Giorgio La Pira
L’attesa della povera gente
Cronache
sociali, n. 1, del 15 aprile 1950.
Tratto,
con qualche modifica, da Federico Caffè, La dignità del lavoro, a cura di
Giuseppe Amari, Castelvecchi, Roma 2014.
La politica economica e finanziaria del Vangelo
I.
L’attesa della povera gente
(disoccupati e bisognosi in genere)? La risposta è chiara: un governo a
obiettivo, in certo modo, unico: strutturato organicamente in vista di esso: la
lotta organica contro la disoccupazione e la miseria.
Un governo, cioè, mirante sul serio
(mediante l’applicazione di tutti i congegni tecnici, finanziari, economici,
politici adeguati) alla massima occupazione e, al limite, al “pieno impiego”.
Altra attesa “rispetto al governo” la
povera gente né aveva, né ha: senza saperlo essa fa propria la tesi dell’”Economist”
del febbraio scorso: il “pieno impiego” è l’imperativo categorico fondamentale
di un governo che sia consapevole dei compiti nuovi affidati agli Stati
moderni.
Ma volere seriamente la massima occupazione
e, al limite, il pieno impiego, significa accettare alcune premesse e volere
alcuni strumenti senza l’uso dei quali non è possibile raggiungere quel fine.
II.
C’è anzitutto una premessa di natura
squisitamente cristiana: è vano “per un governo “parlare di valore della
persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta
al fine di sterminare la disoccupazione e il bisogno, che sono i più terribili
nemici esterni della persona.
Il documento inequivocabile della
presenza di Cristo in un’anima e in una società è stato definito da Cristo
medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di
quell’anima e di quella società verso le creature bisognose. 1
Vi sono disoccupati? Bisogna
occuparli. La parabole dei vignaioli è decisiva in proposito: tutti i
disoccupati che nelle varie ore del giorno oziavano forzatamente nella piazza “perché
nessuno li aveva ingaggiati: nemo nos conduxit!” furono occupati;
esempio caratteristico di “pieno impiego”: nessuno fu lasciato senza lavoro
(Mt. 20,7).
Vi sono creature bisognose? Affamati?
Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi
efficacemente il cuore e la mano (Mt. XXV, 31-46): l’esempio di questa “propensione”
all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente
cura del ferito (Lc. 34).
E si badi: non si tratta soltanto
(come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita di azione di
singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no,
si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l’intiera struttura
e la essenziale finalità del corpo sociale 2.
Costruire una società cristianamente
significa appunto costruirla in modo che essa garantisca a tutti il lavoro,
fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il “pane
quotidiano” (cioè vitto, alloggio, vestiario combustibile, medicine, per sé e
per la propria famiglia) 3.
Solo così si può realizzare il fine
che san Tommaso assegna a una società cristiana: garantire a tutti la
possibilità di quel “riposo” restauratore e della preghiera che è l’atto che
segue. Per dir così, al lavoro, che costituisce l’operazione ultima, la più
delicata e la più pacificante e gioiosa della persona 4.
E’ questa una premessa che gli uomini
di governo devono tener ferma nella loro mente: stella polare della loro azione
politica, giuridica, finanziaria: dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a
tutti; sopra queste finalità prime, improrogabili, elementari, deve essere costruito
l’intero edificio dell’economia, della finanza, della politica, della cultura:
la libertà medesima, respiro della persona, è in certo modo preceduta e
condizionata da queste primordiali esigenze del lavoro e del pane 5.
Orazione fondamentale del Signore:
Dacci oggi il nostro pane quotidiano!
III.
Questa fondamentale premessa
cristiana è, del resto, convalidata da una altrettanto fondamentale premessa
economica: premessa, è vero, che non vige nell’orbita dell’economia classica,
ma che è posta a base di tutto l’edificio dell’economia nuova 6: la
disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è perciò,
uno spreco di forze produttive (oltre che essere un disastramento morale e
spirituale della persona) 7.
E la ragione è evidente: i disoccupati
esistono, se esistono devono vivere, per vivere devono consumare. Consumare
senza produrre: è questo il paradosso economico della disoccupazione.
La povera gente “che ha buonsenso” non
si dà pace quando riflette su questa incongruenza dell’attuale struttura dell’economia:
ma come, con tante case da costruire, con tante terre da bonificare, con tanti
beni essenziali da produrre, con tante “aree depresse” da elevare, si può
permettere l’esistenza di tanti milioni di braccia operose?
E si tenga conto, inoltre, del fatto
del “moltiplicatore”: per uno che cessa di lavorare cessano di lavorare altri
(concetto tecnico in Di Fenizio, Economia politica, pp. 456 e segg.).
Come mai sia possibile questo vero “impazzimento”
8 economico e morale la povera gente non lo capisce; essa comprende
che c’è qualcosa di specioso, di fondamentalmente errato, nella risposta
inumana che comunemente si dà per giustificare questo triste fenomeno della
disoccupazione: Non c’è denari!
Il problema è complesso, si sa, ma
una soluzione positiva di esso non può non esistere. La Provvidenza dà in
proposito un insegnamento sicuro: per ogni bambino che nasce, nascono due fonti
di latte destinate ad alimentarlo!
E poi c’è sempre l’altra risposta:
Mancano i danari? Eppure vivere bisogna, per vivere bisogna consumare e per
consumare bisogna spendere: quindi, in ultima analisi, i danari si trovano
sempre, necessariamente!
Qui viene proprio da dire: più che i
danari manca l’impegno necessario per mettere in circolazione il talento unico
messo sotto terra! E’ un problema di “dinamica” della volontà, della tecnica
inventiva, della finanza, dell’economica, della politica 9.
Che queste intuizioni della povera
gente (basate sulle cose e sul Vangelo) non siano scientificamente errate lo
dimostra l’impostazione delle più moderne teorie economiche.
Sentite Beveridge (Relazione §198)
che riporta da Keynes: “E’ meglio occupare gente a scavare buche e a ricolmarle
che non occuparla affatto (cfr. §301): le persone occupate inutilmente daranno
occupazione ad altre con quello che guadagnano e spendono. E’ meglio occupare
gente, comunque venga trovato il danaro per pagarle, che non occuparle affatto:
l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane che non potrà
mai essere rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario”.
A proposito del “moltiplicatore”, il
Beveridge soggiunge: “Ogni atto ha una catena infinita di conseguenze; perciò l’atto
di dare impiego a un disoccupato e di pagargli un salario non si esaurisce lì.
L’uomo che viene assunto e percepisce un salario superiore alla somma che egli
riceveva a titolo di sussidio per la disoccupazione o di assistenza (quando
la riceve!) spenderà per la maggior parte o interamente il suo reddito
addizionale in beni e servizi forniti da altri e darà occupazione ad altri.
Costoro a loro volta avranno un reddito maggiore: ne spenderanno una parte
dando luogo a una nuova occupazione e così via. Fintanto che in una comunità vi
saranno dei disoccupati, il dare un’occupazione retribuita a uno di essi
aumenterà il numero degli occupati di più di una unità, e aggiungerà alla
produzione nazionale più di quello che egli da solo produce. L’effetto primo
verrà moltiplicato grazie ai secondi e ai terzi effetti”.
