Beardsley
Ruml
Tax Policies
for Prosperity
The Journal of Finance, Vol. 1, No. 1 (Aug., 1946),
pp. 81-90.
Una politica tributaria per la prosperità
[
Traduzione di Giorgio D.M. ]
Il nostro primo obiettivo oggi -
l’organizzazione di una pace mondiale giusta e duratura - richiede che le
relazioni economiche mondiali siano stabilite a partire dalle necessità
dell’umanità e dalla necessità di ordine.
Per il successo di tutti questi piani
internazionali è universalmente riconosciuto come indispensabile un elevato
livello di occupazione e di produzione negli Stati Uniti.
Con una grande prosperità, avremo
bisogno di grandi importazioni di materie prime, e troveremo il modo di
ottenere per noi stessi i vantaggi economici derivanti da minori dazi sui
generi alimentari e sui prodotti manifatturieri.
Con una grande prosperità, saremo
meno avidi di mercati di sbocco all’estero [foreign outlets] che impegnino la
nostra capacità produttiva in eccesso e saremo più desiderosi di vedere che le
nostre esportazioni sono dirette a soddisfare le necessità più essenziali del
mondo.
Con una grande prosperità, ridurremo
più facilmente quelle pratiche restrittive e quei pregiudizi discriminatori che
nascono dalla paura e generano disprezzo e odio.
Il primo requisito per la prosperità
sono quegli elementi basilari dai quali dipende tutta la produzione: le materie
prime, un’energia poco costosa e ampiamente disponibile, un sistema di
trasporti affidabile, una moneta solida, e una abbondanza e varietà di abilità
umane - scientifiche, meccaniche, artistiche, e gestionali.
Gli Stati Uniti sono ben forniti di
questi requisiti di base per la prosperità.
Non siamo così completamente forniti
di questi elementi da poterci isolare dal resto del mondo senza una perdita
economica e culturale, ma siamo abbastanza forniti da poter accedere con il
commercio a ciò di cui abbiamo bisogno e che desideriamo.
Il secondo requisito della prosperità
è l’organizzazione di questi elementi di base in un sistema funzionale di
produzione e distribuzione [working pattern of production and distribution].
Oggi vediamo chiaramente che, anche
se tutto il resto è organizzato, non è di alcuna utilità a meno che non abbia
un armonioso e accettabile fondamento in relazioni di lavoro [labor relations] soddisfacenti.
I conflitti che oggi si manifestano
non sono così semplici come talvolta sono descritti: come una controversia tra
due avversari, il capitale e il lavoro.
Oggi esistono quattro parti
direttamente interessate dal conflitto - i proprietari, gli amministratori, i
leader dei lavoratori, e i lavoratori - con milioni di lavoratori non
organizzati e piccoli imprenditori ai margini ma niente affatto al di fuori
della zona di pericolo nella quale si può incorrere in lievi danni o disastri.
L’obiettivo di fondo nel campo delle
relazioni di lavoro non è diverso dall’obiettivo di fondo nel campo delle
relazioni internazionali; e cioè eliminare l’uso della forza dalla composizione
delle liti e di stabilire al suo posto un sistema legislativo e giudiziario
basato sul consenso [a system of law and justice based on consent].
Non possiamo aspettarci di eliminare
le controversie e le dispute ma possiamo ridurne il numero e fare in modo che
le composizioni di esse siano raggiunte sulla base di principi riconosciuti, applicati
con giustizia e fatti rispettare adeguatamente.
In questo periodo di tensioni teniamo
bene a mente che quello che vogliamo fondamentalmente è eliminare l’uso della
forza nella composizione delle liti tra gli uomini in tutti i campi, in patria
e all’estero.
Quindi desideriamo portare nel campo
delle relazioni di lavoro, per la composizione delle liti quando esse sorgono,
un sistema di leggi riconosciute e una giustizia imparziale amministrata in
un’atmosfera di consenso.
Solo in questo modo possiamo ottenere
quell’elevato livello di prosperità produttiva nella democrazia [productive
prosperity under democracy] che abbiamo posto come nostro obiettivo.
