sabato 28 dicembre 2013

L'economia della paura



Paul Krugman

The Fear Economy

New York Times, 26 dicembre 2013.
Pubblicazione disponibile qui



L’economia della paura

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Più di un milione di disoccupati americani stanno per ricevere il più crudele dei “regali” di Natale.
I Repubblicani presenti nel Congresso ripetono con insistenza che chi non ha trovato un lavoro dopo mesi di ricerca non l’ha trovato perché non si è impegnato abbastanza per trovarlo.
Quindi è necessario un incentivo maggiore, quello che dà una vera disperazione.
Perciò, le condizioni dei disoccupati, già terribili, stanno per diventare ancora peggiori.

Ovviamente, coloro che hanno un lavoro stanno molto meglio.
Tuttavia la perdurante debolezza del mercato del lavoro comporta un costo anche per loro.
Parliamo quindi delle difficili condizioni dei lavoratori occupati.

Alcuni vorrebbero farvi credere che il rapporto di lavoro sia una transazione di mercato come un’altra; i lavoratori hanno qualcosa da vendere, che i datori di lavoro vogliono acquistare, e quindi semplicemente si mettono d’accordo.
Ma chiunque abbia mai avuto un lavoro nel mondo reale - o anche abbia mai letto le vignette di Dilbert - sa che non è affatto così.

Il fatto è che il rapporto di lavoro comporta generalmente una relazione di potere: hai un capo, che ti dice cosa fare, e se ti rifiuti puoi essere licenziato.
Questa non è necessariamente una cosa cattiva.
Se i datori di lavoro tengono ai propri dipendenti non gli chiedono cose impossibili.
Ma non si tratta di una semplice transazione.
C’è una famosa canzone country intitolata “Take This Job and Shove It” [prendi questo lavoro e fottiti].
Non c’è e non ci sarà mai una canzone intitolata “prendi questo bene di consumo durevole e fottiti”.

Così il rapporto di lavoro è una relazione di potere, e l’elevato tasso di disoccupazione ha grandemente indebolito la già debole posizione dei lavoratori in questa relazione.

Possiamo quantificare questa debolezza guardando al tasso delle dimissioni - la percentuale dei lavoratori che abbandonano volontariamente (l’opposto di essere licenziati) il proprio lavoro ogni mese.
Ovviamente, ci sono molte ragioni per le quali un lavoratore o una lavoratrice può voler lasciare il suo lavoro.
Dare le dimissioni, comunque, è un rischio; a meno che un lavoratore o una lavoratrice non abbia già un nuovo lavoro, non sa quanto tempo impiegherà per trovarne uno nuovo, e come sarà questo nuovo lavoro rispetto a quello lasciato.
E il rischio nel dare le dimissioni è molto maggiore quando la disoccupazione è elevata, e ci sono molte più persone alla ricerca di un lavoro di quanti siano i posti di lavoro vacanti.

Dunque ci si aspetterebbe di vedere che il tasso delle dimissioni aumenta durante i periodi di crescita economica e diminuisce durante le recessioni, e questo è quello che avviene.
Le dimissioni sono crollate durante la recessione durata dal 2007 al 2009, e sono aumentate di nuovo solo parzialmente successivamente, riflettendo la debolezza e l’inadeguatezza della nostra ripresa economica.

Ora, si pensi a cosa questo significa per il potere contrattuale dei lavoratori.
Quando l’economia è forte, il potere contrattuale dei lavoratori aumenta.
Possono dimettersi se non sono contenti di come sono trattati e sanno che possono trovare velocemente un nuovo lavoro se sono lasciati andare.
Quando l’economia è debole, invece, i lavoratori hanno un potere contrattuale molto debole, e i datori di lavoro possono farli lavorare più duramente, o pagarli meno, o fare entrambe le cose.

