Rielaborazione del fotomontaggio di John Heartfield Der Sinn von Genf.
martedì 24 settembre 2013
domenica 22 settembre 2013
Talk show
Pierre-Joseph Proudhon
Che cos’è la proprietà?
1840, Traduzione di
Alfredo Salsano, Editori Laterza, Bari 1967, p. 284.
Talk show
Un tempo la scienza, il pensiero, la
parola erano confuse sotto una stessa denominazione; per designare un uomo
forte di pensieri e di sapere, si diceva un uomo dalla parola pronta ed
efficace.
Da molto tempo la parola è stata per
astrazione separata dalla scienza e dalla ragione.
A poco a poco questa astrazione, come dicono i logici, si è realizzata nella società; cosicché noi oggi abbiamo degli scienziati di vario genere che non parlano e dei parolai che non sono dotti neanche nella scienza della parola.
A poco a poco questa astrazione, come dicono i logici, si è realizzata nella società; cosicché noi oggi abbiamo degli scienziati di vario genere che non parlano e dei parolai che non sono dotti neanche nella scienza della parola.
Così un filosofo non è più uno scienziato, è un parolaio.
Un legislatore, un poeta un tempo
erano degli uomini profondi e divini: oggi sono dei parolai.
Un parolaio è un campanello che al minimo
tocco rende un suono interminabile; nel parolaio il flusso del discorso è sempre
in ragione diretta della povertà del pensiero.
I parolai governano il mondo, ci
stordiscono, c’importunano, ci derubano, ci succhiano il sangue e si fanno
beffe di noi.
Quanto agli scienziati, essi
tacciono: se vogliono dire qualcosa, si toglie loro la parola.
Che scrivano.
[FINE]
sabato 21 settembre 2013
Uno vale uno
Beppe Grillo
Intervista a Peter Schneider del 19 settembre 2013
Pubblicata da Die
Zeit e da Repubblica qui.
Uno vale uno. Tutti gli altri son nessuno
Beppe Grillo riceve nella sua villa
vicino a Cecina. Da buon padrone di casa concede al suo ospite molto tempo e lo
invita a fare un bagno in mare. Lui non entra in acqua. Aspetta sulla spiaggia
e subito è attorniato dai bagnanti. "Beppe, sei proprio tu? Sei un
grande!".
Che dice Grillo, cade il governo in Italia?
"L'Italia è il paese in cui non
si ha mai certezza di nulla.
Per capire la nostra Costituzione
servono un esperto di sinistra e uno di destra, col risultato che non la si
capisce mai.
Voglio dire: qui può succedere di
tutto ma la gente non ne può più.
Mezza Italia affonda, le piccole
imprese, i giovani senza lavoro.
Il nostro problema è questo: abbiamo
19 milioni di pensionati e quasi 5 milioni di impiegati statali; una parte di
loro vota Berlusconi, un'altra il Pd.
Il 50% degli aventi diritto al voto
non va a votare, e il 50% di quelli che votano non sanno cosa devono votare o
cosa significa il loro voto.
Bisognerebbe fare un esame a chi va
alle urne, chiedergli cos'è la Costituzione, di cosa tratta, quanti articoli
ha, cos'è il codice penale, cos'è la libertà di stampa, cioè vedere se sanno
quelle tre, quattro cose che gli danno il diritto di votare, se no il diritto
di voto non ha più senso.
Credo che siamo il popolo più
disinformato d'Europa".
Il suo M5S è stato il vincitore a sorpresa alle elezioni di febbraio.
Lei
avrebbe potuto entrare nel governo, ma non lo ha fatto: perché?
"Se si vuole parlare con un
movimento si va dal suo leader.
Pier Luigi Bersani non lo ha mai
fatto.
È stata una mancanza di rispetto,
perché noi, quanto a voti, siamo il maggior movimento italiano.
Invece Bersani ha tentato di far
passare dalla sua parte undici nostri senatori.
Il Pd non è guidato da Guglielmo
Epifani, l'attuale segretario, bensì dal Presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano".
Vuol dire che il presidente italiano è il capo segreto del Pd?
"Come molti altri Napolitano ha
dato per scontato che il M5S non riuscisse a superare gli ostacoli burocratici
per presentarsi alle elezioni.