Questa premessa economica “che indica
l’occupazione come essenziale finalità di un’economia sana a causa degli
incrementi produttivi che necessariamente ad essa si collegano” è ora divenuta
la stella polare della politica economica dei più grandi Stati del mondo:
prescindendo dagli Stati a struttura comunista, ad essa si ispirano la Gran
Bretagna (con la politica del pieno impiego sostanzialmente condivisa da tutti
i partiti) 10 e gli stessi Stati Uniti di America 11. L’obiettivo
della massima occupazione sta alla base della politica economica che gli Stati
Uniti perseguono all’interno e all’estero: il piano Erp medesimo non esiste, in
ultima analisi, senza un intrinseco rapporto con tale obiettivo 12.
Occupare tutte le unità lavorative, e
quindi incrementare la produzione e, con essa, il tenore di vita degli uomini: è
l’imperativo categorico che si impone agli Stati e ai governi del tempo nostro
(“Economist”, cit.) 13.
IV.
Se la disoccupazione deve essere
eliminata “obiettivo fondamentale di uno Stato moralmente, socialmente ed
economicamente sano “devono essere voluti e usati i mezzi per eliminarlo:
questi mezzi si riassumano in uno solo: la spesa.
E infatti cosa è, in ultima analisi,
la disoccupazione? Spesa non fatta: occupazione e disoccupazione si analizzano
in queste posizioni: spesa che determina occupazione e, quindi, produzione;
carenza di spesa che determina deficienza nella domanda dei beni e quindi
disoccupazione, e quindi, carenza di produzione 14.
Il perno di tutta la nuova teoria
economica sta qui, Keynes esplicitamente lo dice: l’occupazione dipende
dalla spesa, e la spesa può essere di due specie: spesa di consumi, spesa
per l’investimento. Quel che viene risparmiato, ossia quel che non viene speso
in beni di consumo, crea occupazione soltanto se viene investito, o cioè speso
per accrescere l’attrezzatura di beni capitali, quali le fabbriche, i
macchinari, le navi, o ad accrescere le scorte di materie prime (Beveridge, op.
cit. §120) 15. Proporzionare la spesa “e, quindi, la produzione”
alla occupazione: ecco il problema.
V.
Anzitutto, chi opererà questo
proporzionamento? Basterà, cioè, che lo Stato decida alcuni provvedimenti
finanziari economici e politici a favore dell’iniziativa privata perché si
operi automaticamente la spesa voluta e, perciò, il desiderato assorbimento
della manodopera disoccupata?
No: che lo Stato abbia il dovere di
favorire l’iniziativa privata in modo da orientare, stimolarne e accelerarne il
ritmo produttivo e, quindi, la capacità di spesa e di occupazione, non c’è
dubbio; ma non v’è parimenti dubbio che per questa via indiretta non si opererà
mai il pieno impiego della manodopera: “l’automatico proporzionamento” è una di
quelle pseudoarmonie economiche che l’esperienza dolorosa e permanente della
disoccupazione ha sempre smentito.
“La rivoluzione operata nel pensiero
economico da J.M. Keynes” dice Beveridge, op. cit. §140, ”e aiutata dall’esperienza
degli anni dopo il 1930 sta nel fatto che non viene più assunta come sicura
l’adeguatezza della domanda di manodopera. L’analisi keynesiana porta alla
conclusione che, anche astraendo dalla depressione ciclica, vi può essere
deficienza cronica o pressoché cronica nella domanda complessiva di manodopera,
per cui la piena occupazione si presenta fuggevolmente in casi rari (cfr. §25; §120
e §126) 16.
Non bastano, quindi, i provvedimenti
del primo tipo: bisogna prenderne altri di tipo diverso. Bisogna, cioè, che lo
Stato intervenga direttamente con un piano organico di investimenti capaci di
operare, a scadenze determinate, il graduale assorbimento della manodopera
disoccupata; questi “massicci” investimenti pubblici costituiscono, del resto,
uno stimolo efficacissimo per gli investimenti privati.
Il proporzionamento, perciò, della
spesa all’occupazione non può essere determinato e attuato che dallo Stato 17:
spetta al governo la determinazione del quanto della spesa (in base al numero
discriminato dei disoccupati), calcolando la parte di spesa indiretta (operata
dall’iniziativa privata per effetto dei provvedimenti di cui si è parlato) e
quella di spesa diretta (mediante piani organici di attività produttiva
pubblica).
Circa il numero discriminato dei
disoccupati, Fanfani (in “Oggi”, 2 marzo 1950) 18 ci dà alcuni dati
che possono essere una base per il calcolo della spesa. “Grosso modo”, egli
dice, “detratta la disoccupazione temporanea fisiologica o di frizione, ci sono
in Italia un milione e seicentomila uomini, donne e ragazzi maggiori di 14 anni
che vorrebbero guadagnarsi il pane e non possono. Rimossi alcuni dei ricordati
ostacoli (di cui egli ha parlato prima), l’iniziativa privata potrebbe ridurre
i senza lavoro a un milione e quattrocentomila: ai duecentomila giovani fra i
14 e i 18 anni in esso compresi si dovrebbe provvedere con corsi di
addestramento professionale spendendo venti miliardi. Per dar lavoro al
restante milione e duecentomila occorrerebbe nel primo anno disporre in media
di seicento miliardi di lire”.
I calcoli di Fanfani sono quelli di
un realizzatore: di uno, cioè, che vuole fare e che, pur non nascondendosi l’estrema
difficoltà dell’impresa, è deciso ad attuarla ad ogni costo; sono calcoli
fondati sulla realtà e lievitati dalla speranza (per chi agisce a favore dei
propri fratelli c’è sempre, immancabilmente, una provvidenza materna che
diventa moltiplicazione misteriosa ma reale di aiuti: è un’attiva incognita
finanziaria ed economica di cui bisogna sempre tener conto, come dato certo,
nella definizione dei bilanci). I disoccupati sono forse di più? Ci vogliono più
di seicento miliardi? Ma il problema si pone in altro modo, e cioè: se si
spendono realmente, produttivamente e rapidamente (spezzando tutte le
invecchiate e arteriosclerotiche resistenze della burocrazia) seicento miliardi
di investimenti pubblici, si riuscirà davvero “il lavoro produce lavoro!” a
occupare circa un milione di disoccupati; ma un milione di disoccupati occupati
significa una vera rivoluzione economica nel nostro Paese. C’è il “mistero”
produttivo del moltiplicatore (la moltiplicazione dei talenti, non bisogna mai
dimenticare il valore reale del Vangelo!): un milione di occupati in più
significa la scomparsa quasi integrale della disoccupazione in Italia 19.
VI.
Ma la spesa pubblica non esclude
quella privata, anzi la presuppone: perché la disoccupazione sia assorbita è
necessario che sia orientata, stimolata e accelerata la spesa privata. Bisogna,
anzi, in certo modo, calcolare il volume di spesa che deve essere prodotto da
questo stimolo e da questo acceleramento: ai seicento miliardi preventivati di
spesa pubblica bisogna aggiungerne altri di spesa privata. Quanti? La risposta
non è facile a darsi: se usiamo i criteri di Fanfani, possiamo dire non meno di
cento miliardi.
L’obbiezione di fondo è facile: una
nuova spesa privata di queste dimensioni in una situazione di “depressione”
economica come quella attuale? Con una politica finanziaria che è orientata
verso la contrazione della circolazione della spesa? Con un’instabilità grave
di tutto il settore agricolo dove l’impiego e la circolazione del capitale
provato tendono, in certo senso, a sparire?
