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Luigi Spaventa
Intervento alla Camera dei Deputati
Atti Parlamentari
- Camera dei Deputali
VII Legislatura -
Discussioni - Seduta del 12 Dicembre 1978, pp. 24892-24899.
Pubblicazione
disponibile qui.
Il cambio è la più endogena delle variabili
Signor Presidente,
colleghi deputati,
signori rappresentanti del Governo, so - e quanto ci è stato detto oggi lo
dimostra - che il Presidente del Consiglio [Giulio Andreotti] non tiene in gran
conto le questioni tecniche o i pareri tecnici, che egli riduce ogni questione
tecnica solo a questione politica e che, compiuta questa operazione egli -
forse non a torto - pensa solo a chi conta, poco curandosi di valutare benefici
e costi che derivano da una decisione.
Per questa ragione, per
non tediarlo, mi limiterò solo a riassumere, quasi per memoria, tutte le
ragioni economiche che hanno indotto una larga maggioranza di studiosi e di
esperti di orientamento politico il più diverso e variegato - e tra questi
alcuni che hanno cambiato idea all'ultimo minuto - ad esprimere valutazioni non
positive sul sistema monetario europeo, quale si veniva configurando, e
sull'opportunità della nostra adesione ad esso.
Riassumerò solo questi
punti di vista, perché vorrò poi considerare quale rispondenza vi sia fra
quanto a suo tempo richiesto dal Governo - e non solo dal Governo, ma anche da
persone che oggi reclamano la nostra adesione a qualsiasi costo - e quanto ci
viene oggi offerto.
E mi chiederò, infine,
quali siano le ragioni politiche che dovrebbero sovrastare ogni altra
considerazione e indurci ad una adesione immediata, come ci è stato annunciato,
piuttosto che a soluzioni più caute e meno gravide di rischi per la nostra
economia.
Le ragioni che sono state
addotte dagli esperti, da tecnici, da economisti, da ministri del suo Governo,
signor Presidente del Consiglio, per dubitare dell'opportunità di una nostra
adesione immediata al sistema monetario europeo sono di due tipi, e non
riguardano solo l'Italia, come viene generalmente detto.
Un primo ordine di
ragioni trae la fonte dal presente assetto dei rapporti economici
internazionali.
Sappiamo oggi che, in
seguito all'aumento dei prezzi del greggio, esiste un disavanzo strutturale
delle partite correnti del complesso dei paesi industrializzati e che questo
disavanzo complessivo non può essere ridotto con movimenti di cambio, ma può
essere ridotto solo attraverso movimenti
di reddito e recessione.
E allora, se non si
definisce il saggio di crescita per il complesso dei paesi industrializzati,
risulta impossibile definire per ciascun paese un tasso di cambio di
equilibrio.
Mancando informazioni sul
tasso di crescita che l'area vuole perseguire, mancando decisioni su quanto del
disavanzo complessivo tocchi a ciascun paese in relazione alla sua dipendenza
dall'estero e alle sue esigenze di sviluppo, non esiste per ciascun paese tasso
di cambio di equilibrio.
E mancando queste intese,
il disavanzo complessivo, quasi che fosse un carico che si muove non stivato
bene in una nave su un mare in tempesta, tende a concentrarsi in quei paesi la
cui crescita diviene più rapida di quella degli altri o in quelli in cui i
costi ed i prezzi aumentano più
rapidamente degli altri.
In questa situazione, i
movimenti di cambio correggono, pur se temporaneamente, i risultati di una
diversa evoluzione di costi e prezzi, di una diversa inflazione, ma non
riescono ad assicurare la possibilità di una crescita più rapida degli altri ai
paesi che vogliano farlo.
Poiché persistono differenze tra diversi paesi in merito alle
esigenze ed agli obiettivi di crescita, si manifesta una generale tendenza
all'abbassamento del ritmo di crescita.
Ciò dipende dalla asimmetria
di trattamento fra paesi che si
trovano in disavanzo perché vogliono crescere di più e paesi che si trovano in
avanzo perché vogliono svilupparsi di meno.
La riduzione delle
riserve e la difficoltà di rinvenire prestiti obbliga i primi - i
paesi in disavanzo - a politiche interne restrittive, ma non vi
è alcuna sanzione che obblighi i paesi che accumulano riserve ad adottare
politiche interne più espansive.
E, dopo tante altre, la
recente vicenda degli Stati Uniti è la prova immeditata di queste proposizioni.
