
Ancora oggidì la stampa dottrinaria
non fa distinzione fra industrie e commercio, fra città marittime e città
interne, fra agricoltori e industriali.
Fino a che non si avanzò la
concorrenza transatlantica erano i nostri economisti tutti giuggiole [6] per
gli agricoltori.
Oggi che gli agricoltori son tratti a
difendersi [7], gli economisti si fanno paladini dei consumatori, gente questa,
a dir loro, che, secondo il nome, non produce ma consuma, da prendere in verità
a singolare modello di economia politica.
Se negli Stati Uniti l'insegnamento
della economia politica quale si dà nelle nostre scuole avesse ad essere
ufficiale, ossia mantenuto coi denari dei contribuenti, si vedrebbero i
minatori della California e della Pensilvania associati coi filatori e
tessitori del Massachussetts e del Vermont insorgere come un sol uomo contro il
governo, e i professori suoi.
Fortunatamente agli Stati Uniti
gl'insegnanti son mantenuti colle propine degli studenti, sono obbligati a
istruire per la vita e non per la metafisica.
Gli studenti quindi tanto più li
ricercano e li stimano quanto più il loro insegnamento sta in armonia parlante
coi risultati della esperienza quotidiana.
__________
Note:
14. È comparso nella «Nuova Antologia»,
proprio nell'anno di grazia 1895 il 1° di marzo, uno scritto, dettato,
parrebbe, di qualche antico discepolo del Nestore venerando dei nostri
economisti, a difendere un mondo economico, sognato mezzo secolo fa come una
notte di estate e sparito poscia per sempre. Con che l'Autore tende a
dimostrare che tutti gli economisti nostrani ed esteri sono fuori di strada
perché dopo mezzo secolo il verbo assume un aspetto nuovo, non dice quale, ma
lo vuol credere traveduto in quelle 33 pagine metafisiche della «Nuova
Antologia».
Poveri giovani che comandati al
diploma dovessero passare per là! Agli Stati Uniti lezioni d'una portata così
inaccessibile farebbero scappare dalle scuole non ché gli uditori anche le
mosche.
[FINE]
Alcune note suggerite dal fatto che a
una giovane lettrice il testo è risultato alquanto oscuro… :)
[1]
Tralasciare.
[2]
Dogmi.
[3]
Così
nel testo.
[4]
Secondo
la “legge di ferro dei salari”
di Lassalle, che per altro ripeté una osservazione di Ricardo, i salari si
mantengono al livello che consente ai lavoratori la mera sussistenza. Rossi
afferma invece che i salari possono variare, per i motivi che indica, e rinomina
quindi legge di gomma la legge di ferro di Lassalle.
[5]
Lezioni
accademiche.
[6]
Gli
economisti italiani ritenevano cioè che il settore agricolo fosse quello più
importante. L’espressione usata è analoga a “andare in brodo di giuggiole”.
[7]
Gli
agricoltori subivano cioè la concorrenza dei prodotti agricoli importati dall’estero,
e non riuscivano più ad esportare come prima.
Sei un mito: con il tuo blog si potrebbe avere materiale per un corso universitario.
RispondiEliminaTipo: "Paradigmi economici e conflitto distributivo"
Nella mia esperienza, da studente di economia, mi sono accorto che di politica economica non mi è rimasto dentro niente... di chiaro.
Al di là dell'impostazione "neoclassica": comunque non "dichiarata" e mischiata e confusa ad un insieme di concetti per cui non mi era chiaro il senso della dialettica socialista-keynesiana e liberista-neoclassica e il suo profondo senso politico nel prendere nettamente posizione nel conflitto tra capitale e lavoro.
Sui liberisti italiani "più realisti del re", è un vero dilemma.
C'è da vergognarsi, dai tempi di Ferrara fino ad Einaudi e ai bocconiani austeriani, esportiamo letame intellettuale - e morale - in tutto il mondo.
Poiché nella storia questo è più o meno sempre stato controproducente per l'Italia in primis, il primo appunto che mi salta in mente è, che in realtà, facciamo da "proxy" alle potenze coloniali, rielaborando con le risorse culturali che abbiamo, ma che in realtà la porcheria liberista sia farina del sacco britannico prima e statunitenso dopo.
Insomma, mi pare di scorgere nell'autolesionismo liberista "made in Italy", il riflesso del "soft power" delle potenze che nella modernità hanno esercitato grande influenza sulle nostre élite, provinciali, periferiche e marginali. Proprio perché collaborazioniste.
Sarebbe interessante trovare del materiale che possa corroborare o meno questa ipotesi.
Voglio ringraziare l'autore del blog per l'ottimo lavoro che svolge mettendo a disposizione autentiche perle che 'sfuggono' all'insegnamento universitario. Mi chiedo se effettivamente questa istruzione 'di massa' serva a rendere erudito chi me usufruisce o se l'antico precettore sia insuperabile.
RispondiEliminaVoglio anche complimentarmi con chi ha commentato prima di me perché, condividendo le sue considerazioni, mi evita la fatica di scriverle, tra l'altro con una forma sicuramente meno raffinata.