La risposta è chiara: questa nuova
spesa privata suppone l’eliminazione di questi gravi ostacoli allo “scorrere”
del risparmio verso gli investimenti: suppone, cioè, un cambio di orientamento
nella politica finanziaria ed economica (monetaria, creditizia, fiscale) del
governo; e suppone anche una stabilizzazione sociale nel settore dell’agricoltura:
pensare meno alle leggi “che servono poco” e più alla spesa “che serve molto” (costruzione
di case, industrializzazione delle culture, bonifica dei terreni incolti e, in
genere, stabile occupazione del bracciantato).
Dette queste cose “che concernono il
governo” bisogna dirne altre che concernono i privati: il risparmio ha
valore solo come strumento di spesa capace di creare nuova occupazione e,
quindi, nuova produzione. Altra legittimità sociale esso non possiede: è
una legge economica (il risparmio è di per sé un fatto puramente negativo:
significa non spendere; il risparmio in sé non ha alcuna virtù sociale. La virtù
sociale del risparmio da parte di una persona dipende dal fatto che vi sia
qualche altro che desidera spendere tale risparmio. Beveridge, op. cit. §123),
ed è anche una legge della vita morale: Non vogliate tesaurizzare, dice
categoricamente il Vangelo (Mt. VI, 19). La condanna del risparmiatore avaro è
tremendamente rappresentata nel pauroso che empì i suoi granai senza pensare
alla morte che lo attendeva (Lc. XII, 16): risparmiare per spendere o far
spendere (il talento non doveva essere sotterrato ma almeno consegnato ad
altri capaci di metterlo a frutto (Lc. XIX, 22; Mt. XXV, 14-30); questa è la “politica
economica e finanziaria” del Vangelo.
Ecco ciò che i privati possessori di
risparmi devono capire: è una tremenda responsabilità quella che grava sopra di
loro, morale ed economica insieme: perché il risparmio non speso equivale a
lavoro mancato e, quindi, a disoccupazione aumentata.
Ecco perché il problema del risparmio
“cioè il problema delle fonti di spesa” è il problema fondamentale, in certo
modo, di una comunità statale: sopra di esso poggia, appunto, come su una base,
l’edificio della piena occupazione (cfr. Beveridge, op. cit. §124).
Ma la disoccupazione creata o
aumentata significa lesione grave dell’ordine morale, dell’ordine economico e
dell’ordine sociale; su questa lesione, come sul terreno propizio, si radicano
le piante parassite dell’odio e del sovvertimento (cfr. Beveridge, Prefazione).
VII.
Bisogna spendere: deve spendere lo
Stato, devono spendere i privati. Ma come? Disordinatamente o, invece,
organicamente, cioè alla stregua di certi programmi di produzione che si
distendono nel tempo (spesa pianificata a lungo termine?). La risposta è ovvia:
spendere organicamente secondo piani determinati (Beveridge, §32, p. 202; §209).
Non bisogna lasciarsi impressionare dalle parole: “pianificare” significa
mettere ordine, orientare verso uno scopo; significa che il sistema economico e
finanziario di uno Stato, anzi “l’intero sistema economico e finanziario e
mondiale” non può più essere lasciato a se stesso, ma deve essere finalizzato
in vista di scopi proporzionati all’occupazione e ai bisogni essenziali dell’uomo.
Lo stesso piano Erp, in ultima analisi, ad altro non dovrebbe mirare. Chi vuol
costruire saldamente una casa e chi vuol fare efficacemente una guerra (qui:
guerra efficace alla disoccupazione e alla miseria) 20 deve “pianificare”
la propria azione affinché essa dia un risultato felice (Lc. XIV, 28).
Quali obiettivi avranno questi piani?
Evidentemente essi saranno scelti secondo un criterio di priorità sociale
(Beveridge, §35; pp. 198, 214 e segg.). Vi sono dei bisogni essenziali che
attendono di essere rapidamente soddisfatti: case da costruire (perché non
estendere e accelerare i piani esistenti?), energia da produrre, terre da
bonificare, aree depresse da industrializzare; quanto bene da compiere, quanto
amore concreto da seminare, quanta speranza e quanta gioia da donare!
VIII.
Come finanziare questi piani? Dove
trovare i danari occorrenti per questa spesa? Ecco: prima di rispondere a
queste domande “che potrebbero provocare la risposta pigra: non ci sono i
danari perché il bilancio dello Stato è in deficit “bisogna fare una premessa:
l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane, che non potrà
mai esser rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario
(Beveridge, §198). Bisogna capovolgere il modo comune di impostazione del
problema, cioè proporzionare la cassa alla spesa e la spesa all’occupazione; si
comprende, è un’impostazione del problema che esige un grande sforzo di
riflessione, di volontà creatrice. Partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal
danaro, cioè dal mezzo.
E’ questa un’impostazione secondo il
Vangelo (perché una impostazione umana dell’economia attira la benedizione di
Dio e opera dei veri miracoli, incognita di ogni calcolo generoso!) ed è anche
un’impostazione economicamente sana (perché tra l’altro i danari per dar da
vivere ai disoccupati bisogna trovarli necessariamente).
Questa impostazione esige che il
Ministro del Tesoro (o quello del Bilancio o quello delle Finanze) rovesci, per
dir così, il suo modo usuale di considerare la finanza dello Stato e il
bilancio dello Stato 21; tale bilancio deve essere compilato con
riferimento non più al danaro ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini
da occupare, tanti danari da spendere. Deve diventare un bilancio a “scala”
umana (Beveridge §182) 22.
Questo “rovesciamento”, del resto,
non è poi così nuovo nella politica economica e finanziaria dei grandi Stati
moderni: a parte gli Stati a struttura comunista, i grandi Paesi dell’Occidente
(dalla Gran Bretagna all’America) costruiscono ormai i loro bilanci “anche se
con graduazioni diverse” in vista del pieno impiego e del più alto tenor di
vita della popolazione 23.
E allora in concreto cosa fare? Ecco,
bisogna cominciare: chi ben comincia è a metà dell’opera! Il Ministro del
Tesoro lo sa, basta iniziare con poco per muovere molto: con appena duecento
milioni di erogazioni effettive (a tutto dicembre 1949), il piano case Fanfani
ha già provocato investimenti effettivi, e quindi lavoro, per dieci miliardi di
lire!
Dove trovare le “fonti”, le “buche”
nelle quali stagna il risparmio? Vorrei fare queste domande: si può
sinceramente affermare che il fondo lire non avrebbe potuto costituire (e non
lo può ancora) “intelligentemente manovrato” una fonte preziosa di tanto lavoro
produttivo?
Una manovra veloce di trecento
miliardi avrebbe potuto, in questi due anni, portare tanta acqua al terreno
arso della nostra disoccupazione (per uno studio attento e non certo sospetto,
cfr. Valerio in “Rivista di Politica economica”, gennaio 1950).
E poi c’è l’altra faccia del fondo
lire: quella dell’impiego dei dollari Erp per l’acquisto di attrezzature
industriali: anche qui quale pigrizia e, cioè, quanto lavoro impedito e quanta
produzione non ottenuta (dice Valerio p. 21: “L’Italia è, quindi, al penultimo
posto, seguita solo dalla Germania per la quale sono evidenti le
giustificazioni”).
Ancora: e quei 466 miliardi di debitori
diversi (situazione Banca d’Italia al 31 dicembre 1949) cosa rappresentano?