Credeva che vincesse il Pd.
Quando il M5S ha preso il 25%, il
Presidente e i suoi compagni sono corsi ai ripari.
Noi avevamo proposto come Presidente
della Repubblica Stefano Rodotà, un uomo che è tra i padri fondatori del Pd.
Se il Pd avesse accettato la sua
candidatura, sarebbe stato possibile un accordo".
Ma lei contava su una vittoria alle urne?
"All'inizio no.
Ma girando l'Italia sul mio camper e
vedendo spesso in piazza diecimila persone ho intuito cosa poteva succedere.
Quello che è accaduto è stato un
miracolo, e noi un miracolo lo abbiamo già realizzato: abbiamo fatto
impallidire i partiti".
Crede davvero che con il suo movimento potrebbe governare da solo?
"Ma certo!
Noi presenteremo agli italiani già
prima delle elezioni dieci-dodici candidati con un curriculum adeguato e il
nostro programma, candidati che devono far parte del nostro governo.
Non li nominiamo lì per lì come gli
altri, che fanno ministri veline, massoni, e membri delle sette segrete".
Mettiamo che nelle prossime elezioni lei arrivi al 30% ...
"Allora abbiamo vinto.
L'attuale legge elettorale concede la
maggioranza a chi ottiene il maggior numero di voti.
Con il proporzionale invece per governare
serve il 51%".
E lei preferisce il sistema proporzionale?
"Noi abbiamo già votato contro
l'attuale legge elettorale in parlamento. Noi soli. Io voglio abrogarla e
introdurre il
sistema proporzionale ma solo dopo
aver vinto con il sistema attuale".
Con la legge elettorale attuale sarebbe quindi più semplice per lei
andare al governo?
"Sì. È così".
Ma ciò nonostante resta del parere che sia una legge ingiusta?
"Totalmente ingiusta".
Con il 28 o il 30% potrebbe governare da solo?
"Certamente.
Ma non è il problema
dell'ingovernabilità in Italia che mi preoccupa.
Quello che fa paura a tanti è l'effetto
che avrebbe sull'Europa e il resto del mondo il nostro modello di governo.
Ho parlato con l'ambasciatore giapponese,
francese, e addirittura con l'ambasciatore cinese.
È venuto a trovarmi due volte: la
prima due ore, la seconda tre. Dalle nostre conversazioni ha tratto questo
sunto: in Italia sta succedendo qualcosa di insolito, un movimento dal basso,
senza soldi, usa la rete e stravolge la politica italiana e forse anche quella internazionale.
Questo movimento preoccupa moltissimo
noi cinesi perché potrebbe destabilizzare anche il nostro sistema. Questo ha
scritto. Ed è logico che sia preoccupato".
Che ruolo immagina per l'Italia in Europa?
"Se chiedi a un italiano
dell'Europa, anche solo dei capi di governo, non vien fuori niente.
In Italia l'Europa viene identificata
solo con due cose: spread e Merkel.
La Ue non ha più nulla a che fare con
la sua base e non possiamo ritenerci soddisfatti di far parte di un progetto
che non conosciamo.
Vogliamo ridiscuterlo".
È vero che siete per l'uscita dell'Italia dall'euro?
"No.
Il problema non è più
l'euro, il problema è il debito.
Noi paghiamo ogni anno 100 miliardi
di euro per il nostro debito, e questo svuota qualunque progetto economico si
persegua.
Proporrò di rinegoziare il debito
italiano.
Gli eurobond mi sembrano un'idea che
si concilia con l'Europa che immagino, cioè con l'idea della solidarietà.
La Grecia, che rappresenta solo il
due per cento del PIL europeo, si sarebbe potuta salvare a costo zero.
Ma questa Europa non esiste.
Non abbiamo un sistema finanziario
comune, una Borsa comune...".
... Un'opinione pubblica comune!
"Per questo il nostro movimento
fa così paura.
Perché se vincendo assumessimo la presidenza del parlamento europeo
cambieremmo la politica europea.
Per questo ci considerano così
pericolosi".
Quale ruolo vede per la Germania in Europa?