Mentre l'Europa languiva
e si compiaceva di una stagnazione della crescita, gli Stati Uniti tentavano di
riprendere una loro crescita.
Qual è stata la risposta
europea?
La risposta europea non è
consistita nell'alleviare il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati
Uniti, promuovendo una crescita maggiore.
L'Europa ha chiesto agli
Stati Uniti di ridurre la loro crescita; ha consentito e promosso una
svalutazione del dollaro; ha raggiunto una situazione che in ogni libro di
testo di economia si definirebbe “molto meno che ottimale”.
Il sistema monetario
europeo nasce,
per così dire, all'insegna di questa risposta.
Quest'area monetaria
rischia oggi di configurarsi come un'area di bassa pressione e di
deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello
sviluppo dell'occupazione e del reddito.
Infatti, signor
Presidente del Consiglio, non sembra mutato l'obiettivo di fondo della politica
economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni
tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di
promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.
Da ciò deriva un
sacrificio per i paesi più deboli, che potrebbe essere evitato con generale
vantaggio se si instaurassero regole efficaci di simmetrie e di obblighi,
ma tali regole sono state rifiutate non tanto con riferimento agli interventi
di cambio degli accordi di Brema, ma con riferimento al tentativo generoso a
suo tempo compiuto dall’OCSE: le richieste dell'OCSE furono esplicitamente accantonate
nel vertice di Bonn.
Inoltre - come è stato
detto altre volte (e mi limito qua a riassumere sempre per non tediarla) - il
sacrificio per i paesi più deboli può risultare più accentuato dalla
circostanza che il problema del dollaro, come risulta dal comunicato, non è
stato neppure affrontato nei diversi vertici ed in particolare in quello di
Bruxelles.
Sempre per riassumere,
consideriamo ora le questioni che non riguardano l'economia internazionale, ma
la nostra economia.
Si vorrà riconoscere che
la nostra economia parte con differenti condizioni iniziali, quali che siano i
propositi che noi ci possiamo porre e quali che siano le intenzioni che noi
possiamo avere.
In primo luogo,
nell'ambito della Comunità europea, abbiamo
- a parte l’Irlanda - l'economia con il più basso livello di
reddito pro capite, con le massime differenze regionali di sviluppo, con la
disoccupazione più elevata, con la struttura industriale più fragile: in
conseguenza dovremmo cercare di realizzare un tasso di crescita del reddito, e
soprattutto degli investimenti, più elevato di quello degli altri paesi.
In conseguenza, ancora, se non vogliamo ricorrere - come nessuno di noi
vuole ricorrere - a misure. protezionistiche, data la propensione ad importare
il tasso di sviluppo delle nostre esportazioni dovrebbe essere più elevato di
quello altrui, onde pagare le importazioni necessarie per la nostra crescita;
oppure dovremmo poter contare su stabili entrate in conto capitale.
In secondo luogo,
nonostante i progressi compiuti, persiste
da noi una notevole differenza di inflazione, di costi e prezzi rispetto alle
altre economie europee: nella migliore delle ipotesi l'accostamento alla
media europea potrà essere solo graduale a causa della forza dei fattori
iniziali e delle difficoltà di rovesciare le aspettative.
Sarà comunque
impossibile, sia per noi sia per gli altri
paesi, adeguarsi al ritmo di inflazione
previsto per la Germania che rappresenta un fattore di squilibrio non minore
oggi di quanto non sia il nostro ritmo di inflazione.
Queste valutazioni sono
state recentemente documentate con precisione dal professor Mario Monti in un
articolo su Il Sole 24 ore al quale rinvio i colleghi.
In un momento in cui la
situazione monetaria internazionale è in uno stato di profonda incertezza -
soprattutto per quanto riguarda i rapporti di cambio tra il marco ed il dollaro
- che cosa avverrebbe in questo sistema
monetario (che consiste essenzialmente solo di
un accordo rigido di cambio,
più rigido di quello di Bretton Woods, perché non sono consentiti mutamenti
unilaterali di cambio, non integrato neppure dalla definizione di
obiettivi di crescita né temperato da una attribuzione di obblighi
proporzionati alla forza relativa delle diverse economie) se si
verificasse nuovamente - prima ipotesi - un indebolimento del dollaro?
Il marco subirebbe
pressioni al rialzo, accentuando i movimenti speculativi; le valute ad esso
agganciate subirebbero rivalutazioni effettive; nel caso della lira, tali rivalutazioni risulterebbero ancora maggiori
in termini reali, ossia in rapporto alla evoluzione differenziale di costi e
prezzi.