Il terzo requisito per la prosperità
è il mantenimento di una domanda adeguata, effettiva, per i prodotti e i
servizi che siamo in grado di produrre.
Anche se abbiamo tutti gli elementi
di base per la produzione e li abbiamo organizzati in modo tale da poter
realizzare una produzione abbondante, senza una domanda effettiva che porti
questi prodotti al loro consumo, i canali della distribuzione si ostruiranno, i
mezzi di produzione diventeranno inoperosi, la disoccupazione di massa
apparirà, e la prosperità scomparirà.
Oggi sperimentiamo una domanda senza
precedenti per i prodotti industriali e agricoli.
Questa domanda è il risultato di
molti anni di scarsità e di un enorme potere di acquisto nelle mani delle
persone.
La domanda infatti è così grande che
molte restrizioni sono necessarie per impedire che essa si esprima in un
incremento inflazionistico dei prezzi.
In un periodo come quello attuale,
nel quale la domanda effettiva è così grande che regolamenti e controlli sono
ancora necessari per prevenire l’inflazione, è facile dimenticare che per tutti
gli anni Trenta, e probabilmente anche durante gli anni Venti, la domanda
effettiva non è stata sufficiente per movimentare tutti i prodotti che il
settore industriale e quello agricolo avrebbero potuto produrre.
E’ facile dimenticare che non sono
state attuate neppure quelle correzioni delle politiche e delle pratiche
passate che potrebbero assicurarci che periodi simili non si ripeteranno.
E’ per questa ragione che c’è la
necessità di considerare la politica fiscale nazionale come il principale
strumento che può aiutarci a mantenere una condizione di grande prosperità.
L’importanza della politica fiscale
nazionale nell’ottenere e mantenere un elevato livello di prosperità è così
grande che ci sono alcune persone che sopravvalutano quello che la politica
fiscale può fare, e che danno l’impressione che una solida politica fiscale di
per se stessa sia una panacea per tutti i nostri malanni economici.
Questo, ovviamente, è molto lontano
dal vero.
Le misure della politica fiscale
possono liberare la strada e possono essere d’aiuto, non possono produrre beni
e servizi, non possono dare occupazione.
Esse possono creare una situazione
nella quale un elevato livello di occupazione diviene possibile perché
l’industria, il lavoro e l’agricoltura trovano la strada.
Ma tutte le condizioni favorevoli relative
agli elementi di base e all’organizzazione degli uomini e dei materiali per la
produzione sono inutili se la domanda effettiva è insufficiente per mantenere
in moto gli ingranaggi.
Dobbiamo riconoscere che l’obiettivo
della politica fiscale nazionale è soprattutto quello di mantenere solida la
moneta ed efficienti le istituzioni finanziarie; ma coerentemente con questo
scopo di base, la politica fiscale deve e può contribuire molto all’ottenimento
di un elevato livello di occupazione produttiva e di prosperità.
Se una politica fiscale nel complesso
costruttiva deve essere approvata con leggi e applicata dall’amministrazione,
le misure correttive necessarie devono essere adottate dallo Stato sia nel ramo
legislativo che in quello esecutivo.
In questo momento, anche se si
raggiungesse un accordo per una politica fiscale e monetaria complementare o
integrativa dell’attività delle imprese private, non ci sarebbe la possibilità
di renderla operativa o effettiva nell’attuale organizzazione dello Stato
federale.
Poiché la politica tributaria [taxation]
è una delle più importanti parti della politica fiscale, discutiamo dei
principi della politica tributaria dello Stato.
Durante la guerra abbiamo imparato
molte cose sull’imposizione tributaria nella sua relazione con la politica
fiscale.
Se guardiamo alla storia finanziaria
degli anni recenti è evidente che le nazioni sono state capaci di pagare i
propri conti anche se i loro proventi tributari sono stati minori delle spese.
Quelle nazioni le cui spese sono
state maggiori degli incassi derivanti dalle imposte hanno pagato i loro conti
prendendo in prestito il denaro necessario.
Prendere in prestito il denaro, perciò,
è un’alternativa che gli Stati impiegano per integrare i proventi
dell’imposizione fiscale al fine di ottenere i mezzi necessari per il pagamento
delle loro spese.
