Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

domenica 5 maggio 2013

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Il risparmio è uguale all’investimento

http://goo.gl/3p5D3



Abba P. Lerner

Saving Equals Investment

The Quarterly Journal of Economics, Vol.52, No. 2 (Feb., 1938), pp. 297-309.



Il risparmio è uguale all’investimento

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]


I

In un recente articolo 1 pubblicato da questa rivista, Myra Curtis attacca la formulazione avanzata da Keynes nel suo libro 2, e ripetuta da me in un articolo 3, secondo la quale il risparmio e l’investimento, per l’economia nel suo complesso, sono sempre uguali.
Questa uguaglianza è apparsa paradossale a molti economisti, e molte difficoltà hanno impedito che fosse accolta da tutti.
Nella prima parte di questo articolo tenterò di chiarire alcune di queste difficoltà. Nella seconda parte esaminerò diffusamente due delle critiche avanzate dalla Curtis; e nella sezione conclusiva discuterò della possibilità di salvare un punto che non è interamente dovuto a una incomprensione dell’argomentazione di Keynes.

[I.1]

Keynes e io e la massima parte delle persone diremmo che una persona risparmia qualcosa in un certo periodo di tempo se spende per il consumo (consuma) in quel periodo di tempo meno di quello che è il suo reddito in quello stesso periodo di tempo.
L’unica misura certa dell’ammontare del suo risparmio [saving] è data dalla sottrazione del suo consumo (della sua spesa per il consumo) in quel periodo di tempo dal suo reddito [income] in quello stesso periodo di tempo.
y (reddito) – c (consumo) = s (risparmio) per definizione.
Se una persona consuma più di quello che è il suo reddito, sta facendo l’opposto di risparmiare, sta consumando i suoi risparmi, e noi possiamo nello stesso modo misurare l’ammontare della diminuzione dei suoi risparmi sottraendo il suo reddito dal suo consumo [consumption].
cy = – s è la stessa equazione (con i segni cambiati) nella quale – s è la diminuzione dei risparmi [dissaving].

L’investimento è il denaro speso per fini diversi dal consumo.
Non c’è alcuna ragione per la quale, per un singolo individuo, debba esserci una particolare relazione tra il suo investimento (i) da un lato e dall’altro elementi come il suo reddito (y), il suo consumo (c) e il suo risparmio (s) dei quali abbiamo parlato prima.
Però quando consideriamo l’economia nel suo complesso, assumendo che sia una economia chiusa, vediamo che emerge una relazione tra questi elementi che non sembra esistere per il singolo individuo.

L’equazione yc = s, essendo vera per ogni individuo nell’economia, deve essere vera anche per ogni coppia di individui, infatti se per il primo individuo è  y1c1 = s1 e per il secondo è                y2c2 = s2 allora per i due individui deve essere ( y1+ y2 ) – ( c1 + c2 ) = ( s1 + s2 ), e lo stesso deve essere per un numero qualsiasi di individui nell’economia.
Se noi mettiamo insieme tutti gli individui e sommiamo i loro redditi, i loro consumi e i loro risparmi (usando delle lettere maiuscole per rappresentare queste somme riferite all’intera economia), abbiamo che YC=S.
Da questo punto di vista, quindi, l’economia nel suo complesso è come un singolo individuo.

Però per l’intera economia vale anche un’altra relazione.
La somma dei redditi di tutti gli individui nell’economia, Y, è uguale alla somma delle spese che i singoli individui compiono, di qualsiasi tipo esse siano, perché queste spese non sono nient’altro che i pagamenti, l’incasso dei quali costituisce tutti i redditi.
La somma di tutti i pagamenti deve essere pari alla somma di tutti gli incassi in un dato periodo di tempo, perché questi sono la stessa cosa, solo guardata da un punto di vista diverso.
La somma di tutte le spese, qualsiasi sia il loro tipo, che è pari a alla somma di tutti i redditi Y, deve consistere della somma di tutte le spese per consumo C più la somma di tutte le spese per fini diversi dal consumo I, perché queste due somme, C e I, comprendono tutte le possibili spese.
Questo ci porta all’equazione Y=C+I o YC=I.
Sappiamo che YC è anche uguale S, e poiché quantità che sono uguali alla stessa quantità sono uguali tra di loro, abbiamo il risultato che S=I.
La somma dei risparmi di tutti gli individui in dato un periodo di tempo è uguale alla somma dei loro investimenti nello stesso periodo di tempo.