Infatti, non
solo di rivalutazioni effettive si deve parlare, ma anche di rivalutazioni in
termini reali.
Ne deriverebbe una delle
due conseguenze: o un ulteriore sacrificio della crescita per ridurre le
importazioni, onde mantenere un livello di cambio realistico, oppure
svalutazioni ripetute, ma sempre tardive rispetto alla perdita di riserve che
si sarebbe nel frattempo verificata.
Consideriamo l’ipotesi
opposta, signor Presidente: una ripresa tendenziale del dollaro, dovuta non già
ad un più rapido sviluppo delle economie europee - come sarebbe desiderabile -
ma a tre altri fattori, tutti negativi, che derivano dalla risposta che
l’Europa ha voluto dare alla crisi degli Stati Uniti: riduzione dello sviluppo
statunitense; aumento, già verificatosi, dei tassi di interesse americani e
dunque dei tassi di interesse sul mercato dell’eurodollaro; manifestarsi, con
il consueto ritardo, degli effetti della avvenuta svalutazione sulla bilancia
commerciale americana.
In questo secondo caso,
la nostra economia subirebbe un duplice danno: sulla bilancia commerciale, a
motivo del maggiore costo delle importazioni di fonti di energia e di materie
prime e a motivo della maggiore competitività delle merci americane; sul conto
capitale perché, come già sta avvenendo, si invertirebbe il movimento dei fondi
a breve di cui abbiamo finora beneficiato, poiché si verificherebbe un
differenziale, a favore del dollaro (anziché a favore della lira, come nell’ultimo
anno), dei tassi di interesse corretti per le prospettive del cambio.
Risulterebbe difficile,
in questa seconda ipotesi, impegnarsi a mantenere la parità con le altre monete
europee e, ove l’impegno sia stato assunto, a mantenerlo per lungo tempo.
Nell’uno e nell’altro
caso non è questione di richiedere o di favorire svalutazioni competitive.
Si tratta piuttosto di impedire che il cambio assuma valori
incompatibili con le differenze di condizioni iniziali e di esigenze fra i diversi paesi.
Il cambio - è stato correttamente osservato - è la
più endogena delle variabili: non può essere trasformata o in obiettivo fine a
sé stesso o in strumento da manovrare per il conseguimento di altre finalità.
Gli svalutazionisti di
altri tempi (neppure troppo lontani, signor Presidente), sono oggi
rivalutazionisti, illudendosi, in base al più recente dei loro modelli, che il
problema della nostra inflazione possa essere affrontato con successo imponendo
alla lira l’onere di una rivalutazione.
L’esperienza di altri
paesi e la riflessione ci inducono a non accogliere questa tesi.
Per quanto riguarda
l’esperienza, vorrei rammentare che un tentativo del genere fu compiuto dalla
Svezia quando decise di aderire al serpente monetario, nel tentativo di
rivestire la virtù scandinava della piena occupazione con il rispettabile abito
borghese dell’agganciamento al marco.
Come è noto, la Svezia
dovette lasciare il serpente avendo lacerato l’abito e perso la virtù.
Per quanto riguarda la
riflessione, conviene rinviare alla illustrazione, compiuta dal governatore
della Banca d’Italia nel suo discorso al Forex Club del 15 ottobre, del
funzionamento asimmetrico, per quanto riguarda l’effetto sui prezzi, di una
svalutazione e di una [ri]valutazione.
E, come ha scritto poi recentemente
il professor Monti, il vincolo sulla politica economica interna “non può essere
considerato come insostenibile conseguenza di un’entrata prematura nel
sistema”, poiché in questo secondo caso la ricerca delle responsabilità
diverrebbe un battibecco nazionale.
Tenendo presenti tutti
gli inconvenienti - attuali e potenziali - che ho indicato, e che prima di me
hanno indicato tanti esperti, studiosi e operatori intervenuti nel dibattito,
quali condizioni, quali temperamenti avrebbero potuto rendere la nostra
adesione ad un accordo di cambio non dico appetibile, ma almeno sopportabile?
Vi è solo l’imbarazzo
della scelta nell’indicazione di queste condizioni, nella citazione delle fonti
autorevoli che le elencano: il discorso del ministro del tesoro alla Camera il
10 ottobre, il discorso del governatore della Banca d’Italia il 15 ottobre,
l’audizione dello stesso governatore presso la VI Commissione del Senato il 26
dello stesso mese, un discorso del ministro per il commercio estero il 9
novembre, ripetuti interventi del ministro dell’agricoltura.