"Noi siamo per l'Europa, ma
questa Europa germanocentrica di oggi non mi piace.
Non ho nulla contro i tedeschi, ma la
Germania di oggi non ha nulla a che fare con la filosofia dei grandi pensatori
europei.”
Lei ha ottenuto molto e vuole andare ancora oltre. Da dove le viene tanta
energia?
"È il segreto della vita
condividere un sogno, un'idea con altra gente. Se la tua idea viene condivisa
da molti, sei vicino al segreto della vita. Cosa
c'è di più bello?".
[FINE]
Post scriptum, 25 settembre.
Il titolo "Uno vale uno. Tutti gli altri son nessuno" mi suonava bene.
Ora mi sono accorto di averlo letto a suo tempo su goofynomics qui a proposito di questa notizia.
:-)
venerdì 13 settembre 2013
A futura memoria
Silvio Berlusconi
Dichiarazione del Presidente del Consiglio del 24 Ottobre 2011
Pubblicata qui.
A futura memoria
“L’Italia ha già fatto e si appresta
a completare quel che è nell’interesse nazionale ed europeo, e che corrisponde
al suo senso di giustizia e di equità sociale.
Onoriamo il nostro debito pubblico
puntualmente, abbiamo un avanzo primario più virtuoso di quello dei nostri
partner, faremo il pareggio di bilancio nel 2013 e nessuno ha alcunché da
temere dalla terza economia europea, e da questo straordinario paese fondatore
che tiene cara la cooperazione sovranazionale almeno quanto la sua orgogliosa
indipendenza.
Quanto alle turbolenze da debito
sovrano e da crisi del sistema bancario, in particolare franco-tedesco, abbiamo
posizioni ferme, che porteremo al prossimo vertice dell’Unione.
L’euro è l’unica moneta che non abbia
alle spalle, come il dollaro o la sterlina o lo yen, un prestatore di ultima
istanza disposto a difendere strutturalmente la sua credibilità di fronte
all’aggressività dei mercati finanziari.
Questa situazione va corretta una
volta per tutte, pena una crisi che sarebbe crisi comune di tutte le economie
europee.
Stiamo facendo qualche timido passo
avanti per un governo dell’area euro, ma resta ancora molto da fare.
La Germania di Angela Merkel è
consapevole di questo, e il suo lavoro si avvarrà della nostra leale
collaborazione.
Nessuno nell’Unione può autonominarsi
commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei.
Nessuno è in grado di dare lezioni ai
partner.
D’altra parte l’insieme della classe
dirigente italiana, se vuol essere considerata tale, invece che un coro di
demagoghi, dovrebbe unirsi nello sforzo dello sviluppo e delle necessarie
riforme strutturali sulle quali il governo ha preso e sta per prendere nuove
decisioni di grande importanza.
L’Italia del lavoro e dell’impresa sa
come stanno le cose, vuole un deciso impulso alla libertà e alla concorrenza, e
non partecipa a giochi di potere, interni ed europei.
Sarebbe un bene se l’Italia dei
partiti e delle fazioni si scrollasse di dosso le vecchie abitudini negative, e
per una volta si mettesse a ragionare in sintonia con il paese reale
abbandonando il pessimismo e il catastrofismo.
Da qui possono partire il risanamento
e la ripresa”.
[FINE]
martedì 10 settembre 2013
Le due destre
Luigi Cavallaro
Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre"
Pubblicato il 17
febbraio 2008 su Il manifesto.
Ripreso il 20
febbraio 2008 da sinistrainrete qui.
Le due destre
Dodici anni fa, Marco Revelli
pubblicò un libro intitolato "Le due destre".
Vi si sosteneva che lo scenario
politico italiano vedeva contrapporsi non una destra e una sinistra, bensì due
destre, una tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra], l'altra populista e
plebiscitaria [il centrodestra].
Che entrambe avevano l'obiettivo di
offrire una sponda al processo di ristrutturazione in corso nel mondo
produttivo, smantellando le regole e le garanzie su cui si era costruito il
compromesso socialdemocratico della seconda metà del '900.
Che entrambe rimettevano al centro
del discorso politico l'impresa, in pro della quale si prefiggevano
privatizzazioni del patrimonio industriale pubblico, flessibilizzazione del
mercato del lavoro e tagli delle prestazioni sociali (dalle pensioni alla
sanità alla scuola).