[I.2]

La resistenza che questo esercizio di aritmetica veramente semplice incontra presso molte persone può normalmente essere fatta risalire a una o più delle cinque cause seguenti:

[Prima causa - Flussi e stock]

1. Un fallimento nel riconoscere il fatto che tutto quello che si considera sono i pagamenti (o le differenze tra i pagamenti) effettuati in un dato periodo di tempo, e mai quantità esistenti in un certo istante temporale (come all’inizio o alla fine o in un certo istante intermedio del periodo di tempo al quale la nostra proposizione si riferisce).
Gli elementi considerati sono tutti flussi [flows] che possono essere misurati o come quantità in un dato periodo di tempo (come nel caso più semplice esaminato sopra) o come quantità per unità di tempo (se supponiamo che i flussi continuino nello stesso modo per diverse unità di tempo).
I flussi non possono mai essere misurati come quantità esistenti in un singolo istante temporale. Questo può essere fatto solo per gli stock, non per i flussi, e la nostra proposizione riguarda solo i flussi.

Questo fallimento nell’evitare considerazioni irrilevanti sulle quantità (di denaro) può assumere la forma di:
a) una insistenza nella discussione sulla velocità di circolazione della moneta.
La velocità di circolazione non è nient’altro che il rapporto tra un qualche totale dei pagamenti in denaro effettuati in un certo periodo di tempo (totale che, essendo un flusso, potrebbe riguardare la nostra proposizione) e un qualche stock di moneta esistente in un certo istante temporale (che, essendo uno stock, è su di un piano differente e può non avere alcuna rilevanza per la nostra proposizione).
b) una insistenza nella discussione sulla “accumulazione” [hoarding] ( e sulla “disaccumulazione”).
Talvolta “accumulazione” indica una diminuzione della velocità di circolazione della moneta, la cui irrilevanza è già stata mostrata. Talvolta significa semplicemente il mantenere delle scorte di denaro. Talvolta indica l’incremento della quantità di denaro detenuta. E frequentissimamente indica misteriosamente tutte e tre queste cose nello stesso tempo, e inoltre la lunghezza del periodo di tempo per il quale si detengono particolari monete o banconote.
Il concetto di stock contenuto in tutti questi suoi usi rende irrilevante lo stabilire in quale particolare modo sia effettivamente impiegato il termine “accumulazione”.

La mancanza di chiarezza sull’oggetto della discussione, se siano gli stock o i flussi, ha avuto una grande parte nell’alimentare discussioni inutili tra gli economisti nel passato. Il fondo salari è un esempio notevole di una espressione ambigua utilizzata per coprire questo tipo di confusione, e nella teoria moderna del capitale la stessa confusione costituisce un grandissimo ostacolo.
La proposizione I=S è una proposizione che riguarda i flussi e non ha nulla a che fare con gli stock.

[Seconda causa - Apparente libertà individuale e necessità sociale]

2. Un fallimento nel comprendere il paradosso per il quale, mentre ogni individuo considerato separatamente è libero di risparmiare di più o di meno di quello che investe, tutti gli individui considerati complessivamente non sono liberi di fare la stessa cosa, perché la somma dei loro investimenti I è sempre uguale alla somma dei loro risparmi S.
Come funziona questa costrizione? Se non vincola un individuo come può vincolare l’economia nel suo complesso, che è semplicemente la somma degli individui che la compongono?

Comprendere paradossi di questo tipo è lo speciale campo di applicazione degli economisti, e molti altri simili paradossi con il loro essere divenuti familiari hanno smesso di terrorizzare e sono divenuti parte del bagaglio di conoscenze proprio di tutti gli economisti.
Ogni nazione è libera di importare più beni di quanti non ne esporti o viceversa, ma a livello mondiale le esportazioni devono sempre essere uguali alle importazioni (più i costi di trasporto , etc.).
Ogni individuo può ritirare domattina tutti i suoi soldi dalla banca dove li ha depositati, ma non è possibile che lo facciano tutti gli individui insieme.
E abbiamo anche il paradosso opposto. Una banca, o un paese, non può espandere il suo credito indefinitamente, ma tutte le banche, o tutte le nazioni, agendo congiuntamente, possono farlo.
Affermare che quello che è vero per ogni individuo deve essere vero anche per tutti gli individui nel loro insieme è un semplice errore di composizione [fallacy of composition].