Le famose valute pregiate? Ma non è un assurdo questa euforia di crediti esteri
mentre all’interno facciamo languire, per mancanza di spesa e, quindi,
investimenti, due milioni di uomini? Faccio mie questa parole pensose (E. Cambi
in “Rivista bancaria”, sett.-ott., p. 78 a proposito del non uso del fondo
lire): “Considerata la disoccupazione che si lamenta e poiché è certa l’esistenza
di materiali, o in ogni caso sicura la possibilità di approvvigionarli, l’utilizzazione
dei messi finanziari, con risultati provvidi ed efficaci, si presenterebbe del
tutto piana e naturale, oltre che necessaria. In sostanza esiste un importante,
diremo fondamentale, strumento per dare, in varie forme, alla vita economica
del Paese impulso e vigore, e non si usa o si stenta a usarlo. E’ saggio?”.
Ancora: si può sinceramente dire di
avere “inventariato” tutte le banche nelle quali stagnano miliardi di risparmio
inoperoso? Ha mai il Ministro del Tesoro avuto in proposito qualche colloquio
con i dirigenti delle massime banche italiane che sono tutte, o quasi, dello
Stato?
Ancora: e il ricorso a prestiti
esteri? E lo sfruttamento razionale del patrimonio demaniale? E il metano?
Quante terre incolte, quanti beni inoperosi!
Un buon amministratore mette a
profitto ogni cosa per dar incremento alla sua azienda e lavoro ai suoi operai.
Quante altre cose da dire: problema
dei residui passivi, problemi delle aziende Iri, problema del Fim, dell’Imi, e
così via.
Conclusione. Non è serio dire: Non ci
sono danari per fare investimenti e, quindi, per dare lavoro. Bisogna dire: Per
trovare i danari bisogna dare una frustata energica a tutto l’apparato
economico finanziario dello Stato, bisogna svegliarlo dal sonno e dalla
pigrizia in cui è immerso, ricordandogli che a quel sonno e a quella pigrizia corrispondono:
a) il disastramento morale di due milioni di disoccupati; b) una riduzione del
reddito nazionale di almeno cinquecento miliardi all’anno. E bisogna finirla
con lo spauracchio che viene sempre messo innanzi per impaurire i gonzi: quello
dell’inflazione!
Si sa, non bisogna fare inflazione;
ma l’inflazione è una cosa seria, non è quella cosa giornalistica che viene
sbandierata ogni giorno.
E infatti: inflazione significa
danaro senza cose, rappresentante senza rappresentato; ma se le cose ci sono
e c’è il danaro che le rappresenta, dov’è l’inflazione? Se cresce la
popolazione (e, quindi, la spesa) è chiaro che deve crescere anche “a parità di
velocità di circolazione “il volume del danaro che circola. L’inflazione c’è
soltanto quando alla crescita della circolazione “a parità di velocità” non
corrisponde una crescita proporzionata della produzione. E’ così chiaro!
E allora: se spendo un milione di
lire per costruire un milione (anzi più) di case, o per bonificare un milione
di terra, o per produrre un milione di energia, dov’è l’inflazione?
Il “vuoto inflazionistico” viene
definito dall’ammontare di moneta che la collettività cerca di spendere... “in
eccedenza al suo reddito di piena occupazione e al di sopra del valore delle
merci realmente prodotte” (Di Fenizio, op. cit., p. 473).
L’inflazione, invece, la produce
proprio la disoccupazione, perché disoccupazione significa, in ultima analisi,
produzione mancata contro spesa fatta (per mantenere in vita i disoccupati): cioè
danaro senza cose!
E infine non bisogna dimenticare una
cosa essenziale del sistema finanziario attuale: i fenomeni non si producono più
ad arbitrio di questo o di quel Paese. Le monete sono ormai legate in un
organico sistema di dimensioni mondiali: descrivono l’orbita di un piano
definito (orbita del dollaro a Occidente, del rublo a Oriente). E quindi,
inflazione e deflazione non sono più fenomeni che si operino “automaticamente”:
sono fenomeni provocati, negoziati, regolati. Il mercato della moneta è, ormai,
esso pure regolato.
I danari, anche se in proporzioni
modeste, ci sono: ecco il punto di partenza. Si tratta di iniziarne il
movimento e di manovrarlo opportunamente nel tempo. E che i danari ci siano è,
infine, rilevabile inequivocabilmente da questo fatto semplicissimo: due milioni
di disoccupati gravano annualmente, sul bilancio nazionale, per una somma che
va dai 250 ai 300 miliardi (da L. 300 a L. 400 al giorno ciascuno): questo è
un fatto che nessuna argomentazione economica, finanziaria, politica o
metafisica può cancellare.
IX.
Ma tutto questo presuppone una cosa:
che lo Stato si assuma questo compito nuovo di assicurare ai cittadini il
lavoro (e il pane che ne deriva) e, quindi, di “regolare” adeguatamente,
attraverso la spesa, la domanda di lavoro (Beveridge, §180; §372; §31). L’assunzione
di tale compito fondamentale produce trasformazioni profonde nella struttura
del governo in genere e in quella dei Ministeri finanziari (e della spesa) in
ispecie 24.
Il governo diventa così davvero
quello che già san Tommaso preconizzava: l’architetto del bene comune; il
garante, per tutti, del lavoro e del pane.
Questi mutamenti strutturali del
supremo organo del potere esecutivo portano mutamenti strutturali in tutto l’apparato
amministrativo dello Stato: i congegni burocratici costruiti cento anni or sono
e destinati a finalità di dimensioni estremamente piccole e totalmente diverse
da quelle attuali non possono certamente portare il peso di compiti così nuovi
e così vasti; ci vuol altro che “l’inchiostro nero” ancora richiesto per
firmare le quietanze del Tesoro!
X.
E infine: nell’attesa che tutto
questo avvenga bisogna provvedere alla immediata spesa dei dieci miliardi che
spettano “per l’anno 1949-50 “al Ministero del Lavoro per i cantieri di
rimboschimento, cantieri scuola, corsi di qualificazione e riqualificazione. E
bisogna provvedere all’erogazione dei quindici miliardi già maturati a favore
del piano case e all’erogazione di tanti altri miliardi già stanziati e che
stagnano nelle “sacche” della burocrazia (lavori pubblici, agricoltura,
trasporti, poste, marina mercantile).
Spesa fatta, occupazione creata,
produzione incrementata, sofferenze lenite, energie e ricchezza moltiplicate,
benedizioni di Dio ricevute! Vale proprio la pena.
XI.
1) E’ il governo persuaso che la disoccupazione,
con la miseria morale che provoca, va combattuta come uno dei fondamentali
nemici e delle fondamentali contraddizioni della società cristiana?
2) E’ il governo persuaso che la
disoccupazione costituisca uno sperpero economico che incide gravemente sul
reddito nazionale e che, a lungo andare, produce anche inflazione?
3) E’ il governo persuaso che l’eliminazione
della disoccupazione presuppone un regolamento del mercato del lavoro da
operarsi mediante una pianificazione della spesa (pubblica e privata) che esso
solo può compiere?
4) E’ il governo persuaso che nessun
ostacolo di natura finanziaria può e deve impedire il raggiungimento almeno
graduale di questo obiettivo? Che i “danari” in ogni caso non possono non
esistere anche se è certamente faticoso “ed esige sforzi intellettuali,
volitivi e anche di preghiera!” reperirli? Che se c’è un bisogno essenziale
umano non può mancare “perché Dio esiste ed è Padre” il mezzo adeguato per
soddisfarlo? Che questa proposizione dettata dalla fede è perfettamente
convalidata dall’esperienza e dalla più recente e vitale teoria economica?