E che, unite nei fini, esse si
distinguevano nei mezzi, la destra tecnocratica ed elitaria [il centrosinistra]
puntando essenzialmente alla mobilitazione dei ceti medi riflessivi in un
progetto di società individualizzata e competitiva, la destra populista e
plebiscitaria [il centrodestra] rivolgendo invece la propria offerta politica
alle fasce sociali che più avrebbero sofferto del crollo della domanda indotto
dalla dissoluzione del precedente patto sociale, vale a dire la piccola e media
impresa, i disoccupati, i precari, i sommersi (e mai salvati).
Si poteva eccepire che l'analisi non
teneva conto di alcune oggettive contraddizioni tra gli interessi della grande
e della piccola industria.
Che non considerava adeguatamente il
ruolo frenante che, rispetto al disegno liberalizzatore, avrebbero giocato
potenti interessi costituiti, taluni dei quali interni alla stessa area del
lavoro dipendente (specie pubblico).
Che non sviscerava fino in fondo le
premesse economiche su cui si era retto il compromesso sociale precedente, che
rimandavano alla costituzione economica impostasi in tutto l'Occidente durante
gli anni Trenta del secolo scorso.
Ma nell'insieme, si trattava di
un'analisi corretta e lungimirante, tanto più se si pensa che, nel 1996, le
uniche privatizzazioni di rilievo che si erano avute concernevano il sistema
bancario e le "controriforme di struttura" avevano toccato la sanità
e le pensioni, ma non ancora il mercato del lavoro.
Invece, dopo breve tempo,
quell'analisi cadde nel dimenticatoio.
Troppo forte era il contrasto fra
l'opinione che analisti, dirigenti ed elettori avevano del centrosinistra (e
dei Ds in primis) e l'acuta ipotesi di Revelli secondo cui proprio il
centrosinistra sarebbe stato l'hardware su cui avrebbe girato il software della
destra tecnocratica ed elitaria: occorreva una capacità di straniamento analoga
a quella che portò Copernico a intuire (e poi a dimostrare) che non era il sole
che girava intorno alla terra, ma l'esatto contrario.
Proprio per ciò, la tesi di Revelli
subì negli anni successivi uno slittamento concettuale e di campo affatto
radicale: le "due destre" scomparvero e lasciarono il posto a due
sinistre, l'una "moderata" e l'altra "radicale" (o
"antagonista"), che competevano per l'egemonia della rappresentanza
politica e sociale del mondo del lavoro.
La nouvelle vague delle "due
sinistre" trovò seguito soprattutto nell'entourage politico e
intellettuale della cosiddetta "sinistra radicale", che non poteva
tollerare il dubbio di cercare insistentemente accordi di desistenza o
programmatici con il proprio opposto, e certo giovò ai dirigenti della
"sinistra moderata" per convincere il proprio elettorato che no, non
c'era alcun "tradimento" della causa del mondo del lavoro e che si
trattava solo di "modernizzare" il proprio patrimonio culturale per
stare al passo coi nuovi tempi.
Sennonché, mentre il palcoscenico
della politica si sforzava di rappresentare al meglio quel copione, il
precipitare degli eventi s'incaricava di smentirne ogni possibile parvenza di
plausibilità, specie in relazione a quell'inoppugnabile cartina di tornasole
che è la politica economica.
In effetti, se ci chiediamo quale
politica economica sia lecito attendersi da un governo di centrosinistra, la
risposta è semplice: all'incirca, dovrebbe aumentare la pressione fiscale e la
spesa sociale, adoperarsi per la diminuzione della povertà e della disoccupazione,
imprimere una più rigida regolazione al mercato del lavoro, ridurre
l'occupazione "atipica" e il lavoro nero, guardarsi bene dal
privatizzare il patrimonio pubblico, promuovere la transizione tecnologica
della nostra struttura produttiva e mantenere nei confronti dei conti dello
stato un atteggiamento non più "rigoroso" di quello di Lord Keynes
(per il quale preoccuparsi del bilancio invece che dei disoccupati era degno di
un malato di mente).