Nella versione più blanda
- si badi, più blanda - si chiedeva che il sistema monetario europeo
rispettasse tre condizioni: che esso fosse subito operativo nei tre aspetti
originali previsti, relativi agli accordi di cambio, ai sostegni di credito e
alle misure in favore delle economie meno prospere; che ciascuno di questi
aspetti avesse requisiti minimi di accettabilità; [che] offrisse
caratteristiche di flessibilità in grado di accompagnare senza sussulti il cammino
di rientro dell’Italia verso condizioni economiche generali prossime a quelle
dei paesi più forti.
Non risulta che quanti
oggi chiedono perentoriamente l’ingresso dell’Italia in questo sistema
monetario europeo, così come esso è nato a Bruxelles il 6 dicembre, abbiano mai
eccepito a quelle condizioni quando esse furono enunciate, ed abbiano
significato al Governo l’opportunità di non porre requisiti irrinunciabili.
Dirò di più: le
condizioni indicate dal Governo erano poca cosa rispetto a quelle elencate agli
inizi di settembre, ed ancora a fine novembre, da un mio collega universitario
che siede nell’altro ramo del Parlamento, tanto brillante quanto drastico
nell’espressione dei suoi pareri e tanto drastico quanto volubile
nell’indicazione delle ipotesi e delle conclusioni.
Scriveva allora il
professor Andreatta (e queste
opinioni egli ribadiva ancora in ottobre) che il - problema dei trasferimenti
di reddito era reale e serio, soprattutto con riferimento alla politica
agricola e a quella di bilancio; che le proposte di Brema - di Brema, si badi
bene! - parevano insoddisfacenti rispetto alla esperienza passata, che
occorreva evitare la fissazione di parità bilaterali rifacendosi invece ad un
cambio effettivo secondo tecniche seguite da molte banche centrali, compresa la
nostra (così egli diceva allora, quando ancora non l’aveva assunta a oggetto di
ludibrio); che occorreva che le valute del debitore involontario fossero
sterilizzate dal creditore; che occorreva dotare il nuovo sistema di possibilità
di credito ampie e automatiche e non condizionate; che si doveva definire a
livello comunitario, e possibilmente d’accordo con la riserva federale
americana, la zona di fluttuazione con il dollaro; che era necessario prevedere
un meccanismo che consentisse aggiustamenti frequenti, automatici e simmetrici
delle parità.
Lo stesso professor
Andreatta avvertiva il 29 novembre che “nessun trasferimento di reddito può
compensare un fattivo accordo sul meccanismo di cambio” e che tuttavia, “poiché
il nostro paese deve crescere più della media comunitaria,” occorreva sia -
cito ancora - “rovesciare l’attuale piccolo deficit dei nostri trasferimenti
netti alla Comunità in surplus di un miliardo di unità di conto; sia ottenere
crediti a lunga scadenza ad un saggio di interesse politico.”
Naturalmente, signor
Presidente, neppure i più entusiasti potevano sperare che questa lunga lista,
che questo cahièr des conditiones potesse essere accolto integralmente, e
neppure i più rigidi fra noi ritenevano che tale lista nella sua interezza
dovesse costituire un obiettivo irrinunciabile.
Anche i più rigidi ed i
meno favorevoli accettarono dunque che le condizioni fossero quelle indicate
dal Governo, nei termini generali sopra riferiti e nella specificazione di essi
- che fu fatta nelle varie enunciazioni che ho citato.
Possiamo ritenere, che
quelle condizioni - condizioni veramente minime, quando si considerino i rischi
che ho indicato, sia pure per riassunto, e i costi derivanti dalla attuazione
dell’accordo di cambio non integrato da intese sulla evoluzione delle economie
reali - siano state soddisfatte il 6 dicembre a Bruxelles o, come pure è stato
detto, siano state soddisfatte al 60 per cento?
Non pare proprio.
Zero in materia di trasferimenti reali, da ottenersi mediante modifiche
delle politiche agricole e di bilancio; pochissimo
in materia di crediti: pochissimo non solo per l’esiguità delle somme, ma anche per i condizionamenti posti all’impiego
dei fondi medesimi, che devono
essere impiegati in modo tale da non alterare le condizioni di competitività,
quasi che non si trattasse di portare le regioni più povere della Comunità a
condizioni di competitività pari a quelle di altri paesi.
