Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

domenica 16 settembre 2012

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La vera emergenza non è il “populismo” ma una normalizzazione di tipo moderato




Federico Caffè

Che spregiudicato quell’economista,                                                ha scoperto la legge della giungla

“Il Manifesto”, 7 dicembre 1978.
Federico Caffè, La solitudine del riformista. A cura di Nicola Acocella e Maurizio Franzini.
Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 129-131.




La vera emergenza non è il “populismo”                                         ma una normalizzazione di tipo moderato




Vedere nel sindacato la forza dirompente sia degli equilibri del mercato che delle potenzialità della programmazione è l’approdo più recente, e fuorviante, della saggezza convenzionale.
La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato conturbanti consensi perfino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne il sovrano, al suo assoggettamento alle forze che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali,  ma non paganti, della collettività.
I propositi di programmazione, d’altro canto, non si discostano ancora oggi dall’antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di piano, sfumandolo in quello più blando di schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto “tutti fanno piani”.

Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza.
Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all’antico: il ricupero di idee del passato che siano state a torto trascurate o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido.
Ma allorché Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che “la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile”, si è di fronte non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma all’ennesima attestazione dell’atteggiamento del ritorno retrivo di chi non ha saputo niente apprendere e niente dimenticare.

L’informazione maggiormente in grado di influenzare l’opinione pubblica, i messaggi delle persone in posizione di potere e di responsabilità non differiscono da questa, in fondo patetica, incapacità di studiosi indubbiamente eminenti, come Hayek, di riconsiderare in modo nuovo antichi convincimenti.
Con la differenza che, in personaggi di minor calibro intellettuale, non si è in presenza di un malinconico attaccamento al mondo di ieri, ma di una cinica e spregiudicata resistenza all’avanzamento sociale, qualificato con monotona insistenza come espressione della ondata delle aspettative crescenti.
Frasi del genere, al pari delle rampogne per il permissivismo scolastico (e occorrerebbe spesso chiedersi da quali pulpiti venga la predica) o al pari dell’ipocrita lacerarsi le vesti nei confronti dell’assenteismo operaio e della microconflittualità aziendale, finiscono per essere vincenti nella pubblica opinione: e vi contribuisce, a mio avviso, la reazione inadeguata e inefficace delle forze sindacali.
Anche per esse vale l’alto monito a non aver timore: il che, tra gli altri significati, ha anche quello di non dissociare l’autocritica che si consideri necessaria da una precisa, energica, documentata opera di controinformazione.

La vera emergenza non è nell’economia, il cui quadro è molto meno allarmante di quanto lo si prospetti con orchestrata ma deformante abilità; bensì nel tentativo di bloccare ancora una volta l’ascesa, necessariamente convulsa, dei ceti popolari, mediante una normalizzazione di tipo moderato.
Non per nulla, l’istruzione impartita “nelle zone esclusive della città” viene considerata a priori come valida; mentre la fatica quotidiana intesa a rompere il monopolio delle conoscenze viene ritenuta, per definizione, squalificata e squalificante.
Ma che il fastidio del tutto esplicito per le soluzioni non elitarie e l’artificiosa attribuzione della qualifica di “populismo” a ogni aspirazione di avanzamento sociale avvengano con la tacita acquiescenza delle forze politicamente progressiste è ciò che rende particolarmente amaro il periodo che viviamo.

Se realmente si è ancora disposti a seguire “programmaticamente” il ricatto dell’appello allo straniero; se realmente ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito; allora non resta che una soluzione alla Guicciardini.
Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell’interesse individuale; bensì “come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e impegno civile”.


[FINE]


N.B. Il grassetto è mio.


2 commenti:

  1. Non conoscevo Caffè...visto che non posso dubitare che abbia scritto queste cose nel 78, vien da chiedersi se mai siano state, non lette ma, comprese.
    E in più di trent'anni nulla è cambiato.

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