Ebbene, tutti i dati dei dieci anni
trascorsi - inclusi gli ultimi due - ci dicono non soltanto che i governi
dell'Ulivo e dell'Unione non hanno fatto nulla del genere, ma che hanno fatto
esattamente l'opposto.
Per dirla tutta, i dati evidenziano
che il governo di centrodestra è stato nel complesso abbastanza "keynesiano",
per quanto si possa certamente discutere dell'uso che ha fatto della spesa
pubblica.
Ma questo non dovrebbe sorprendere
chi appena ricordi in quale complessa temperie ideologica maturarono le prime
realizzazioni del keynesismo (o più semplicemente quali siano i trascorsi
ideologici di Giulio Tremonti).
Oggi la scelta del PD di sopprimere
ogni riferimento alla "sinistra" e di "correre da solo"
alle elezioni consente finalmente di far chiarezza.
Per riprendere la metafora, è come se
tutti noi fossimo stati d'improvviso proiettati al di fuori del nostro sistema
solare, in modo da vedere che non è il sole a girare intorno alla terra, ma
appunto il contrario.
Non c'è nulla di polemico in queste
considerazioni: la realtà è realtà, e solo chi ha interesse a nasconderla (o
magari a non vederla) può scambiare la sua analisi con un attacco ad personam,
come fece la Chiesa quando Galileo disse che Copernico aveva ragione.
Resta piuttosto da dire che la
dimostrazione ex post factum della fondatezza dell'ipotesi delle "due
destre", oltre a spiegare al meglio i pressanti rumors di "grande
coalizione", costringe la sinistra a un'analoga operazione
chiarificatrice.
Troppe volte essa ha invocato i
rapporti di forza sbilanciati a favore della "sinistra moderata"
(cioè della destra tecnocratica) per mascherare un proprio deficit
programmatico e culturale.
Le difficoltà in cui si dibatte il
processo di costruzione de "la Sinistra l'Arcobaleno" ne sono sintomo
eloquente: senza una sintesi ordinatrice, non si possono tener insieme diritti
sociali e pratiche di autogestione, eguaglianza di opportunità e differenze
identitarie, lotta alla povertà ed ecologismo "radicale",
programmazione economica e libertarismo.
Se il programma economico su cui le
"due destre" stanno fondando la loro convergenza potesse nel medio
periodo funzionare, più o meno come funzionò il "fascismo
democristiano" negli anni 50, potremmo rinviare la questione a data da
destinarsi.
Ma quel programma, come ha
argomentato Emiliano Brancaccio su queste colonne, è costruito sull'argilla, e
può franare al minimo scossone della congiuntura internazionale.
Dunque bisogna chiarirsi, qui e ora.
[FINE]
Il testo aggiunto è
indicato tra parentesi quadrate.
domenica 8 settembre 2013
sabato 7 settembre 2013
Scopo dell’austerità è lo smantellamento dello Stato sociale
Paul Krugman
The Austerian Mask Slips
Pubblicato il 3
settembre 2013 sul blog “The Conscience of a Liberal”, qui.
Scopo dell’austerità è lo smantellamento dello Stato sociale
[ Traduzione di Giorgio D.M. ]
Simon Wren-Lewis guarda alla Francia,
e nota che si sta impegnando in una forte politica di austerità fiscale - molto
più forte di quella che sarebbe giustificata dalla sua situazione
macroeconomica.
Egli osserva, comunque, che la
Francia ha eliminato il suo disavanzo primario strutturale principalmente
innalzando le imposte piuttosto che riducendo la spesa pubblica.
Olli Rehn - che dovrebbe lodare i
francesi per la loro responsabilità fiscale, per la loro volontà di sfidare la macroeconomia
dei libri di testo adottando il
Vangelo dell’austerità 1 - è furioso, e dichiara che il rigore fiscale deve essere
attuato attraverso tagli della spesa pubblica.
Come nota Wren-Lewis, Rehn in questo
modo si è spinto in modo assolutamente chiaro al di là dei suoi compiti: la
Francia è una nazione sovrana, con un governo regolarmente eletto - e non sta,
per altro, chiedendo alcun aiuto speciale alla Commissione Europea.