5) E’ il governo persuaso che l’assunzione
di questo compito nuovo e così fondamentale importa un mutamento in certo senso
radicale della sua politica economica e finanziaria, interna e internazionale?
Che esso importa l’elaborazione di un bilancio del Tesoro totalmente diverso
per struttura e per finalità di quello attuale? Che esso importa un mutamento
adeguato nella struttura del gabinetto e nella struttura dell’apparato burocratico
statale?
6) E, infine, vuole intanto il
governo procedere all’immediata erogazione delle somme necessarie per sovvenire
in qualche modo alle prime e inderogabili esigenze dei disoccupati?
Ecco le domande precise che la povera
gente fa al governo: se il governo può dare ad esse una risposta positiva,
allora la “crisi” sarà risolta e il governo “attirando sopra di sé le benedizioni
di Dio e della povera gente” farà come il sapiente costruttore del Vangelo:
costruirà saldamente l’edificio sopra la roccia (Mt. VII, 24-29) 25.
Se il governo darà ad esse una
risposta negativa, allora la “crisi” assumerà dimensioni più vaste e il governo
farà come lo stolto costruttore del Vangelo: costruì l’edificio sulla sabbia,
venne la tempesta e vi fu grande rovina (Mt. VII, 24-29).
__________
Note
1.
Che significa, infatti, che tutta la
legge e i Profeti si riassumano nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor
del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei essere
io disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No,
certo: e, quindi, questo no io devo anche pronunziarlo per i miei
fratelli. Se io sono uomo di Stato, il no alla disoccupazione e al
bisogno non può che significare questo: che la mia politica economica deve
essere finalizzata dallo scopo della occupazione operaia e dell’eliminazione
della miseria. E’ chiaro! Nessuna speciosa obbiezione tratta dalle
cosiddette leggi economiche può farmi deviare da questo fine: devo sempre
ricordarmi che il Vangelo non è un “libro di pietà” [anche!]: esso è anzitutto
un “manuale di ingegneria” [parabola del costruttore, Mt. VII 24-29], cioè
rivelatore delle leggi costituzionali, ontologiche dell’uomo; le sole leggi che
permettono una solida costruzione della vita personale, sociale e storica dell’uomo.
Tutta la liturgia quaresimale, con i continui riferimenti all’Antico
Testamento, è incentrata attorno a questo pensiero salutare: digiuno, sì, ma
ricordati che l’essenza più profonda del digiuno sta nell’amore fraterno. Frange
esurienti panem tuum egeo vagosque induc in domum tuam: spezza il tuo pane
all’affamato e dà nella tua casa abitazione ai senza tetto [Is. 58, 1-9].
2.
Questo “impegno” costituisce il
nucleo vitale dell’insegnamento dei Pontefici: da Leone XIII a Pio XII: nel
messaggio di Natale 1942 il “misereor super turbam” è posto come la
stella orientatrice della ricostruzione cristiana. Si legga la meravigliosa
pastorale 1946 del cardinal Suhard [Essor ou déclin de l’Eglise] ove l’invito
a costruire un “mondo nuovo” sul tessuto dell’amore fraterno è pressante e
indilazionabile. Di una “réfraction des vérités évangeliques dans le
temporel” parla Maritain [Humanisme integral, p. 226 e sgg.]: e
tutta orientata verso questo nuovo ordine fraterno è la meditazione di Toniolo
[Indirizzi e concetti sociali all’esordio del sec. XX].
3.
Si mediti questo testo della Sacra
Scrittura [Deut., XV, 4] a proposito dell’anno santo ebraico: il Signore
comanda a Israele: Et omnino indigens et mendicus non erit inter vos, ut
benedicat tibi Dominus Deus tuus in terra quam traditurus est tibi in
possessionem, che comando preciso! E siamo al tempo di Mosè. Poi Gesù ha
slargato infinitamente il comando estendendolo non solo agli israeliti [come in
Mosè, ibid., XV, 3] ma a tutti gli uomini [Non c’è greco né barbaro ma solo
Cristo, dice Paolo]. La benedizione di Dio, perciò, sopra una collettività
umana è condizionata da questo dato di fatto: che essa temi e ami il Signore e
che in essa non vi siano creature ridotte “per via della disoccupazione e del
bisogno” allo stato di indigenza e di mendicità. Le prime comunità cristiane
erano caratterizzate proprio da questa assenza di miseria. Gli atti degli
apostoli dicono con evidente gioia: la moltitudine dei credenti era un solo
cuore e un’anima sola... e non vi era fra di loro nessun indigente [neque
enim quisquam egens erat inter illos] [IV, 32, 34].
Attorno a questi temi della Sacra
Scrittura è polarizzata una delle più vive opere di Gratry [La morale et la
loi de l’histoire]. Anche se i riferimenti economici in essa contenuti non
sono accettabili, tuttavia il nucleo dell’opera è saldo: esso, in sostanza,
addita ai cristiani la “terza fase” della loro opera nel mondo. Nella prima
fase, essi hanno costruito l’edificio sacro della teologia e hanno posto le basi
di ogni costruzione futura; nella seconda fase, essi hanno “scoperto” il mondo
fisico captandone le leggi e le forze per metterle al servizio dell’uomo; nella
terza fase [nella quale siamo entrati], essi devono “scoprire” il mondo
sociale, devono captarne le leggi e le forze per costruirlo in modo che in esso
vi sia davvero posto per una reale fraternità umana.
Ebbene: la tecnica economica e
finanziaria del pieno impiego nei grandi Stati moderni permette di realizzare
con sufficiente ampiezza questo precetto divino; e ciò senza intaccare le
essenziali libertà politiche, culturali, religiose, e anche economiche della
persona umana. Si capisce: nessuna trasformazione di dimensione così vaste si
opera senza scomodare la pigrizia mentale e senza toccare certe abitudini
inveterate. Ma si può dire con san Paolo: fratres, hora est jam de sommo
surgere, è ora di svegliarsi!
La disoccupazione è un problema in
cui veri termini vanno ricercati in una visione integrale dei fatti economici:
posto nei suoi veri termini esso appare non più come un mistero insolubile
[Beveridge, §53, “La disoccupazione non è più un mistero senza speranza”], ma
come un problema la cui soluzione è affidata alla “volontà” di una politica
economica meditata ed efficiente. Ho “scomodato” tanti scrittori per mostrare
al mio lettore che le cose qui scritte non sono cose generiche o tesi nuove e
affrettate; sono cose “possibili”, tesi già lungamente vagliate dalla
meditazione scientifica più vitale e più moderna e già sperimentate nella
politica economica dei grandi Stati moderni.
[Cfr. Marrama, in Industria,
1949, n. 3, ove è documentata l’influenza radicale del pensiero keynesiano nell’economia
anglosassone]. Si sa bene, l’Italia non è la Gran Bretagna o l’America: ma se
le difficoltà di una politica del pieno impiego sono certamente aspre in Paesi
poveri, come il nostro, questo non infirma la validità di tale politica; vuol
dire che altro è il limite, altro è il graduale approssimarsi per tappe
successive, al limite. Ma quel che è necessario, per questo semplice graduale
approssimarsi al limite, è l’accettazione di questa “stella polare”: accettare
l’itinerario, e sarebbe già molto!
Ma questa accettazione esige, almeno,
una cosa: che gli uomini responsabili della politica economica abbiano il tempo
di meditare su questi problemi essenziali dell’economia e della politica
contemporanea: che non vivano di frasi fatte, ma di riflessioni serie.