Un governo che dipende dai prestiti e
dal rimborso di questi prestiti per ottenere il denaro di cui ha bisogno per le
sue attività è necessariamente dipendente dalle fonti dalle quali il denaro può
essere ottenuto.
In passato, se un governo persisteva
nell’indebitarsi pesantemente per coprire le sue spese, i tassi di interesse diventavano
sempre più elevati, e il governo doveva offrire sempre maggiori incentivi ai
prestatori.
Questi governi alla fine scoprivano
che l’unico modo in cui potevano mantenere sia la loro indipendenza che la loro
solvibilità era di imporre tributi abbastanza pesanti da soddisfare una parte
notevole delle loro necessità finanziarie, e di essere pronti - nel caso in cui
fossero stati posti sotto pressione - a imporre tributi ancora maggiori per
soddisfarle tutte.
La necessità per un governo di imporre
tributi per mantenere sia la sua indipendenza che la sua solvibilità è ancora vera
per una amministrazione pubblica locale ma non è più vera per un governo
nazionale.
Due cambiamenti della massima
rilevanza sono accaduti negli ultimi venticinque anni che hanno modificato
sostanzialmente la posizione degli Stati nazionali rispetto al finanziamento
delle loro necessità correnti.
Il primo di questi cambiamenti è
stato l’accumulazione di una vasta esperienza nella gestione delle banche
centrali.
Il secondo cambiamento è stato
l’eliminazione, per gli scopi interni, della convertibilità della moneta in
oro.
Ogni Stato nazionale nel quale esista una istituzione che funzioni come
una moderna banca centrale, e la cui moneta non sia convertibile in oro o in
un’altra merce, ha oggi conquistato la libertà assoluta dal mercato dei
capitali interno.
Gli Stati Uniti sono uno Stato
nazionale che ha una sistema bancario centrale, il Federal Reserve System, e la
cui moneta per gli scopi interni non è convertibile in oro o in un’altra merce.
Ne consegue che il nostro governo
federale è assolutamente libero dal mercato dei capitali nel soddisfare le sue necessità
finanziarie.
Perciò oggi, nel decidere la politica tributaria, si devono considerare
innanzitutto le conseguenze economiche e sociali di ciascuno e di tutti i
tributi.
Gli Stati nazionali non devono più imporre tributi per procurarsi i mezzi
per far fronte alle loro spese.
Perciò, dato che tutti i tributi hanno conseguenze sociali ed economiche,
il governo deve considerare queste conseguenze nella formulazione della sua
politica tributaria.
Tutti i tributi devono essere giudicati alla luce della politica
nazionale e dei loro effetti pratici.
Lo scopo politico che si intende raggiungere con determinati tributi non
deve mai essere nascosto sotto la maschera della necessità di incrementare le entrate dello Stato.
I tributi possono essere imposti per
raggiungere quattro principali scopi di carattere sociale ed economico.
Questi scopi sono:
- facilitare
la stabilizzazione del potere di acquisto della moneta, impiegando i
tributi come uno strumento della politica fiscale;
- esprimere
la politica pubblica per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza
e del reddito, come avviene nel caso delle imposte progressive sul reddito
e sul patrimonio;
- esprimere
la politica pubblica sussidiando o penalizzando i diversi settori industriali
e gruppi economici;
- isolare
e valutare direttamente i costi di certi servizi nazionali, come le
autostrade e la previdenza sociale.
Nel passato recente, abbiamo
impiegato il nostro programma di tributi federali consapevolmente per ciascuno
di questi scopi.
Nel perseguimento di questi scopi, la politica tributaria è un mezzo per
raggiungere un fine.
Gli scopi stessi sono una questione fondamentale di politica nazionale e
devono essere stabiliti, in prima istanza, indipendentemente da ogni programma
tributario nazionale.
Con ogni probabilità, il più importante
singolo scopo che deve essere perseguito con l’imposizione dei tributi è il
mantenimento di una moneta che abbia un potere di acquisto stabile nel corso
degli anni.
Talvolta questo scopo è affermato
come “evitare l’inflazione”; e senza l’impiego dei tributi tutti gli altri
strumenti di stabilizzazione, come la politica monetaria e il controllo dei
prezzi e i sussidi, sono inutili.