Dunque Rehn non ha proprio alcun
motivo per dire alla Francia quanto ampia deve essere la sua spesa pubblica.
Ma la questione fondamentale qui,
certamente, è che Rehn ha lasciato cadere la maschera.
La questione non è la responsabilità
fiscale, non lo è mai stata.
La questione è sempre stata
l’utilizzo strumentale di esagerazioni sui pericoli del debito pubblico per
ottenere lo smantellamento dello Stato sociale. 2
Come osa la Francia prendere alla
lettera le false preoccupazioni sul deficit pubblico, e rifiutarsi di
rimodellare la sua società adottando i precetti liberisti?
[...]
[FINE]
1 Un esempio di come il Vangelo dell’austerità sfidi la macroeconomia dei libri di testo.
2 Un esempio di esplicita indicazione dell'obiettivo dello smantellamento dello Stato sociale.
2 Un esempio di esplicita indicazione dell'obiettivo dello smantellamento dello Stato sociale.
L'ossessione per le esportazioni stritola la Germania
Adam S. Posen
Germany Is Being Crushed by Its Export Obsession
Pubblicato il 3 settembre
2013 sul Financial Times.
Pubblicazione
disponibile sul sito del Peterson Institute for International Economics, del quale Posen è il presidente, qui.
L'ossessione per le esportazioni stritola la Germania
[
Traduzione di Giorgio D.M. ]
Se il
modello economico tedesco è il futuro dell’Europa dobbiamo tutti essere molto
preoccupati.
Ma sembra
proprio che sarà così.
La campagna,
apparentemente di successo, per la rielezione di Angela Merkel, il cancelliere
cristiano democratico, promette “il futuro della Germania in buone mani”.
Ancora di
più, in altre parole, della stessa cura.
La risposta
politica alla crisi della zona euro è probabile che rimanga un programma per
indurre gli Stati che ne fanno parte a seguire la via tedesca alla
competitività: la riduzione del costo del lavoro.
Non c’è un
errore; proprio la riduzione del costo del lavoro è stata la base del successo
delle esportazioni della Germania negli ultimi dodici anni, e le esportazioni
hanno costituito la sua unica fonte di crescita in questo periodo.
Ma una
nazione ricca non dovrebbe competere sulla base di salari bassi.
A partire
dal 2003, la diminuzione del tasso di disoccupazione è stata la conseguenza
della creazione di un grande numero di posti di lavoro con salari bassi e
part-time o con orari flessibili, privi dei benefici e delle tutele garantite
alle precedenti generazioni nel dopoguerra.
La Germania
oggi ha la quota più elevata, nell’Europa occidentale, di lavoratori con salari
inferiori al reddito nazionale mediano.
Gli
incrementi medi dei salari nell’ultimo anno sono stati maggiori dell’inflazione
e del tasso di crescita della produttività per la prima volta dopo più di un
decennio di stagnazione.
Idealmente,
un paese ricco dovrebbe rimanere competitivo attraverso la ricerca e sviluppo,
e gli investimenti di capitale.
Invece, gli
investimenti fissi lordi totali sono diminuiti continuamente in Germania, dal
24 per cento a meno del 18 per cento del PIL, a partire dal 1991.
La recente
indagine economica dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico (OCSE) afferma che gli investimenti in Germania sono stati
permanentemente ben al di sotto dei tassi delle altre principali economie del
G-7 a partire dal 2001 (e non solamente a causa delle bolle della metà degli
anni Duemila negli Stati Uniti e nel Regno Unito).
Anche il
piccolo miracolo dell’occupazione e il boom delle esportazioni iniziati nel
2003 non sono stati tali da indurre gli imprenditori tedeschi ad incrementare
gli investimenti - e gli investimenti in infrastrutture pubbliche sono stati
ancora più scarsi.
L’altro
modo con il quale una nazione ricca può rimanere in cima alla catena del valore
aggiunto, e competere così sulla base della produttività, è l’investimento nel
capitale umano - cioè istruire la sua forza lavoro.
In Canada,
Francia, Giappone, Polonia, Spagna, Inghilterra e negli Stati Uniti, la quota
di lavoratori giovani con un’istruzione avanzata è più alta che in Germania di
almeno il 10% - nella maggior parte di essi del 20% o anche di più.