Ancora, negli accordi di
cambio non solo non ha trovato soluzione il problema del debitore involontario;
forse secondario; ma - più importante - ben poco si è ottenuto, come risulta
dai documenti, in materia di simmetria degli obblighi di intervento e di aggiustamento
delle parità.
Ove il paese deviante
verso l’alto sia la Germania, essa potrà sempre addurre circostanze speciali
che la esonerino dagli obblighi di intervento, dalla adozione di misure di
politica monetaria o da una rivalutazione; ma il paese deviante verso il basso, signor Presidente del Consiglio -
e questo lo sappiamo da lunghe esperienze - finirà
presto o tardi per dovere imboccare una di queste vie: agli interventi con
perdite di riserve faranno seguito svalutazioni
non mitigate da contemporanee rivalutazioni della valuta forte, e queste
saranno necessariamente completate da restrizioni
nella politica monetaria.
Abbiamo ottenuto, è vero,
la banda più larga; e si tratta certo - dobbiamo riconoscerlo - di un risultato
positivo. Positivo sì, ma non certo decisivo, se, come ebbe a dire il ministro
del tesoro alle Commissioni riunite esteri e finanze e tesoro il 20 luglio
scorso - cito testualmente - “il Governo italiano non annette eccessiva
importanza alla possibilità che siano consentiti in via transitoria ad alcuni
paesi margini di fluttuazione più ampi”.
E se, come è stato osservato
anche dal Cancelliere federale tedesco, una valuta debole si trova da sola in
una banda più ampia, può addirittura costituire un obiettivo più facile per la
speculazione, poiché - e questo costituisce un altro punto negativo
dell’accordo di Bruxelles - l’assenza della sterlina dall’accordo indebolisce
ulteriormente la posizione della lira.
Proprio per questo era
stato ripetutamente affermato da governanti e da esperti che il grado di
accettabilità del sistema doveva anche giudicarsi dalla circostanza che ad esso
avessero aderito tutte le valute comunitarie o solo alcune di esse.
Il bilancio del vertice
di Bruxelles è dunque negativo, proprio in relazione alle condizioni che il
Governo aveva definito irrinunciabili, con l’assenso parlamentare e con quello
delle forze politiche.
Presidente del Consiglio,
se avesse aderito all’accordo del 6 dicembre, avrebbe smentito il suo Governo.
Temo che il Presidente
del Consiglio comunicandoci oggi l’adesione senza che alcunché di nuovo sia
intervenuto, abbia smentito oggi il suo Governo.
Ma ci si dice, e con
clamore crescente: “Siano messe da parte queste ”tecnicalità”! Che importa
ottenere un po’ più o un po’ meno di flessibilità, un po’ più o un po’ meno di
simmetria, quando il problema è politico e, superata la fase delle negoziazioni,
deve trovare soluzione politica?”.
Si potrebbe facilmente
obiettare che, se così fosse, ci si potevano ben risparmiare tante pene e tante
fatiche, sopratutto al ministro del tesoro. Si poteva dire subito che la
questione era se entrare o non entrare e non a quali condizioni.
Il Presidente del
Consiglio poteva presentarsi in Parlamento e sollecitare l’assenso
all’ingresso, con mandato ad acquistare il biglietto di ingresso “al meglio”,
come si dice in gergo borsistico.
Ma, al di là di questa
notazione, ci si può ben chiedere in quale senso il problema sia solo politico
(come certamente è), ma tanto politico da indurre a trascurare completamente
una valutazione dei costi economici derivanti al nostro paese dal particolare
assetto che quel nuovo sistema viene ad assumere.
Vi è un senso più chiaro
e più nobile in cui il problema può essere definito politico: si
ritiene che l’edificazione del sistema monetario rappresenti il primo sussulto
dell’idea europea dopo anni di letargo; l’occasione non può e non deve essere
persa; pur di rafforzare la
Comunità, occorre sopportare anche i sacrifici che derivano dalle imperfezioni
tecniche del sistema.
Questo è un argomento che
occorre valutare con attenzione, perché, come ripeto, è il più serio e il più
nobile che ci venga offerto.
Obiettare a questo
argomento è pericoloso - si badi - perché si rischia di essere marchiati di antieuropeismo, si rischia di
essere marchiati come nazionalisti, come retrogradi, perché esiste anche una
sorta di terrorismo ideologico europeistico.
Ma obiettare si deve.
Sono, quelle del sistema
monetario, imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di una
creatura nata politicamente male e politicamente malformata?