4.
In un testo del commentario alla
politica di Aristotele [Politica, I], san Tommaso dice esplicitamente
che è perfecta quella communitas nella quale le cose siano così
organizzate da permetter a ciascuno dei suoi membri di avere a sufficienza ciò
che è essenziale per la vita [illa erit perfecta communitas quae ordinatur
ad hoc quod homo habeat sufficienter quid-quid est necessarium ad vitam]:
tale comunità è appunto lo Stato [talis autem communitas est civica].
5.
Se la piena occupazione non viene
conquistata e mantenuta, le libertà non saranno sicure, perché per molti esse
non avranno valore [Beveridge, §384].
6.
Leggere per tutti: The Economics
of Full Employment, Oxford, 1948 (sei studi di Burchardt, Kalecki,
Worswick, Schumacher, Balogh, Mandelbaum); Beveridge, Relazione, ecc.,
Einaudi, 1948 [Questa relazione è stata largamente messa a profitto in questo
articolo]; Di Fenizio, Economia politica, Hoepli, 1949, cap. XIX e segg.
Le citazioni che sono così insistenti in questo articolo hanno un solo
obiettivo: mostrare come il buonsenso della gente semplice non è contraddetto,
ma è anzi convalidato, dall’indagine scientifica più aggiornata e intelligente.
7.
Per la Gran Bretagna dice Beveridge [Relazione
sull’impiego integrale del lavoro in una società libera (la relazione è del
1944) §29]: “Mentre il maggior male della disoccupazione risiede negli effetti
sociali e umani sui disoccupati e sulle relazioni tra i cittadini, la perdita
puramente materiale di ricchezza materiale che essa comporta è seria. Se le
risorse di lavoro della Gran Bretagna non utilizzate tra le due guerre fossero
state invece impiegate si sarebbe potuto, senza alcun ulteriore mutamento,
aumentare la produzione totale della collettività approssimativamente di un
ottavo”. E al §170 “In termini di produzione dell’immediato dopoguerra, questo
avrebbe significato un aumento di circa cinquecento milioni di sterline, ai
prezzi prebellici, nel valore della produzione nazionale”. Cfr. §161.
Sarebbe utilissimo fare una ricerca
intorno al “costo” della disoccupazione italiana: quanto essa incide
negativamente [produzione mancata: c’è proprio il danno emergente dato dalla
spesa che i disoccupati devono fare per vivere; e c’è il lucro cessante, dato
dal mancato aumento della produzione nazionale] sul reddito nazionale? Un
calcolo approssimativo dà, per due milioni di disoccupati, una perdita nella
produzione totale di non meno di seicento miliardi annui [circa il 10% del
reddito totale annuo]: perdita non trascurabile davvero!
Le osservazioni di Franchini [Cinque
tesi sul “Full Employment”, “Politica economica”, sett.-ott. 1949, pp. 898
e segg.] non possono non fermarsi davanti a questo fatto preciso: i disoccupati
occupati producono cose: case, acquedotti, boschi, vestiti, prodotti agricoli,
etc.: provocano, cioè, la “piena occupazione” alla Keynes. Cfr. Di Fenizio, Economia
politica, Milano, 1949, p. 472: queste “cose” aumentano la produzione
nazionale ed elevano il tenore di vita di tutti. Il lavoro imita la creazione:
porta all’esistenza dei valori che, come quelli della creazione divina,
arricchiscono di nuova luce il mondo dell’uomo.
Contro questo fatto così preciso ogni
argomentazione si arresta: la tesi di Beveridge e dei teorici del pieno impiego
è valida, ha dalla sua parte l’incontestabile saldezza dei fatti.
8.
Il fenomeno della disoccupazione era
stato, in certo senso, ignorato dalla scienza economica classica: era stato,
cioè considerato sempre alla stregua di quei fenomeni “normali” di cui si tesse
il sistema dell’economia “libera”. Per lungo tempo non vi fu che il richiamo
accorato e violento dei cristiani e dei socialisti.
Solo dalla prima decade di questo
secolo sono stati iniziati studi e rilevazioni statistiche destinati a mettere
il fenomeno in una luce viva: ma la “scoperta” scientifica dell’insanabile
contraddizione economica “oltre che morale” insita nella disoccupazione è un
fatto molto recente, risale a Keynes [...una nuova era nella teoria economica
dell’occupazione e della disoccupazione si è aperta con la pubblicazione,
avvenuta nel 1936, dell’opera The General Theory of Employment, Interest and
Money, dice Beveridge, §120]. L’intuizione della gente semplice e di
buonsenso viene finalmente confortata dalla tesi scientifica: era così chiaro
che si nascondeva un controsenso anche economico nel fatto tremendo della
disoccupazione; il Vangelo, così semplice, parlava anche esso con tanta
chiarezza!
Purtroppo la soluzione di questo
problema “così fondamentale per la costruzione di una società e civiltà
cristiane” è ancora ignorata da tanta parte della classe dirigente attuale, in
Italia e altrove: la lotta contro la disoccupazione viene ancora fatta in modo
negligente, episodico, assistenziale: i veri termini del problema [termini
umani, termini economici e scientifici] sono ancora radicalmente ignorati: ciò
soprattutto per mancanza di meditazione.
Tale difetto è, forse, la mancanza
fondamentale della maggior parte degli uomini politici. La direzione suprema
del Paese” dice Beveridge, §246 “deve essere nelle mani di uomini non oberati
dalla quotidiana routine, di vaste amministrazioni, di uomini capaci di
decisioni rapide, ma che abbiano il tempo di leggere, di pensare e di discutere
prima di decidere. E invece ci lasciamo ancora dirigere da metodi invecchiati,
generici, di “tattica” parlamentare e di partito, ignorando che il nuovo mondo
economico e politico “nel quale le cose stesse, con la oro intrinseca
evoluzione ci hanno introdotto “esige piloti affinati dalla meditazione.
Ci vogliono otri nuovi, perché non si
mette il vino nuovo in otri vecchi.
Si tratta di socialismo? Di
comunismo? Di corporativismo? Di capitalismo?
Si tratta di niente di tutto questo:
si tratta soltanto di buonsenso economico oltre che umano e cristiano. Si
tratta di dar lavoro a tutti e il pane quotidiano a tutti [Beveridge, che è del
resto un liberale, dice giustamente che la politica del pieno impiego supera la
controversia fra socialismo e capitalismo, §272; §47].
9.
E’ necessario che il pilota [cioè il
governo] sia consapevole del viaggio e abbia sempre la volontà di usare i
comandi per mezzo dei quali soltanto può arrivare a destinazione [Beveridge, §50
e §275].
10.
Manifesto elettorale dei conservatori in Gran Bretagna: “Noi consideriamo
il mantenimento del pieno impiego come il primo scopo al quale deve mirare un
governo conservatore”. Manifesto dei laburisti: “Scopo supremo che
prospettiamo alla nazione è quello di una piena occupazione operaia, di
sicurezza del lavoro per tutti: in questo consiste la politica del laburismo”. Manifesto
dei liberali: “Noi riteniamo che la macchina dello Stato può essere
adoperata per mantenere un elevato e stabile livello di impiego dei lavoratori,
sulle direttive indicate nel Libro Bianco intitolato Politica d’impiego dei
lavoratori, pubblicato nel 1944, Libro Bianco che prospetta quel modo di
affrontare il problema della disoccupazione sul quale tanto a lungo hanno
insistito i liberali e che anche i conservatori si sono impegnati a patrocinare”.