C’è qualche evidenza del fatto che questo è quello che sta accadendo?
Eccome.
Lo stato dell’economia, come ho detto, è tuttora debole e inadeguato, ma tutto il peso di questa debolezza è sopportato dai lavoratori.
I profitti delle imprese sono crollati durante la crisi finanziaria, ma poi sono tornati velocemente ai livelli precedenti la crisi, e hanno continuato ad aumentare.
In realtà, oggi, i profitti al netto delle imposte sono più elevati del 60% rispetto al livello del 2007, precedente l’inizio della recessione.
Non sappiamo quanta parte di questo incremento dei profitti possa essere spiegato dal fattore paura - dalla possibilità di spremere i lavoratori che sanno di non avere un altro posto dove andare.
Ma il fattore paura deve per lo meno essere una parte della spiegazione.
In realtà, è possibile (anche se niente affatto certo) che gli interessi delle imprese siano meglio soddisfatti da un’economia un po’ depressa di quanto lo sarebbero in una condizione di piena occupazione.

Ma quello che è più importante è che non penso che sia eccessivo spingersi sino a suggerire che questa realtà aiuti a spiegare perché il nostro sistema politico abbia voltato le spalle ai disoccupati.
No, non penso che ci sia un complotto segreto degli amministratori delegati delle imprese per mantenere debole l’economia.
Ma penso che il fatto che le imprese stiano ottenendo buoni risultati sia la principale ragione per la quale ridurre la disoccupazione non è una priorità politica, anche se l’economia è schifosa per i lavoratori.

E una volta capito questo, si capisce perché è così importante modificare le priorità politiche.

C’è stato un dibattito piuttosto strano tra i progressisti ultimamente, con alcuni che sostengono che il populismo e la condanna della diseguaglianza siano un diversivo, e che invece la piena occupazione dovrebbe essere la priorità.
Come alcuni dei principali economisti progressisti hanno evidenziato, invece, la piena occupazione è essa stessa un obiettivo populista: il mercato del lavoro debole è la principale causa dell’indebolimento dei lavoratori, e l’eccessivo potere delle imprese e dei ricchi è la principale ragione per la quale non stiamo facendo nulla per la creazione di posti di lavoro.

Troppi americani vivono oggi in un clima di paura economica.
Ci sono molte misure che possiamo prendere per mettere fine a questo stato di cose, ma la più importante è rimettere in agenda la creazione di posti di lavoro.


[FINE]



mercoledì 25 dicembre 2013

L'economia è depressa per i lavoratori ma non per le imprese




Paul Krugman

Why Corporations Might Not Mind Moderate Depression

Pubblicato il 25 dicembre 2013 sul blog The Conscience of a Liberal, qui.



L'economia è depressa per i lavoratori ma non per le imprese

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Sì, è Natale - ma gli eventi familiari non inizieranno che tra alcune ore, e voglio seguire il filo del ragionamento che ho incominciato ieri.

Ho evidenziato, prendendo spunto dalla lettura di Mike Konczal, che il permanere del mercato del lavoro in una situazione difficile rafforza la posizione contrattuale dei datori di lavoro, perché incrementa il loro potere.
Ma questo comporta effettivamente che la condizione dei datori di lavoro sia migliore in un’economia un po’ depressa piuttosto che in un’economia in crescita?

Molte persone hanno la reazione istintiva di affermare che ciò non può essere possibile - che le imprese preferirebbero avere una domanda più forte, anche se ciò significa che dovrebbero pagare i loro lavoratori di più e trattarli meglio.
E forse questo è vero.
Ma non si tratta affatto di una questione che si possa risolvere facilmente.

Supponiamo (come io sto di fatto supponendo) di adottare come riferimento una qualche teoria basata sul salario di efficienza, per la quale lo sforzo che i datori di lavoro possono ottenere dai loro dipendenti dipenda anche dallo stato del mercato del lavoro.
Così possiamo pensare che ogni singola impresa abbia una funzione di profitto f(N,U,...) nella quale N è il numero dei suoi dipendenti, U è il tasso di disoccupazione, e i puntini indicano una quantità di altre variabili che trasformerebbero questa funzione in un modello completo.
A parità delle altre condizioni, ciascuna impresa sceglierà il livello dell’occupazione N che massimizza i suoi profitti.