Tutti gli altri mezzi, in ogni caso,
devono essere integrati con la politica tributaria se dobbiamo avere domani una
moneta che abbia un valore prossimo a quello che essa ha oggi.
La guerra ha insegnato al governo e il governo ha insegnato al popolo,
che i tributi hanno molto a che fare con l’inflazione e la deflazione, con i
prezzi che devono essere pagati per i beni che sono acquistati e venduti.
Se i tributi sono insufficienti, o
del tipo sbagliato, il potere di acquisto nelle mani del pubblico è
probabilmente maggiore della produzione di beni e servizi con la quale questa
domanda di acquisto può essere soddisfatta.
Se la domanda diviene troppo grande,
il risultato sarà un incremento dei prezzi, e non ci sarà un incremento
proporzionale nella quantità dei beni posti in vendita.
Questo significherà che la moneta
varrà meno di quanto valesse prima.
Questa è l’inflazione.
D’altra parte, se i tributi sono
troppo pesanti o del tipo sbagliato, il potere di acquisto effettivo nelle mani
del pubblico sarà insufficiente per acquistare dai produttori di beni e servizi
tutto quello che questi produttori vorrebbero realizzare.
Questo significherà una diffusa
disoccupazione.
In breve, l’idea sottostante la nostra politica tributaria deve essere
questa: che i nostri tributi devono essere abbastanza elevati da proteggere la
stabilità della nostra moneta, e non più elevati di così.
Da un altro punto di vista, i nostri tributi devono essere ridotti finché
è possibile senza esporre il valore del nostro denaro al rischio di inflazione.
Minori sono i nostri tributi e maggiore sarà il potere di acquisto che
sarà rimasto disponibile nelle mani delle persone - denaro che possono spendere
per i beni che desiderano acquistare o che può essere risparmiato e investito
in qualsiasi modo decidano.
Segue dunque da questo principio che le nostre aliquote fiscali [tax rates] possono e devono essere abbassate fino al punto in cui il bilancio
statale sarà in pareggio in corrispondenza con quel livello di occupazione che
noi consideriamo un soddisfacente livello di elevata occupazione.
Se noi fissiamo le nostre aliquote
fiscali a un livello maggiore di questo, riduciamo senza alcuna necessità il
denaro che gli individui potranno spendere e investire, e perciò rendiamo per
noi più difficile il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e il
suo mantenimento.
C’è un ampio consenso sul fatto che
un soddisfacente elevato livello di occupazione negli Stati Uniti, dopo la
guerra, corrisponda a un reddito nazionale, agli attuali livelli dei prezzi,
pari ad almeno 140 miliardi di dollari, e quindi noi dobbiamo fissare le nostre
aliquote fiscali in modo tale da portare in pareggio il bilancio in
corrispondenza con un reddito nazionale di 140 miliardi di dollari, e non di
120 miliardi o inferiore.
Non vogliamo che il nostro sistema tributario lavori contro di noi lungo
tutto il percorso verso il raggiungimento di un elevato livello di occupazione.
In realtà, potremmo non raggiungere mai un elevato livello di occupazione
se stabiliamo delle aliquote fiscali troppo elevate.
Ovviamente, i tributi devono essere ridotti dove la riduzione darà il
maggiore beneficio nel creare la domanda dei consumatori e nell’incoraggiare
gli investimenti privati.
I primi tributi che devono essere eliminati sono le imposte sul consumo - tranne che quando queste siano
imposte per scopi di regolamentazione.
Se è vero che il nostro primo obiettivo
è quello di migliorare le condizioni di vita delle masse, quale migliore strada
può essere individuata del lasciare alle persone il reddito che è già nelle
loro mani?
Quale metodo per restituire alle
persone potere di acquisto è altrettanto accettabile dal punto di vista
politico del lasciare innanzitutto loro quello che hanno?
Poi, e ad
alcuni questa sembra una conclusione curiosa, l’imposta sui redditi delle società deve essere abolita.