Ma come funziona questa costrizione, se non agisce sui singoli individui?
Questa domanda mette a disagio molti studenti.
La risposta è che l’individuo non è affatto così libero di decidere quanto risparmiare come si crede.
Ci sono pochissime persone che non vorrebbero avere un reddito più alto di quello che effettivamente hanno e così  poter risparmiare di più.
Ogni individuo è costretto a risparmiare quello che effettivamente risparmia dall’ammontare del suo reddito; e l’ammontare del suo reddito è determinato da quanto le altre persone spendono per i beni che egli produce [o per i servizi che rende].
Ogni individuo considera il suo reddito come dato e indipendente dalla sua spesa (dal momento che in una grande comunità le ripercussioni sul reddito di un qualsiasi individuo delle variazioni della sua spesa sono generalmente così piccole da essere legittimamente trascurate); e, non essendo interessato all’effetto che la sua spesa ha nel creare reddito per qualcun altro, un individuo non vede la connessione esistente tra il suo reddito e la sua spesa.
Questo però non significa affatto che questa connessione non esista per il singolo individuo.
Significa solo che l’individuo non se ne preoccupa, come se la sua spesa non contribuisse al reddito di altre persone (anche se egli potrebbe avere un vivo interesse nell’effetto che la spesa delle altre persone ha sul suo reddito).
L’economista ha una visione più ampia, deve preoccuparsi anche dei redditi di tutti gli individui, e così deve riconoscere che per la comunità considerata nel suo complesso l’eccesso dei redditi totali rispetto a quella parte dei redditi che è stata generata dalla spesa per consumi deve essere stato generato dalla spesa per investimenti (ovvero dalla spesa per fini diversi dal consumo), così che I=S.

Il fallimento nel prendere atto del paradosso della necessità sociale corrispondente alla apparente libertà individuale talvolta assume la forma del tentativo di estrarre dal totale del risparmio effettivo di un individuo (cioè dall’eccesso del suo reddito in un dato periodo di tempo rispetto al suo consumo nello stesso periodo di tempo) una parte che si identifica come realmente “libera” o “volontaria” o “ex ante” dichiarando che il resto del suo risparmio è “forzato” o “involontario” o “in realtà il risparmio di qualcun altro” (cioè il risparmio di chi ha investito producendo qualcosa che non può essere consumato) così che questa parte del risparmio non debba essere conteggiata.
Tutti questi tentativi necessariamente falliscono per l’impossibilità di identificare un periodo di tempo, che possa servire da riferimento, nel quale l’individuo possa essere considerato con un minimo di plausibilità libero di decidere quanto risparmiare o anche più libero rispetto al periodo preso in esame.
E’ molto più soddisfacente riconoscere che in un determinato universo tutto il risparmio, come ogni altra cosa, è “forzato” e che la libertà di scelta non è nient’altro che una confortevole illusione.

Collegata con questa difficoltà è l’assunzione inconsapevole – fatta dal punto di vista del singolo individuo e illegittimamente applicata alla società – che, quando la spesa varia, il reddito rimanga lo stesso.
Da questa assunzione deriverebbe che un incremento del risparmio significa sempre una riduzione del consumo 4 (e mai un incremento del reddito a parità di consumo).
L’assunzione della costanza del reddito è poi lasciata cadere e si consente alla diminuzione del consumo di provocare una diminuzione del reddito, così che ogni incremento del risparmio sembra necessariamente comportare una diminuzione del reddito. 5
Da questo tipo di argomentazioni seguono naturalmente un certo numero di sorprendenti risultati, come il fatto che se c’è un incremento del risparmio (al quale è dovuta la diminuzione della spesa) allora non c’è una variazione del risparmio (perché il reddito è diminuito tanto quanto il consumo). 6

[Terza causa - Il riferimento è a un dato periodo di tempo]

3. Una tendenza a considerare la spesa non come un flusso in un certo periodo di tempo coincidente con il flusso dei redditi nello stesso periodo di tempo, ma come un qualcosa che viene “fuori” dai redditi percepiti in quel periodo di tempo.
Il “risparmio” da questo punto di vista è il reddito percepito in un periodo di tempo meno la spesa compiuta “con” quel reddito.