La Germania
inoltre è una delle due uniche economie avanzate nelle quali la quota dei
giovani tra i 25 e i 34 anni con i titoli di studio più elevati è la stessa, o è
minore, che nelle generazioni precedenti (l’altra sono gli Stati Uniti).
La Germania
non ha investito nel suo sistema universitario pubblico mentre il settore
privato ha mantenuto ma non ampliato l’offerta dei suoi famosi apprendistati.
Il
risultato è che la crescita della produttività in Germania è stata bassa nel
confronto con i paesi ad essa pari.
La crescita
del PIL per ora lavorata è stata del 25 per cento al di sotto della media dei
paesi OCSE, sia risalendo fino alla metà degli anni Novanta che considerando
solo l’ultimo decennio - e sia includendo che escludendo gli anni della bolla
per quanto riguarda gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Con questi
risultati per quanto riguarda la produttività, non meraviglia il fatto che le
imprese tedesche competano solo per mezzo della riduzione dei salari relativi e
spostando la produzione a est.
Gli esempi
di aziende eccellenti nel settore Mittelstand - il settore delle imprese medie
e delle aziende a conduzione familiare - e le loro esportazioni di manufatti
verso la Cina non devono oscurare la realtà.
Come
Lawrence Edwards e Robert Lawrence del Peterson Institute mostrano nel loro
nuovo libro “Rising Tide”, la quota del settore manifatturiero sul totale
dell’occupazione è diminuita dello stesso ammontare negli ultimi 40 anni, di
circa il 15%, in quasi tutte le economie avanzate - inclusa la Germania.
Le uniche
due economie ricche nelle quali l’occupazione nel settore manifatturiero è
diminuita di meno sono l’Italia e il Giappone, nessuna delle quali è un motore
della crescita.
Le ragioni
di scambio per la produzione industriale - cioè il valore relativo dei prodotti
industriali fabbricati da un paese confrontato con quello di tutte le sue
importazioni di prodotti industriali - sono aumentate nello stesso modo sia per
gli Stati Uniti che per la Germania a partire dal 1990.
Non c’è
alcuna evidenza di un particolare successo della Germania nel settore
manifatturiero.
Qualcuno
potrebbe dire che la Germania sta semplicemente affrontando meglio la situazione nella quale si trovano le economie più ricche in un mondo
globalizzato - in particolare per quanto riguarda la pressione al ribasso
esercitata sui salari dei lavoratori poco qualificati in Occidente.
Certamente,
la Germania non è da sola con la sua crescente disuguaglianza e la riluttanza
delle sue imprese ad investire.
Una tale
valutazione, tuttavia, ci rende ciechi di fronte ai vantaggi che deriverebbero
da una agenda di riforme di diverso tipo, possibile sia per la Germania che per
la zona euro.
Il
sottoinvestimento della Germania è il risultato di profondi problemi
strutturali dell’economia, che non sono colpa del suo mercato del lavoro ora
più flessibile.
L’ossessione
per le esportazioni ha distolto l’attenzione dei politici dalla
ricapitalizzazione delle banche tedesche, dalla deregolamentazione del settore
dei servizi e dall’incentivazione della riallocazione del capitale verso nuovi
settori.
Inoltre,
gli investimenti pubblici in infrastrutture, l'istruzione e lo sviluppo
tecnologico potrebbero contribuire ad ampliare gli investimenti privati profittevoli,
il che porterebbe a una crescita con salari più alti.
La
dipendenza dalla domanda estera ha privato i lavoratori tedeschi di quello che
hanno guadagnato, e dovrebbero essere capaci di risparmiare e spendere.
Questo li
mantiene dipendenti dalle esportazioni per la crescita, in un circolo vizioso
che si auto-rinforza.
Ancora più
importante, questo significa che i lavoratori tedeschi si muovono verso il
basso lungo la catena del valore, in termini relativi, non verso l’alto.
Il
perseguimento della stessa politica da parte dei partner commerciali europei della
Germania rafforzerà queste pressioni.
La
compressione dei salari non è una strategia di crescita che avrà successo per
il futuro della Germania o dell’Europa.
[FINE]