Nello stesso tempo, devono essere
adottate le misure necessarie per impedire che l’impiego delle società per lo
svolgimento delle attività economiche possa essere un mezzo per evitare il
pagamento delle imposte sui redditi individuali o per costituire delle riserve non
necessarie e non utilizzate, o per acquisire dei vantaggi tributari nei confronti
di coloro che esercitano le attività economiche senza ricorrere a società.
Infatti, dopo le imposte sul consumo e le accise, le imposte sui redditi
delle società sono quelle che pesano di più sulle condizioni di vita delle
persone; e nello stesso tempo ostacolano il flusso dei risparmi verso gli
investimenti.
E’ impossibile sapere esattamente chi
paga e quanto paga delle imposte sui profitti delle società.
L’azionista paga una parte di esse,
nella misura in cui il ritorno sul suo investimento è minore di quello che
sarebbe se non ci fossero imposte.
Ma è ugualmente certo che l’azionista
non paga tutta l’imposta sui redditi delle società.
In realtà potrebbe pagarne una parte
minima.
Dopo un certo periodo di tempo,
l’imposta sui redditi delle società è considerata come uno dei costi della
produzione ed è traslata in prezzi più elevati praticati per i beni e i servizi
offerti dalla società, e in salari minori, nonché in condizioni di lavoro
peggiori di quelle che potrebbero essere altrimenti.
Le ragioni per le quali l’imposta sui
redditi delle società è traslata devono essere comprese chiaramente.
Nella attività di una società, il
management, mosso dalla ricerca dei profitti, mantiene sotto controllo quanto
rimane del profitto sul suo capitale investito.
Dato che la società deve pagare
l’imposta sul suo reddito prima che si abbiano i profitti netti, le imposte
sono considerate - come ogni altra spesa non controllabile - come un onere che
deve essere coperto con prezzi più elevati o con costi minori.
Dato che tutte le imprese in
competizione nello stesso segmento del mercato ragionano nello stesso modo, i
prezzi e i costi tenderanno a stabilizzarsi a un livello che produrrà un
profitto, dopo le imposte, sufficiente per dare alle imprese l’accesso a nuovo
capitale a un prezzo ragionevole.
Quando questo finalmente avviene,
come deve avvenire se il settore deve mantenersi in piedi, l’imposta sui
redditi delle società sarà stata largamente assorbita da prezzi più elevati e
da salari minori.
L’effetto dell’imposta sui redditi
delle società è perciò quello di innalzare i prezzi e di ridurre i salari di un
ammontare indeterminabile.
Entrambe le tendenza sono nella
direzione sbagliata e sono dannose per il benessere pubblico.
Il governo può permettersi di
cancellare l’imposta sui redditi delle società?
Questa non è davvero la questione.
La questione è questa: l’imposta sui
redditi delle società è un modo vantaggioso di applicare tributi alle persone -
i consumatori, i lavoratori, gli investitori - che dopo tutto sono gli unici
veri contribuenti?
E’ chiaro da ogni punto di vista che
gli effetti dell’imposta sui redditi delle società sono pessimi.
Gli scopi pubblici che la politica
tributaria deve servire non sono perciò serviti bene.
L’imposta è incerta nei suoi effetti
con riferimento alla stabilizzazione della moneta, ed è ingiusta come parte di
una imposizione progressiva sul reddito individuale. Essa tende ad innalzare i
prezzi dei beni e dei servizi. Essa tende a mantenere i salari a un livello
minore di quello che raggiungerebbero altrimenti
Essa riduce il rendimento degli
investimenti e ostacola il flusso dei risparmi verso le imprese.
L’eliminazione della imposta sui
redditi delle società dal sistema tributario incrementerà l’efficacia delle
nostre politiche fiscali e monetarie e, ampliando i mercati dei beni e dei
servizi, rafforzerà le imprese nel loro compito di produrre beni, fornire
occupazione, e dare alle persone un posto dove i loro risparmi possano essere
investiti.
Una volta che il sistema tributario sarà stato riformato dopo la guerra,
dovrà essere compiuto ogni sforzo per mantenerlo semplice e comprensibile.
Una continua modificazione della struttura dei tributi produce solamente
confusione, incertezza, e una costosa amministrazione.
Anche se dobbiamo accettare
l’esistenza di deficit quando c’è disoccupazione, essi saranno strettamente
proporzionati all’emergenza.