Un possibile significato di questo è semplicemente che deve essere considerata solo quella spesa che è compiuta dopo che è stata percepita una parte del reddito, o tutto il reddito.
Se le ambiguità presenti in questa formulazione sono superate – come possono essere superate – con una qualche arbitraria assunzione sul quando si debba iniziare a rilevare le spese, si troverà, certamente, che il “risparmio S” così definito è maggiore dell’investimento I per un importo pari a tutte quelle spese che sono state compiute troppo presto nel periodo di tempo preso in esame per poter essere considerate come sostenute “con” il reddito percepito in quel periodo, e che quindi non sono state conteggiate.
Se questa procedura fosse portata alla sua logica conclusione, queste spese, non essendo sostenute “con il reddito”, dovrebbero essere considerate come una diminuzione del risparmio e sottratte del risparmio “S” così da ridurlo esattamente allo stesso valore dell’investimento I.
Tuttavia, normalmente la procedura non è portata alla sua logica conclusione ed è considerata come una dimostrazione della falsità della nostra proposizione che I=S.

Un altro significato dell’insistenza nel conteggiare C, I e S solo fintanto che essi “provengono” dal reddito percepito nel periodo di tempo considerato è che noi dobbiamo considerare solamente la spesa (o il risparmio) delle particolari monete e banconote ricevute come reddito nel periodo.
Così se qualcosa è acquistato con denaro ricevuto prima dell’inizio del periodo, allora non è una spesa compiuta “con” il reddito di quel periodo.
Con questa linea di analisi, Peter, che ha portato la sua ultima busta paga dal droghiere, ha speso tutto il suo reddito non risparmiando nulla, mentre Paul, che ha messo al sicuro la sua ultima busta paga e portato la busta paga del periodo precedente dal droghiere, ha invece risparmiato tutto il suo reddito.
A questo punto dell’argomentazione non è ancora necessario che I sia uguale a S.
Certamente, se questo metodo di calcolo fosse portato alla sua logica conclusione e la spesa delle monete non ricevute come reddito nel periodo fosse considerata come una diminuzione del risparmio di nuovo ci ritroveremmo con il nostro risultato aritmetico che I=S. Ma fare questo significherebbe distruggere completamente lo scopo di questo nuovo metodo di calcolo.

Legata all’obiezione contro il conteggiare come spesa quella che non è compiuta “con il reddito” del periodo considerato c’è l’obiezione contro il conteggiare come risparmio il reddito non speso con il quale una persona è sorpresa al termine di un dato periodo di tempo, anche se egli potrebbe non aver avuto assolutamente l’intenzione di risparmiarlo. 7
Questa sembra una cosa molto diversa dall’idea che una persona comune ha del risparmio, e ha suggerito a Robertson un’altra delle sue deliziose citazioni da “Alice nel paese delle meraviglie”. 8
Questo sarebbe giustificato se considerassimo risparmio particolari monete o banconote ricevute come reddito e non spese.
Però noi non siamo interessati a monete o banconote particolari, e quello che è compreso nel risparmio di un individuo, oltre al risparmio che ha utilizzato per acquistare attività diverse dal denaro, è l’eccesso del denaro che possiede al termine del periodo di tempo considerato rispetto al denaro che possedeva al suo inizio.
Se un uomo all’inizio del periodo di tempo considerato possedeva 20 sterline e alla fine dello stesso periodo di tempo si ritrova con 25 sterline, non è in contrasto con il senso comune dire che in questo periodo di tempo egli ha risparmiato 5 sterline, anche se la sua intenzione è quella di spendere tutte le 25 sterline (o anche di più) nel periodo di tempo successivo.
Certamente, se consideriamo periodi di tempo molto artificiali – ad esempio di dieci minuti ciascuno – le nostre definizioni possono anch’esse apparire artificiali. Dovremmo allora dire che nell’intervallo di tempo di dieci minuti nel quale un uomo riceve il suo stipendio settimanale egli lo risparmia (quasi) interamente, e che nei rimanenti intervalli di dieci minuti nei quali compie delle spese egli consuma i suoi risparmi. Però, se consideriamo degli intervalli di tempo ragionevoli, questo artificio scompare.