Ma, così facendo, le imprese non terranno conto dell’effetto complessivo delle loro decisioni di assunzione sul tasso di disoccupazione U.
Certamente ogni singola impresa ha un effetto trascurabile sul tasso di disoccupazione. Ma complessivamente le imprese di fatto determinano il tasso di disoccupazione - e un elevato livello del tasso di disoccupazione, abbiamo detto, aumenta il loro potere nei confronti dei lavoratori, e quindi i loro profitti.
Come dicevo, a parità di condizioni.

Così un'economia debole potrebbe in effetti servire come uno strumento di coordinamento per le imprese, ad esempio perché le trattiene dal competere troppo aspramente per i lavoratori, consentendo loro di esercitare un potere di monopsonio maggiore.
Questo effetto positivo dovrebbe essere confrontato con l'effetto negativo diretto sulla redditività di una domanda debole, ma non c'è nessuna regola che dica che le imprese ottengano dei risultati peggiori in un'economia depressa; le imprese potrebbero di fatto ottenere dei risultati migliori.

(Proverò a definire dei modelli formali per tutto questo e se qualcuno vuole partecipare è il benvenuto)

Cosa è successo effettivamente in questa economia depressa?
Be’, proprio questo è quello che motiva la riflessione.
Vedete, dal punto di vista dei profitti quella attuale non è affatto un'economia depressa.
Guardate l’andamento dei profitti rispetto all’andamento dei redditi da lavoro dipendente (somma dei salari e dei benefit) a partire dalla recessione iniziata alla fine del 2007 (entrambi sono espressi come indici con il valore del quarto trimestre del 2007 posto pari a 100).






I profitti hanno subito un colpo durante la crisi finanziaria, ma sono saliti alle stelle dopo di allora, e sono oggi del 60 per cento al di sopra dei livelli precedenti la crisi; i redditi da lavoro dipendente nello stesso tempo sono cresciuti pochissimo, e di fatto sono diminuiti in termini reali pro capite.

Il punto è che abbiamo un'economia depressa per i lavoratori, ma niente affatto depressa per le imprese.

Quanto di questo sia dovuto al problema del potere contrattuale è ovviamente qualcosa che non sappiamo, ma lo scollamento tra l'economia in generale e i profitti non può essere negato.
Un'economia depressa può essere o può non essere effettivamente un bene per le imprese, ma evidentemente non le colpisce più di tanto.

Ora, per quanto riguarda l'economia politica: non credo che dobbiamo pensare a un complotto degli amministratori delegati per cercare di mantenere l'economia in uno stato di depressione.  
Tutto quello che è necessario per avere questo risultato è che il grande capitale trovi soddisfacente dal suo punto di vista questo stato dell’economia, così che anche i politici, che danno ascolto al grande capitale, perdano l’interesse per i disoccupati.
E’ possibile riempire un intero volume con la lista degli amministratori delegati che possono essere a favore di una campagna per la riduzione del debito pubblico, ma non ne troverete neppure uno a favore di una campagna per il rilancio dell’economia.

Così l’economia rimane depressa.



[FINE]




Poliziotti e studenti




Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia

Dichiarazione del Segretario Generale Felice Romano

Roma, 9 dicembre 2013.
Pubblicazione disponibile qui.