La politica tributaria suggerita non
prevede deficit permanenti di bilancio come un elemento necessario nell’economia.
Al contrario, i disavanzi pubblici consentono di mantenere quella grande espansione
dell’attività economica privata che sarebbe impedita dalla riduzione del debito
pubblico.
Queste politiche non richiedono, né
giustificano, la spesa fine a se stessa, né approvano le spese inutili.
Ho affermato che la politica
tributaria di base è: ridurre i tributi in modo tale da portare il bilancio in
pareggio in corrispondenza di un elevato livello di occupazione, in
corrispondenza di un elevato livello di occupazione. [La ripetizione è dell'Autore]
Questa semplice affermazione richiede
alcuni chiarimenti per essere applicata in modo appropriato nel decidere la
politica da attuare.
Il fatto è, e lo confesso senza
vergogna, che il termine “bilancio” [budget] è estremamente ambiguo; e non lo userei
affatto se un altro termine, che ora definirò, fosse capito e accettato da
tutti.
Innanzitutto, dobbiamo riconsiderare
quello che intendiamo con il termine “bilancio”.
Nell’interesse della chiarezza,
propongo che il termine “bilancio” sia confinato a quegli strumenti finanziari
che di volta in volta ricadono sotto la giurisdizione del direttore del
bilancio federale.
Questa concezione, sebbene chiara e
precisa, limita l’importanza del bilancio per la politica fiscale e monetaria,
a una posizione subordinata, per quanto importante.
E’ evidente che il “bilancio” in
questo senso non ha un significato economico, né monetario, né finanziario,
tranne che per il fatto che è parte di un insieme più ampio.
La sua importanza è di carattere amministrativo, e il pareggio di questo
bilancio non è altro che il pareggio dei conti che si è deciso di tenere
insieme per convenienza amministrativa.
Non c’è perciò alcun problema di carattere
economico o finanziario associato con il bilancio come è stato definito qui.
E’ possibile tuttavia, estendere il
concetto di bilancio, cioè della pianificazione finanziaria, per includere
tutte le transazioni finanziarie dello Stato.
Chiamiamo questo concetto più ampio
“superbilancio” [superbudget].
Il superbilancio includerebbe non
solo il bilancio come lo abbiamo definito, ma anche la previdenza sociale e
altri conti fiduciari, incluse le attività correnti di diverse società
pubbliche, come la Export-Import Bank e la Commodity Credit Corporation, che
oggi non sono incluse nel bilancio.
Il termine “superbilancio” non deve
essere inteso come una indicazione qualsivoglia della sua dimensione assoluta
ma solo della sua completezza.
Il governo può integrare in un unico
schema la totalità delle sue transazioni finanziarie, e di conseguenza
acquisire la capacità di giudicare ciascuna transazione rispetto a un’altra e
ciascuna transazione nei confronti del tutto.
Il Governo potrebbe perciò sviluppare
una politica con riferimento al
superbilancio e questa politica, quando esista, potrebbe essere indicata come
la politica fiscale del governo.
La politica fiscale, dal momento che
si applicherebbe al superbilancio, includerebbe, come sue componenti, la
politica di bilancio, la politica tributaria, la politica del credito interna e
internazionale, la politica dell’indebitamento, e così via, e trascenderebbe
queste particolari politiche riunendole nel superbilancio complessivo.
Per comprendere come il superbilancio
sia collegato con l’attività economia e finanziaria della comunità nazionale, è
necessario fare una ulteriore distinzione tra quelli che possono essere
chiamati il superbilancio “della moneta” e il superbilancio “del reddito”.
Il superbilancio “della moneta” è
quello che vediamo se prendiamo una copia stampata del superbilancio. Esso consisterebbe
della descrizione delle voci in entrata e in uscita e degli importi in dollari
associati a ciascuna di esse. Questo superbilancio della moneta è quindi una
proiezione delle transazioni finanziarie pianificate e in quanto tale ha un
significato principalmente finanziario.
Ma oltre ad essere una proiezione
delle transazioni finanziarie, sotto la superficie del superbilancio c’è anche
una proiezione dei suoi effetti sul reddito nazionale.