C’è, certamente, una idea valida alla base della nozione di considerare solo quelle spese che sono compiute dopo che è stato ricevuto o “con” il reddito. L’idea è che la spesa di un individuo sia determinata più dal reddito che egli ha percepito nel passato, che è noto ed è stato incassato, che dal reddito corrente, che è incerto.
Questo può essere vero fino a un certo punto, ma anche l’effetto del reddito che una persona può prevedere di percepire sulla sua spesa non deve essere ignorato.
Questa idea è importante, per i problemi economici reali che si hanno nel prevedere la spesa e i redditi, ed è un argomento che trova il suo posto nella teoria economica, molto più importante del nostro semplice esercizio di aritmetica; ma non può essere impiegato per dimostrare che due più due fa cinque.

[Quarta causa - I=S è una proposizione analitica]

4. Il fallimento nel rendersi conto che la proposizione I=S è solo una proposizione analitica, e non riguarda affatto il mondo reale.
Questa proposizione, presa come una affermazione sul mondo reale escogitata stando seduti in poltrona, è naturalmente considerata con sospetto.
La nostra proposizione non è basata sull’osservazione del mondo reale.
Essa quindi non può dirci nulla che noi già non sapessimo; e non può neppure rivelarsi sbagliata.
E’ una proposizione che discende direttamente ed è implicita nelle nostre definizioni di reddito, consumo, risparmio e investimento, e dal postulato che in ogni periodo di tempo il denaro pagato è uguale al denaro incassato.
E’ una proposizione dello stesso ordine della proposizione che afferma che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui suoi cateti.
E’ stata chiamata una ovvietà, spesso con un tono di disprezzo, che non ci dice nulla se non che qualcosa è uguale a se stesso.
In un certo senso questa accusa è giustificata.
Tutte le proposizioni della matematica sono nello stesso modo delle ovvietà, perché non ci dicono nulla che non sia implicato dalle definizioni basilari e dai postulati.
A una persona che sia in grado di vedere queste implicazioni nei postulati stessi, l’enunciazione delle proposizioni della matematica appare come nient’altro che una serie di ovvietà e una perdita di tempo, e io posso capire che ci siano dei matematici nati per i quali proposizioni come quelle di Pitagora e le tabelline delle moltiplicazioni siano assolutamente inutili.
L’utilità delle proposizioni che hanno una natura matematica di questo tipo è una funzione inversa della loro ovvietà.
La grande discussione cresciuta attorno alla proposizione, resa famosa da Keynes, che S=I, costituisce una abbondante prova del fatto che la sua verità non è istantaneamente ovvia per tutte le persone; e se, senza addurre nessun’altra nuova informazione, essa conduce queste persone a vederne delle implicazioni prima trascurate, allora essa serve allo scopo per il quale è stata introdotta.

[Quinta causa - I=S è una proposizione sempre vera]

5. Una convinzione che l’equilibrio di breve periodo, del quale si discute nell’analisi compiuta con la nostra proposizione, sia una condizione necessaria per la realizzazione dell’uguaglianza.
Questo in effetti sarebbe sospetto, perché la prova dell’uguaglianza – come ad esempio è stata data all’inizio di questo articolo – non menziona l’equilibrio.
Questo sembra accordarsi con la convinzione che il vero obiettivo di Keynes e dei suoi seguaci sia di mostrare che I=S e poi di ritirarsi dal mondo dell’economia.
L’uguaglianza di I e S non ha assolutamente nulla a che fare con un qualsiasi tipo di equilibrio.
Dell’equilibrio si discute come di una condizione per un qualche tipo di stabilità di Y e di C (e di conseguenza di I e S).
L’equazione I=S è sempre vera e serve come un controllo, perché qualunque risultato che contenga valori diversi per I e per S deve essere dovuto a un errore o logico o di calcolo.