Quanto accaduto a Torino, a Genova e in tutte le altre città, nonostante i soliti delinquenti professionisti del disordine che hanno dato sfogo alla loro indole criminale e violenta, senza però riuscire a separare il “Paese” (cittadini e poliziotti), merita un plauso a tutti quei colleghi di tutte le forze di polizia che oggi, in modo professionale e coraggiosamente hanno detto simbolicamente basta alla lontananza della politica governativa e dei palazzi del potere rispetto ai danni che stanno producendo contro le famiglie e i lavoratori di questo paese.
Togliersi il casco in segno di manifesta solidarietà e totale condivisione delle ragioni a base della protesta odierna di tutti i cittadini che hanno voluto gridare basta allo sfruttamento e al soffocamento dei lavoratori e delle famiglie italiane, è un atto che per quanto simbolico dimostra però che la misura è colma e che i palazzi, gli apparati, e la stessa politica ormai sono lontani dai problemi reali dei cittadini e troppo indaffarati ai giochi di potere per la propria sopravvivenza e conservazione della casta.
Ecco perché il governo in primis e il ministro Alfano a seguire, bene farebbero al ascoltare il Sindacato e prima ancora i cittadini di questo Paese; giacché la misura e colma e se non si inverte questa tendenza a chiedere sempre e maggiori sacrifici in cambio di nulla, a maggior ragione quando non si da il buon esempio cominciando a rinunciare i propri privilegi che sono tanti, anzi troppi, si ricordino il passaggio biblico nel quale si afferma: “terribile sarà l’ira degli onesti”.
Lo afferma Felice Romano, Segretario Generale del SIULP in una nota nella quale, nel commentare le straordinarie immagini in cui gli appartenenti alle forze di polizia si sono tolti il casco in segno di condivisione e rispetto delle ragioni della protesta, senza per questo rinunciare o abdicare al proprio dovere di garantire la sicurezza pubblica e di fermare i violenti, sottolinea come questo epilogo fosse scontato rispetto al grido di allarme che il SIULP, a nome dei poliziotti, sta lanciando da tempo e che il governo continua a non raccogliere.
Speriamo che questo segnale sia da monito ai palazzi del potere, alle caste, al governo ma anche a tutti i violenti e i professionisti del disordine.
Questa volta nessuno riuscirà a separare il “Paese” sano costituito dai lavoratori, dalle famiglie e dai servitori dello Stato, come accaduto negli anni di piombo.
Che il governo ne tragga le dovute e necessarie conseguenze.
Il SIULP sarà a fianco e con questi colleghi per dire basta allo sfruttamento e al maltrattamento dei poliziotti e dei cittadini, per dire ascoltate la voce del popolo.


[FINE]




Kollettivo studenti in lotta

Comunicato stampa

Brescia, 13 dicembre 2013.
Pubblicazione disponibile qui.