Il carattere di questa proiezione non
è evidente nelle cifre superficiali del superbilancio, e può essere giudicato
solo con una stima di ciò che c’è sotto, cioè con lo sviluppo di un
superbilancio “del reddito”.
Il superbilancio del reddito, essendo
una proiezione degli effetti desiderati sul reddito nazionale, ha un
significato che è principalmente economico.
Il superbilancio della moneta può
essere redatto precisamente; il superbilancio del reddito può essere
predisposto solo approssimativamente entro ampi margini di errore.
Tuttavia, nonostante questo carattere
approssimato del superbilancio del reddito, la politica fiscale deve tenere
conto di entrambi, perché sono di natura diversa e non possono essere impiegati
in modo intercambiabile.
L’ampiezza dell’effetto sul reddito
di ogni categoria di entrate o di spese sarà differente di volta in volta, esso
potrebbe in realtà essere positivo o negativo considerando alcuni tipi di
transazioni finanziarie.
Ovviamente, la scelta di un
determinato valore per una determinata transazione finanziaria in un certo istante
temporale deve basarsi su di un giudizio derivante dall’esame e dell’analisi di
quella evidenza statistica o qualitativa che può essere o può diventare
disponibile.
Esiste un certo scetticismo in molti
ambienti sulla possibilità di costruire un superbilancio del reddito perché gli
effetti sul reddito non sono noti precisamente e potrebbero non essere mai conosciuti.
Questo scetticismo è giustificato se
è inteso come un avvertimento contro il considerare il superbilancio del
reddito con la stessa certezza con la quale si considera il superbilancio della
moneta, o quasi con la stessa certezza; lo scetticismo non è giustificato se
scoraggia lo studio delle conseguenze logiche delle decisioni finanziarie rese
evidenti con la predisposizione del superbilancio della moneta; o se ci impedisce
di trarre conclusioni ampie a proposito della politica fiscale desiderabile,
sia pure all’interno di ampi margini di errore.
Come risposta finale a coloro che
obiettano contro l’uso del superbilancio del reddito a causa del suo carattere necessariamente
approssimato, si deve notare che gli effetti sul reddito delle transazioni
finanziarie esistono sia che esse siano stimate o no, e che la realtà economica
svelata del superbilancio del reddito esiste, sia che esso sia stato predisposto
o no.
Conseguentemente, le deduzioni
riguardanti la politica fiscale e il reddito nazionale tratte dalle cifre del
superbilancio della moneta sono di fatto basate sulla più improbabile delle
assunzioni, e cioè che il superbilancio della moneta e quello del reddito siano
identici e che possano essere utilizzati l’uno al posto dell’altro; o, per
dirlo in un altro modo, che tutte le entrate e tutte le spese abbiano gli stessi
effetti sul reddito. Questo è, a mio parere, ovviamente falso.
Le definizioni, distinzioni e
deduzioni compiute sinora possono essere riassunte così:
1.
Il
termine “bilancio” è stato limitato alle sole transazioni finanziarie previste
sotto la giurisdizione del Ministero del bilancio, e il termine “superbilancio”
è stato introdotto per riferirsi alla totalità delle transazioni finanziarie
sotto il controllo dello Stato.
2.
Le
questioni di politica fiscale sono connesse non con il bilancio ma con il
superbilancio, dal momento che è nel superbilancio che si proietta l’impatto
finanziario complessivo dello Stato sull’economia; da questo impatto si possono
dedurre le conseguenze economiche; e nel potere di variare l’impatto
finanziario, e quindi le conseguenze economiche, si può esprimere la politica
fiscale nazionale.
3.
Con
riferimento al superbilancio abbiamo distinto tra il superbilancio della moneta
e il superbilancio del reddito. (a) Il superbilancio della moneta è una
proiezione delle transazioni finanziarie pianificate e come tale ha
un’importanza principalmente finanziaria. (b) Il superbilancio del reddito, che
deriva dal superbilancio della moneta, è una proiezione dell’impatto in termini
di effetti sul reddito nazionale e come tale ha un’importanza principalmente
economica.
4.