II

Una prima lettura dell’articolo della Curtis dà l’impressione di un coraggioso attacco contro la proposizione che I=S.
Un esame più approfondito, tuttavia, mostra che la Curtis avanza tutte le obiezioni e le difficoltà discusse nella prima sezione di questo articolo (oltre ad alcune incomprensioni di minore rilevanza proprie dell’autrice) e che, volendo scartare la proposizione come una ovvietà, alla fine ella deve ammettere che essa è vera.
L’autrice fa questo a pagina 616 dove per la prima volta definisce il risparmio nello stesso modo di Keynes (S’’ nella sua notazione), dopo aver speso più di metà dell’articolo nel tentativo di mostrare che l’equazione non è vera per altre definizioni del risparmio (risparmio “sul reddito” come discusso nel punto I (3) più sopra, non portato alla sua logica conclusione; e un ibrido tra questo e uno stock di denaro come discusso nel punto I (1) più sopra – “ammontare totale non speso per il consumo nel periodo” a p.615).
Ci sono tuttavia due punti nel suo articolo che devo discutere più in profondità.

[II.1]
[Il reddito totale non può mai essere interamente speso]

Il principale scivolone della Curtis è nella sua affermazione che “una condizione nascosta è legata alle equazioni – cioè che tutto il reddito (e nulla da altre fonti) sia speso nel periodo di tempo considerato” (p.607). “La condizione, tuttavia, non può ritenersi soddisfatta uniformemente. Perché se così fosse, la spesa sarebbe costante e i redditi non cambierebbero mai.” (p.610).
Quest’affermazione appare inizialmente come una negazione del fatto che il reddito totale deve essere uguale alla spesa totale (Y =C+I). Tuttavia la Curtis mostra di non compiere un errore così banale.
In realtà, ella dice: “sebbene tutta la spesa divenga reddito, non tutto il reddito diviene necessariamente spesa” (p.608), e, nei suoi esempi numerici, che hanno lo scopo di mostrare la falsità della nostra proposizione, ella saggiamente evita ogni contraddizione interna indicando dappertutto il reddito (Y) come pari alla spesa totale (Y+C) nello stesso periodo di tempo. Ella non nega che i redditi e la spesa totale in ogni periodo di tempo devono essere uguali gli uni all’altra.
Quello che la Curtis nega è che i redditi devono essere uguali alla spesa compiuta “con” i redditi percepiti. Questa condizione, ella dice, “non può essere ritenuta uniformemente soddisfatta” (p.610); “il reddito percepito… può essere trasferito nel periodo di tempo considerato interamente, in parte, o per nulla, per divenire il reddito di altre persone.” (p.608). Su questo punto la Curtis non si dilunga di più.

E’ impossibile che tutti i redditi percepiti siano “trasferiti”, qualunque sia l’intervallo di tempo che si considera, perché l’atto del trasferire il reddito per una persona è l’atto del ricevere il reddito per l’altra persona, e qualunque sia l’istante nel quale il gong suoni per segnalare la fine del periodo che stiamo considerando, ci deve sempre essere qualcuno che è rimasto con un reddito non speso.
Nel gioco delle sedie musicali, i giocatori non possono battere l’orchestra, per quanto velocemente possano correre.
La condizione descritta dalla Curtis come una condizione che “non può essere considerata uniformemente soddisfatta” è una condizione che non può mai essere soddisfatta.
Fortunatamente non c’è alcuna necessità che questa condizione impossibile sia soddisfatta.
Il significato nascosto dietro la conclusione della Curtis che se questa (come abbiamo visto impossibile) condizione fosse soddisfatta “la spesa sarebbe costante e il reddito non varierebbe mai” sarà esaminato nella prossima sezione.

[II.2 ]
[Dato l’investimento, il desiderio di conseguire un risparmio maggiore messo in atto con  una riduzione della spesa conduce a una corrispondente diminuzione dei redditi. Consumi e redditi diminuiscono insieme finché i percettori dei redditi non si accontentano del risparmio corrispondente all’investimento.]