Un corteo pacifico di 250 studenti medi è partito stamattina da piazza Garibaldi e si è riversato nelle strade della città per protestare contro le politiche di austerità e per chiedere una scuola sicura, la immediata ristrutturazione dei numerosi edifici scolastici fatiscenti della provincia, una scuola “a misura di studente” e soprattutto uno stop al continuo aumento del prezzo di libri e trasporti.
In via 20 settembre gli studenti hanno deciso di fermarsi all’incrocio con via Saffi, per bloccare il traffico e far sentire maggiormente la loro voce.
Dopo alcune trattative con la polizia per stabilire la durata del blocco, quando gli studenti stavano per ripartire in corteo, l’arrivo del capo della Digos, dottor Destavola, ha fatto precipitare la situazione: il dirigente ha ordinato una carica contro gli studenti inermi, i celerini hanno sferrato manganellate alla testa e al viso di diversi giovani provocando contusioni, in particolare uno studente è stato ferito al naso e al labbro.
Nonostante l’inaudita violenza della polizia gli studenti si sono dimostrati determinati e convinti a portare avanti la loro lotta e il corteo è ripartito compatto verso piazza della Loggia che doveva essere il luogo di scioglimento.
La manifestazione invece è proseguita dirigendosi verso l’Agenzia delle Entrate, ritenuta un obiettivo in quanto organo del Ministero delle Finanze adibito alla riscossione delle tasse che gravano ogni giorno di più sui lavoratori e sui ceti sociali più deboli della popolazione riducendo il potere d’acquisto degli stipendi dei dipendenti e gravando sui redditi bassi di molte fasce del lavoro autonomo.
Davanti agli uffici dell’agenzia delle entrate, dove la polizia si era nuovamente schierata sono stati fatti alcuni interventi per spiegare il motivo della scelta di tale obiettivo e c’è stato un fitto lancio di uova contro l’edificio come forma di simbolico sanzionamento dal basso.
Quest’azione è stata anche una presa di posizione in merito alle proteste in corso da parte del Movimento 9 Dicembre di cui si condivide la netta critica nei confronti della casta e dell’Europa delle banche e della dittatura della finanza ma da cui ci distingue il rifiuto verso forme di strumentale presenza di forze fasciste e razziste.
Il corteo si è sciolto davanti all’edificio occupato di Via Marsala 40, per indicare una risposta alla crisi attraverso la riappropriazione, la conflittualità e l’affermazione dei bisogni delle persone vittime della crisi.
La manifestazione si è conclusa dimostrando la determinazione a proseguire il percorso di mobilitazione senza essere stati intimoriti dalla repressione poliziesca subita e dandosi appuntamento per mercoledì 18 dicembre alle ore 15 al Magazzino 47 dove si decideranno le prossime iniziative.


[FINE]



Il teorema della piscina



Alberto Bagnai

L’uscita dall’euro prossima ventura

Il manifesto, 22 agosto 2011.
Disponibile inizialmente sul sito de Il manifesto, qui, poi cancellato.
Ripubblicato e commentato dall’Autore il 29 novembre 2011 sul blog Goofynomics, qui.



Il teorema della piscina




Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato?
Una domanda simile a quella di Rossanda.
Aristide, economista di sinistra, mi raggelò:
“caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro.
Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.”
Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”.
Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare.
Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua.
Bella democrazia in un intellettuale di sinistra!
Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo.
“Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio.
Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui.
Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi.
La nemesi è  nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali.


Il debito pubblico non c’entra.

Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico.
Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma”  seguita al crollo del muro.
Questo a Rossanda è chiaro.
Le ricordo che  nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei).
Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate.
Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato).
Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione?
Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede.
Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori.
Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia.
Cosa accomuna questi paesi?
Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione.
Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”.
I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).


Inflazione e debito estero.

Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti.
La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia.
Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza.
Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano.
Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit).
Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus.
Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni.
E se, come i Pigs, non ci riescono?
Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si indebita con l’estero per finanziare le proprie importazioni.
I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62).
Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.


Lo spettro del 1992.

E l’Italia?
Dice Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”.
Non è più vero.
Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi?
Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”?
Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili.
Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata).


Cui Prodest?

Calata nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di classe.
Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività.
Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo.
La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena.
Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici.
Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici.
La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno.
Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando).
Alla domanda di Rossanda “non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non c’è stato nessun errore.
Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a guida democristiana accomodatevi.
Lo dice il manuale di Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati.


Più Europa?

Secondo la teoria economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione.
Una “soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli squilibri esterni).
È il famoso “più Europa”.
Un esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare?
Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia).
Dopo cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania.
L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”.
Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri.


Deutschland über alles.

Le soluzioni “a valle” dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche quelle “a monte”.
La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista.
Bisognerebbe prevedere simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di inflazione.
Il coordinamento del quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo.
Ma il peso dei paesi “virtuosi” lo impedirà.
Perché l’euro è l’esito di due processi storici.
Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco.
Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda  dei paesi emergenti.
Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24).
I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita.
I dati dicono il contrario.
La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso,  sostiene la crescita tedesca.
E la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando.
Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania?
Lo dice il manuale di Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?).
Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania).


La svalutazione rende ciechi.