11.
Politica del New Deal di Roosevelt
condivisa da Truman.
12.
Esportare anche gratuitamente
[Beveridge, §301] è uno strumento che può essere essenziale per l’occupazione
della manodopera in un Paese. Anche la nuova politica di importazioni dall’Europa,
patrocinata da Hoffman, è ispirata da questo principio: se l’America spende
dollari in Europa, mette l’Europa in grado di acquistare prodotti americani:
cioè l’Europa dà lavoro all’America, come l’America dà, con le importazioni,
lavoro all’Europa.
13
Evidentemente la politica del pieno
impiego è un limite il cui conseguimento può essere graduale, ed è condizionato
da tanti elementi interni (Cfr. Di Fenizio, op. cit., p. 472) [per es. “presenza
di fattori strutturali nell’economia contrari alla piena occupazione”] e
internazionali [secondo che la politica del pieno impiego ispiri o no la
politica degli Stati]. Cfr. il recente rapporto delle Nazioni Unite sulle
misure nazionali e internazionali sul pieno impiego [National and
Internationl Measures for full Emplyment, 1949]. Le prospettive di
successo, perciò, sono diverse secondo che si tratta di Paesi ricchi o di Paesi
poveri. In questo senso le osservazioni di Franchini [Rivista cit., p. 900] e
Marrama [Teoria e politica della piena occupazione, Roma, 1948, cap. XI]
sono esatte. Cfr. Anche il “fondo” del “Sole 24 Ore”, 11.3.1950 [Un neo
nella risposta di Fanfani]. Beveridge, del resto, non ignora il peso di
queste gravi difficoltà: “Il perseguimento della piena occupazione non è simile
al volo guidato da un aereo secondo un’onda radiodirettrice: è una difficile
navigazione, il cui corso deve essere guidato, manovrato tra correnti e forze
mutevoli, imprevedibili e in larga misura incontrollabili” [§50; §275]. Quel
che è essenziale è questo, che la politica economica e quella finanziaria di
uno Stato sia finalizzata da questo obiettivo: proporzionare la spesa totale
all’occupazione. Gli uomini che vogliono lavorare e sono capaci di lavorare
devono essere occupati.
14.
“L’occupazione dipende dalla spesa
del danaro nei prodotti dell’industria: quando l’occupazione diminuisce, è
segno che qualcuno spende meno; quando aumenta, è segno che in totale si spende
di più” [Beveridge, §31; cfr. §120-126 e §180 e segg.].
15.
Cfr. “Le analisi meditate di
Burchardt sul rapporto che intercorre fra risparmio, spesa compensatrice e
occupazione” [in The Economics of full Employment, cit. p. 19 e sgg.].
16.
Dice
il Burchardt [a p. 32]: “The recognition that the free play pf the market,
that business left to itself, cannot be relied upon to produce and to maintain
full utilization of the available labour represents a revolution in economic
thought and has very far-reaching implication indeed”. [Il fatto di riconoscere che non si
può attendere dal libero gioco della concorrenza del mondo degli affari
lasciato a se stesso che esso produca e mantenga una utilizzazione integrale
della manodopera disponibile, costituisce una rivoluzione nel pensiero
economico e ha certamente delle conseguenze di grande portata].
17.
La responsabilità di curare che la
spesa complessiva pubblica e privata insieme sia sufficiente a suscitare una
domanda atta ad assorbire tutta la manodopera che cerchi impiego deve essere
assunta dallo Stato perché nessun’altra autorità o persona ha i poteri
richiesti.
Nessuna impresa privata può spaziare
per tutto il campo dell’industria o assicurare in ogni momento una domanda a un
prezzo che copra i costi per tutto quanto l’industria può produrre. Nessuna
impresa privata può far sì che la finanza sia la sua serva e non la sua
padrona. La spesa di ogni persona o autorità diversa dallo Stato è limitata
rigidamente dalle risorse finanziarie di quella persona o autorità [Beveridge, §180;
cfr. 31]. Deve essere funzione dello Stato, in avvenire, quella di assicurare
una spesa totale adeguata e per conseguenza proteggere i propri cittadini
contro la disoccupazione in massa, precisamente come oggi è funzione dello
Stato difendere i cittadini contro gli attacchi dall’esterno e contro i furti e
la violenza all’interno].
18.
Su questo articolo di Fanfani cfr. il
“fondo” del “Sole 24 Ore” [11.3.1950 e precedenti] e altra risposta. Il
17.3.50. Ma la sostanza dell’articolo resta valida.
19.
Si ripresenterebbe nel futuro? E sia,
ma, intanto, sarebbe sostanzialmente eliminato nel presente: il futuro è sempre
così carico di incognite: perché ad esempio gli Usa non potrebbero entrare nell’ordine
di idee economicamente e politicamente più sano, quello di ispirare decisamente
al pieno impiego europeo e, in certo modo mondiale, la loro politica mondiale
[Cfr. Schumacher (F.O.) p. 178]? “Tutte le relazioni economiche dei vari Paesi
tra di loro dipendono in primo luogo dal successo che ciascuno di loro ottiene
nel realizzare un elevato e stabile livello di occupazione al loro interno”.
[Beveridge, §303].
20.
Beveridge, §738. “Dovremo considerare
il bisogno, le malattie, l’ignoranza e lo squallore come nemici comuni di noi
tutti, non come nemici con i quali ogni individuo può cercare una pace
separata, trovando scampo nella prosperità personale e lasciando il prossimo
nelle loro grinfie. Il significato della coscienza sociale è che ci si dovrebbe
rifiutare di fare una pace separata con i mali sociali. La coscienza sociale...
dovrebbe guidarci a impegnare armi differenti per una nuova guerra all’interno
contro il bisogno, le malattie, l’ignoranza e lo squallore”.
21.
“La novità del nuovo tipo di bilancio
annuale dello Stato sta in due circostanze: la prima, che esso dovrà riguardare
il reddito e la spesa della collettività nel suo complesso e non soltanto le
finanze pubbliche; la seconda, che esso dovrà assumere come dato il potenziale
umano del Paese e fare il piano delle spese in base a tale dato anziché alla
considerazione delle risorse finanziarie. Il Ministro che presenta il bilancio,
dopo aver valutato l’ammontare delle spese che in una condizione di piena
occupazione si ritiene potranno essere effettuate dai privati cittadini per il
consumo e gli investimenti, deve proporre un ammontare di spese pubbliche che,
insieme alle presunte spese private, sia sufficiente a realizzare la suddetta
condizione, vale a dire sia capace di occupare l’intiero potenziale umano
del Paese. Questo è il principio cardine [Beveridge, §34].
22.
“Questa decisione capitale comporta l’abbandono
di due princìpi fondamentali che nel passato hanno retto i bilanci dello Stato:
primo, che la spesa dello Stato deve essere contenuta entro un importo minimo
necessario per far fronte a bisogni inevitabili; secondo, che le entrare e le
spese dello Stato devono ogni anno equilibrarsi. Entrambi questi princìpi erano
un sottoprodotto dell’ipotesi di piena occupazione fatta dalla teoria economica
classica. Finché si ritiene che vi siano forze economiche le quali assicurino
automaticamente una domanda effettiva adeguata per tutte le risorse
disponibili, lo Stato non può prudentemente sobbarcarsi a impiegare per i suoi
fini qualcuna di tali risorse senza privare del loro uso i privati cittadini.