A
causa del variare degli effetti sul reddito dei diversi elementi del
superbilancio, il superbilancio della moneta e il superbilancio del reddito non
sono la stessa cosa e non possono essere utilizzati l’uno al posto dell’altro.
5.
Perciò,
le questioni della politica fiscale devono essere esaminate separatamente nei
loro effetti sull’uno e sull’altro superbilancio.
La maggior parte delle controversie
riguardanti la politica fiscale nazionale scaturiscono dall’incapacità di
distinguere tra (a) il superbilancio della moneta,
e (b) il superbilancio del reddito, e
di separare le questioni che sono rilevanti per l’uno da quelle che sono
rilevanti per l’altro.
Possiamo ora riformulare i principi
della nostra politica tributaria così: le aliquote fiscali devono essere fissate in
modo tale da portare in pareggio il superbilancio del reddito ad un elevato
livello di occupazione, ad un elevato livello di occupazione.
Lasciatemi ripetere che la nostra
preoccupazione a proposito della politica fiscale, espressa in queste
osservazioni, non deve portarci a sopravvalutare questi problemi, per quanto
importanti essi possano essere.
Le misure fiscali e monetarie sono
principalmente degli strumenti di supporto che ci aiutano ad attuare azioni
correttive e preventive, il merito delle quali deve essere valutato impiegando
altri termini di riferimento.
Decisioni come le fonti delle entrate
dello Stato, o gli obiettivi della spesa pubblica, la stessa dimensione del
superbilancio - sono decisioni che comportano questioni di politica nazionale
che trascendono la politica fiscale.
Ma dobbiamo essere certi - e qui la politica fiscale è importante - che una politica e una pratica fiscale
sbagliate non ci impediscano più di raggiungere gli obiettivi che noi, come
nazione, ci siamo posti.
Mi sembra che una grande promessa per
il futuro possa essere contenuta nella considerazione di questi superbilanci
della moneta e del reddito, perché essi forniscono una prova di come un
programma fiscale positivo può produrre effetti economici desiderabili nel
quadro di un atteggiamento basato sulla prudenza finanziaria.
E’ chiaro, ad esempio, che un
programma tributario deve nascere da una esplicita politica fiscale, le cui
diverse parti devono essere internamente coerenti.
E’ chiaro che le decisioni
riguardanti il programma tributario devono essere basate in parte sui fatti e
in parte su giudizi.
E’ chiaro che l’amministrazione del
programma richiederà l’azione di diverse agenzie che dovranno lavorare insieme
come una squadra.
Su questo punto, sulle politiche
fiscale e monetaria, nelle quali le relazioni tra il governo e le imprese sono
della massima importanza per la risoluzione dei problemi dell’occupazione e
della produzione in tempo di pace, le imprese possono giustamente essere
preoccupate.
Possono essere preoccupate non che le
intenzioni del governo possano essere ostili o anche solo indifferenti ma che,
a meno che non si compia il necessario lavoro organizzativo preparatorio, il
governo non sarà capace di mettere in esecuzione neppure il più elementare
programma di collaborazione.
Le imprese vogliono una politica
fiscale che le aiuti a creare prodotti buoni, buoni posti di lavoro, e buoni
investimenti.
Le imprese non si aspettano una
politica fiscale nazionale che lavori al loro posto.
Domandano una cooperazione nel
mantenere un flusso di domanda di acquisto che abbia una generale
corrispondenza con quello che l’agricoltura, il lavoro e l’industria sono
capaci di produrre e distribuire.
Con un tale flusso di domanda di
acquisto possiamo evitare la regolamentazione, mantenere un elevato livello di
occupazione e innalzare le condizioni di vita a nuovi livelli per tutto il
popolo.
[FINE]
Beardsley Ruml fu un direttore, dal
1937 al 1947, della New York Federal Reserve Bank, della quale fu anche
presidente dal 1941 al 1946, e fu consigliere di Herbert Hoover e Franklin
Delano Roosevelt. Partecipò inoltre, con un ruolo chiave, alla Conferenza di
Bretton Woods, che nel 1944 stabilì il sistema monetario internazionale del
dopoguerra.
N.B. Il corsivo è dell’articolo, il
grassetto è mio.
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