L’altro punto ha a che fare con una critica rivolta sia a Keynes che a me per il nostro parlare di “tentativi” di risparmiare e “desideri” di risparmiare quantità diverse dalla quantità totale degli investimenti.
La Curtis ha, ovviamente, assolutamente ragione nel suggerire (p.619) che “tentativi” e “desideri” di spendere in se stessi non hanno assolutamente alcun effetto su nulla, se non si tramutano in spesa corrente.
Non è però su di una base solida che ella applica lo stesso argomento al risparmio o, nel suo linguaggio, al “trattenimento del reddito”.
Il risparmio o il “trattenimento del reddito” non è una azione che ha lo stesso effetto e che può essere paragonata a un semplice “tentativo” o “desiderio” di risparmiare nello stesso modo in cui la spesa effettiva di denaro può essere confrontata con il semplice desiderio di spendere.
Le persone che ricevono un reddito sono libere di spendere per il consumo quel tanto o quel poco che desiderano (entro certi limiti, ovviamente) ma esse non sono, prese nel loro insieme, libere di risparmiare qualsiasi ammontare desiderino altrettanto semplicemente di come sono libere di spendere qualsiasi ammontare desiderino.
Questo perché il loro risparmio dipende non solo dalla loro spesa, ma anche dal loro reddito, perché il risparmio è la differenza tra il reddito e la spesa.
Con un dato tasso di investimento (sia esso deciso da altre persone o determinato da altre forze) i percettori di un reddito non possono decidere di risparmiare né di più né di meno di quanto è l’investimento.
Essi possono desiderare di risparmiare di più e possono anche tentare di tradurre in realtà questo desiderio spendendo realmente di meno.
Questo tuttavia ha l’effetto di diminuire i redditi esattamente dello stesso ammontare della riduzione della spesa, così che mentre c’è stata una reale diminuzione della spesa (e una corrispondente reale diminuzione dei redditi), l’incremento del risparmio è tuttavia rimasto un desiderio.
Nello stesso modo un desiderio di risparmiare meno può risultare in un incremento della spesa e in un incremento dei redditi, ma non in una qualsiasi diminuzione del risparmio – quella diminuzione del risparmio rimane sempre nel mondo dei desideri.

Si raggiunge un equilibrio, ma non traducendo in realtà il desiderio di un maggiore (o minore) risparmio, così soddisfacendo il desiderio e quindi vincendo le forze che si oppongono a quell’equilibrio desiderato.
L’equilibrio è raggiunto con quella diminuzione (o con quell’aumento) dei redditi e del consumo che è necessaria perché i percettori di reddito rinuncino ai loro desideri.
Se essi sono ostinati, tutto quello che ottengono è di rendere maggiore la caduta (o l’incremento) dei redditi necessaria per convincerli a cambiare idea.
Quando si rassegnano, abbiamo l’equilibrio.
La realtà non si è aggiustata per soddisfare i desideri; i desideri si sono aggiustati per adeguarsi alla realtà.

Equilibrio qui significa solo che non c’è più alcuna tendenza per il reddito Y e per il consumo C a muoversi insieme verso il basso (o verso l’alto).
Supporre, come fa la Curtis (p.620), che questo equilibrio sia necessario perché l’uguaglianza I=S sia valida è fraintendere completamente il punto.
Quella uguaglianza non ha nulla a che fare con l’equilibrio e non varia, per quanto violenti possano essere i movimenti verso l’equilibrio, se davvero lo si raggiungerà mai.
Perché il movimento parallelo del reddito Y e del consumo C non influisce in alcun modo sulla differenza tra di essi che è il risparmio S uguale all’investimento I.
L’esame di tutto questo movimento verso l’equilibrio non è affatto compiuto con l’obiettivo di dimostrare il nostro piccolo esercizio di aritmetica (anche se esso può essere riscontrato qui come ovunque) ma ha il fine di considerare l’effetto che hanno sull’economia i desideri degli individui che percepiscono un reddito di variare l’ammontare del loro risparmio – non con la telepatia ma attraverso i cambiamenti nella loro spesa effettiva che derivano da quei desideri.