È un film già visto.
Ricordate lo Sme “credibile”?
Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero fissi.
In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?).
La Germania viaggiava su una media del 2%. 
La competitività italiana diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991 l’Italia dovette svalutare.
Svalutazione!
Provate a dire questa parola a un intellettuale di sinistra.
Arrossirà di sdegnato pudore virginale.
Non è colpa sua.
Da decenni lo bombardano con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo.
Non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità.
Ma cosa accadde dopo il 1992?
L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94.
Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil).
La bolletta energetica migliorò (da -1.1 a -1.0 punti).
Dopo uno shock iniziale, l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001.
La lezioncina sui danni della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa.


Irreversibile?

Ma tutto questo Rossanda non lo sa.
Sa che la svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste, quindi...
Quindi cosa?
Veramente Rossanda è così ingenua da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e politica (e come tale reversibile)?
Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera.
Ma porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992.
Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del default.
Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”?
Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo.
È già successo e succederà.
“I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”.
Altra idiozia.
Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero.
È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero.
Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito.
Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%.
Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani.


Non faccia la sinistra ciò che fa la destra.

Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta.
Sta alla sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata.
Non sto parlando delle prossime elezioni.
Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime.
E gli schizzi di sangue stonano meno sul grembiule rosso.
Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra.
Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo dall’euro.
Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo.
“Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen.
Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta.
Si espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi.
Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra.
Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di sinistra.
Questo spiega tanta unanimità di vedute.


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Il rapporto di lavoro è una relazione di potere




Paul Krugman

The Plight of the Employed

Pubblicato il 24 dicembre 2013 sul blog The Conscience of a Liberal, qui.



Il rapporto di lavoro è una relazione di potere

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Mike Konczal scrive di come le istituzioni politiche statunitensi abbiano perso interesse per i lavoratori disoccupati, e di quale scandalo sia questo.
Egli, però, solleva una questione importante che sospetto giochi un ruolo significativo nell'economia politica di questo scandalo: questi sono tempi molto difficili anche per i lavoratori occupati.

Perché?
Perché hanno così poco potere contrattuale.
Se si lascia o si perde il lavoro, le probabilità di ottenere un altro lavoro simile, o un qualsiasi altro lavoro, non sono affatto buone.
E i lavoratori lo sanno: il tasso delle dimissioni, la percentuale dei lavoratori che lasciano volontariamente il lavoro, resta molto al di sotto dei livelli precedenti alla crisi, e molto, molto, al di sotto di quello che era nel vero boom economico della fine degli anni '90.







Ora, si può credere che il rapporto di lavoro sia una relazione di mercato come qualsiasi altra - con un compratore e un venditore, e che si debbano solo mettere d’accordo.
Si può anche credere a Babbo Natale.
La verità è che il rapporto di lavoro è, in molti casi se non in tutti, una relazione di potere.
Quando la congiuntura economica è favorevole, o quando i lavoratori sono protetti da norme di tutela e/o da sindacati forti, questa relazione può essere relativamente simmetrica.
In tempi come questi, invece, la relazione di potere tra i datori di lavoro e i dipendenti è estremamente asimmetrica: sia i datori di lavoro e che i dipendenti sanno che i datori di lavoro possono sostituire facilmente i dipendenti, mentre è molto difficile che i dipendenti possano trovare un nuovo lavoro per sostituire quello perso.

Posso suggerire che ai datori di lavoro, anche se non lo ammetteranno mai in pubblico, piace questa situazione?  
Questa economia ancora debole comporta infatti un significativo vantaggio per i datori di lavoro.
Non mi spingerei fino al punto di dire che c'è un’azione deliberata tesa a mantenere l'economia in una condizione di debolezza; ma le imprese americane certamente non stanno soffrendo molto, e le condizioni difficili nelle quali si trovano i lavoratori costituiscono effettivamente un vantaggio dal punto di vista delle imprese.



[FINE]