Ma una volta ammessa la possibilità di una domanda privata carente, lo Stato,
se mira alla piena occupazione, deve all’occorrenza essere disposto a spendere
più di quanto sottrae ai cittadini con la tassazione, per impiegare la
manodopera e le altre risorse produttive che altrimenti la disoccupazione
sciuperebbe” [Beveridge, §182].
23.
Non può dirsi davvero che sia stato
costruito secondo questi criteri il bilancio di previsione del Tesoro 1950-51
presentato al Parlamento: siamo sempre alla struttura contabile, di ragioneria:
tanto entra, tanto esce, tanto deficit! Ma la struttura di un bilancio statale
non può più essere questa: deve essere quella di un “piano”: come ha un piano l’unità
di consumo [la famiglia], come ha un piano l’unità di produzione [l’impresa],
così deve avere un piano economico e finanziario integrativo e orientatore
degli altri piani anche la massima collettività politica [lo Stato]. Quello che
si dice [in dimensione di “microeconomica”] delle singole unità economiche [Di
Fenizio, op. cit., p. 65], “Ogni unità economica redige pertanto il piano suo,
guardando entro di sé e volgendo nello stesso tempo gli occhi al mondo che la
circonda”], si deve ripetere [in dimensione “macroeconomica”] per lo Stato [o
per la comunità degli Stati: ad esempio, il piano Erp]. Ora ogni piano ha un
obiettivo centrale e ha obiettivi secondari coordinati al primo.
L’obbiettivo centrale del piano
economico e finanziario dello Stato? La piena occupazione delle risorse
produttive [e, quindi, al limite del pieno impiego della manodopera] al fine di
garantire ai cittadini il lavoro e un dignitoso tenore di vita. Tutte le
risorse del Paese devono essere mobilitate in vista di questo fine.
Supponete una madre di famiglia che
faccia il suo piano economico: come si regola? Proporziona il reddito al pane
dei suoi figli. Come? Con tutti i mezzi possibili: entrate ordinarie e
straordinarie, prestiti e così via: ma il pane per i figli deve essere trovato.
Estendete questo principio allo Stato: il Ministro del Tesoro ha proprio questo
compito: operare questo proporzionamento del reddito nazionale alla piena
occupazione. Quindi: attivazione rapida di tutte le risorse, di tutto l’immenso
patrimonio statale [e il metano?] e manovra sapiente della moneta, all’interno
e nell’orbita internazionale, al fine di realizzare questi grandi obiettivi
umani politici ed economici.
24.
Un gabinetto proporzionato a una
politica di “pieno impiego” suppone, dice Beveridge, §238, per le funzioni
nuove che esso assume, tre Ministeri fra loro organicamente collegati: a) il
Ministero della finanza nazionale, per stabilire la spesa; b) il Ministero
dello sviluppo nazionale, il quale abbracci l’intiero campo dei piani
regolatori per la città e la campagna, delle abitazioni e dei trasporti; c) il
Ministero del Lavoro, che “per l’esecuzione dei suoi compiti deve seguire con
continuità l’occupazione e la disoccupazione: la sua esperienza deve formare la
base della pianificazione del potenziale umano. Esso è anche lo strumento
adatto ad assicurare, con la sua azione e con la cooperazione delle imprese e
degli operai, quella mobilità organizzata del lavoro, che è la terza condizione
della piena occupazione”.
25.
Che un “movimento” verso la spesa,
verso un acceleramento del circolo monetario e, quindi, verso l’occupazione, si
sia iniziato, non si può dire davvero. Anzi, confrontando i tre ultimi
specchietti della situazione della Banca d’Italia [31 dic. 1949; 31 gen. 1950;
28 feb. 1950] si nota, quasi a farlo apposta, un’ulteriore contrazione del già
tanto contratto movimento monetario [seguire gli articoli di Bevione sul “Sole
24 Ore”]. Indico solo tre voci: 1) la circolazione; 2) la massa delle valute
estere (debitori diversi); 3) il fondo lire.
Si confronti:
Non è necessario essere grandi
finanzieri o grandi economisti per capire che sottrarre altra acqua [moneta] a
un terreno già arso per mancanza di acqua [ribasso dei prezzi all’ingrosso in
agricoltura e non solo in agricoltura, (Statistiche del Lavoro,
marzo-aprile 1950); inquietudine delle Borse; fallimenti; licenziamenti; volume
di due milioni di disoccupati; tasso di interesse e così via] significa almeno
questo: fare aumentare la disoccupazione. Settantatré miliardi di
circolazione in meno [effetto della conversione dei buoni del tesoro?]
significa, come dice Bevione, fare salassi all’anemico [“Il Sole 24 Ore” del
15.3.1950]; e quella crescita di trenta miliardi del già immenso ammasso di 640
miliardi di valuta? Non è tutta occupazione impedita? E la crescita, anziché
diminuzione, del fondo lire? Non sono altri trenta miliardi [oltre ai 160 già
stagnanti] sottratti al circolo e, quindi, al lavoro? Di questo devono
persuadersi i compilatori della “situazione”: che ogni lira sottratta al
circolo significa “nell’attuale situazione depressa dell’economia italiana e
del lavoro italiano “produzione diminuita e disoccupazione cresciuta: cioè
lacrime amare della povera gente. Su questi gravi difetti del circolo monetario
si confrontino le note misurate di Cambi nell’ultimo numero della “Rivista
bancaria” [gennaio-febbraio 1950 e già nei precedenti del 1949].
A proposito delle conseguenze che
produce una contrazione della spesa totale, va meditata questa pagina così
perspicua di J.E. Meade dell’Università di Londra [dal volume Planning and
Price Mechanism, 1948, un capitolo del quale è riportato in “Moneta e
Credito”, 1949, n. 5]. Pare proprio una descrizione fedele della situazione
italiana fine 1949-inizio 1950. “Negli anni successivi al 1930 abbiamo avuto
modo di valutare le dannose conseguenze di una deficienza della domanda
monetaria totale di beni e servizi. Quando, per una ragione o per l’altra, il
volume totale del potere di acquisto monetario si contrae e diminuisce
quindi la spesa monetaria per beni e servizi d’ogni genere, tutti i settori
della produzione perdono, più o meno simultaneamente, di rimuneratività. Si
iniziano licenziamenti di lavoratori e riduzioni nella produzione. Il male
si allarga a circolo vizioso. Una diminuzione di domande di camicie provoca una
contrazione dei redditi dei camiciai, i quali potranno spendere meno in
calzature: i calzolai si troveranno con meno lavoro e ridurranno la spesa per
mobilio, e così via. Risultato finale: una massiccia disoccupazione di
risorse. Il reddito reale della collettività si riduce; il tenore di vita
si abbassa, e non per necessità superiori, particolarmente nelle zone dove si
addensa la disoccupazione; energie produttive, invece, si sperperano
nell’ozio. Ancora più importante forse d’ogni conseguenza materiale è il
disagio spirituale che nasce da quel senso di impotenza che sempre s’accompagna
a un’inattività forzata in un mondo di povertà. Misure debbono quindi essere
prese “ne siamo tutti convinti “per stimolare la domanda monetaria totale e
impedirle di cadere al di sotto del livello necessario per sostenere un alto
grado di produzione e di impiego, quando venga il momento “e presto o tardi
sicuramente verrà “in cui una deficiente domanda totale minacci di precipitare
in una profonda depressione”.
Gli uomini che hanno in mano le leve
di comando della moneta sono inviati a riflettere!
[FINE]