III

Sembra esserci un punto che forse la Curtis tenta di sollevare che non dipende completamente da una incomprensione.
Quando ella dice che la definizione del risparmio data da Keynes (l’eccesso del reddito sulla spesa per beni di consumo) “non ha nulla a che fare con il risparmio inteso nel senso comune del trattenere una parte del denaro percepito non spendendolo in consumi” (p.616), può intendere che la spesa delle persone in un dato periodo di tempo è una funzione più stabile del reddito percepito in un certo tempo o in un certo periodo di tempo nel passato che del reddito percepito nello stesso periodo di tempo.
Gli individui considerano, ad esempio, il reddito della settimana scorsa quando devono decidere quanto spendere in questa settimana, e ritengono di risparmiare la differenza tra lo stipendio della settimana scorsa e quello che spendono in questa settimana.
Una interpretazione di questo tipo dà un senso alla impossibile condizione posta dalla Curtis “se… tutto il reddito del periodo (e non più di questo reddito) è speso e rigenera se stesso come reddito nel periodo” (p.610), e dà validità alla altrimenti infondata sua conclusione che “la spesa sarebbe costante e il reddito non varierebbe mai”.
Perché se la spesa (qui la spesa totale, C2+I2) nel periodo Due è uguale al reddito (Y1) nel periodo Uno, il reddito nel periodo Due (Y2=C2+I2) è uguale al reddito del periodo Uno (Y1) e il reddito non è variato.
Questo salvataggio dell’argomentazione della Curtis, tuttavia, comporta l’adozione di una tecnica di analisi in termini di periodi di tempo successivi, del tipo di quella sviluppata da Robertson e dagli autori svedesi.
Di questo non c’è traccia nell’articolo della Curtis, che dall’inizio alla fine considera solo “il periodo di tempo”.
La differenza tra gli autori che usano questa tecnica di analisi da un lato e Keynes e i suoi seguaci dall’altro è su di un piano ancora diverso. Sono piuttosto scettico a proposito dell’utilità dell’analisi in termini di periodi di tempo o “giorni” successivi, perché mi sembra che complichi e confonda le cose piuttosto che chiarirle. Ma questa è solo una mia sensazione a proposito di quale sia la strada più promettente (o forse più attrante!) per la ricerca. Posso facilmente sbagliarmi su questo e sono pronto ad accogliere qualsiasi risultato che coloro che apprezzano questa tecnica possano ottenere. In questo non c’è una questione di giusto o sbagliato o di errori logici commessi.

La Curtis tuttavia rivendica non una differenza della tecnica impiegata ma la correzione di un errore.
E’ quindi meglio mettere da parte il nostro tentativo di salvataggio e dire che la negazione, da parte della Curtis, della proposizione I=S è semplicemente il risultato di idee confuse.
Le sue varie definizioni del risparmio, se portate alla loro logica conclusione, tutte giungono alla stessa definizione data da Keynes, e l’equazione si applica nello stesso modo alle sue definizioni come a quella data da Keynes.


London School of Economics




1 “Is Money Saving Equal to Investment?” Quarterly Journal of Economics, August, 1937.
2 The General Theory of Employment Interest and Money.
3 ”Mr. Keynes’ “General Theory of Employment”, I.L.O. Review, October, 1936.
4 Ad esempio “un aumento del risparmio deve essere accompagnato da una diminuzione della spesa per beni di consumo” – Curtis, Quarterly Journal of Economics, August, 1937, p.617.
5 Ad esempio “un aumento del risparmio deprime il reddito” – Ibid., p.617
6 La Curtis sembra ritenere che anche l’opposto della proposizione citata nella nota 4 sia vero, e supporre che io abbia la stessa convinzione. Così dice che quando io parlo di una diminuzione del consumo devo intendere un incremento del risparmio (“altrimenti perché una riduzione del consumo totale e del reddito?” – Ibid., p.617). Questo le consente, quando si accorge del fatto che la contraddizione tra le due proposizioni citate conduce alle assurdità notate nel testo del mio articolo, di attribuire a me la stessa confusione.
7 Sono grato a H. W. Singer per aver attirato la mia attenzione su questa forma del terzo tipo delle difficoltà da me individuate – una importante forma che avevo trascurato.
8 Economic Journal, September, 1937.


[FINE]




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