Non derivano, queste
imperfezioni, dagli egoismi nazionali
degli altri paesi più forti della Comunità?
Perché mai, altrimenti, i costi
che ci si chiede di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non
paiono esservi costi per i paesi più forti?
Queste domande io vorrei
porre agli amici europeisti, insieme a tante altre.
Perché in sede
comunitaria non si parla più, se non con sprezzante fastidio, del rapporto
McDougall, che definiva i lineamenti di una nuova politica - questa, sì,
veramente europea, nel senso più vero e più pieno del termine! - una politica
di bilancio per l’intera Comunità, indipendentemente dalle nazioni che ad essa
appartenevano?
E perché gli amici
europeisti non si battono, piuttosto che per la moneta europea, per l’unificazione delle politiche di bilancio,
che sarebbe ben più vigorosa per controllare la nostra spesa pubblica e sarebbe
ben più equa per la Comunità?
Perché ogni richiesta di modificare la politica
agricola comune, in modo da consentire una protezione non solo ai prodotti
forti dei paesi forti, ma anche all’agricoltura nascente dei paesi deboli,
viene accantonata?
Perché già si prevede,
nelle inchieste condotte dal Governo
federale tedesco, che l’ingresso dei
paesi mediterranei, da noi desiderato e da noi favorito, si risolverà in una guerra tra poveri, non
essendo disposti i paesi ricchi a ridurre alcuno dei loro privilegi?
Perché, nei giorni in cui
si trattava sul sistema monetario europeo e si esaltava la nuova funzione che
dovrebbe assumere il Parlamento europeo, la decisione
di aumentare il fondo regionale, assunta dal Parlamento, è stata prima bloccata dal veto del rappresentante
francese e poi definitivamente sepolta al vertice di Bruxelles?
Non attribuisco, signor
Presidente del Consiglio, particolare importanza al Fondo regionale, ma poiché
di politica stiamo parlando e di segni, questi sono segni.
Perché il gallicanesimo
della politica francese ha potuto condizionare l’atteggiamento del Presidente
della Repubblica francese, mentre non si ammette che si compia in Italia una
valutazione dei nostri interessi nazionali?
Perché non certo
l’Italia, ma la Francia, intende limitare i poteri del futuro Parlamento
europeo?
A queste domande, signor
Presidente del Consiglio, ne aggiungerei un’altra: riteniamo cosa saggia
consentire che la Gran Bretagna resti da sola al di fuori del sistema
monetario, considerando l’antieuropeismo endemico di quel paese?
Non è questo un modo per
privare la Comunità, di fatto se non di diritto, di uno dei suoi membri?
Vi è un secondo senso,
signor Presidente del Consiglio, in cui la questione può essere considerata
politica, un senso altrettanto chiaro come quello precedente, anche se meno
comprensibile.
Occorre - si ragiona - una costrizione esterna affinché la
nostra economia segua i comportamenti necessari per il suo risanamento; il
sistema monetario europeo è uno strumento che offre questa costrizione, perché
rende più duro e rigido il vincolo
esterno.
E’ difficile condividere
un’impostazione siffatta, non solo perché essa risulta smentita dalla nostra
stesa esperienza di anni recenti (e, se mi consente, signor Presidente del
Consiglio, dalla sua esperienza del 1973), ma anche per altre ragioni: perché,
date le nostre condizioni iniziali, serve a noi un periodo di adattamento,
prima di assumere impegni di cambio; perché questo sforzo di risanamento non
può avvenire senza consenso, e il consenso deve essere suscitato, non può
essere imposto; perché occorre minimizzare i costi sociali ed
economici di questo sforzo e non massimizzarli, con punizioni
inutilmente costose, come avverrà in presenza di un rigido vincolo di cambio;
perché, infine, come ha recentemente scritto con felice espressione il
professor Mario Monti, già citato in precedenza, il pur necessario vincolo
sulla politica economica interna può “essere altrettanto più efficace se viene
vissuto come necessaria preparazione ad un’entrata credibile piuttosto che come
insostenibile conseguenza di un’entrata prematura“.
Non resta, a questo
proposito, onorevole Presidente del Consiglio, che ricordare quanto due mesi fa
ebbe a dire il governatore Baffi: “Sarebbe cattiva ragion politica quella che
venisse adottata per ignorare i limiti e le condizioni nei quali possiamo
impegnarci. Il regime dei cambi fissi non ha avuto negli ultimi 60 anni un
elevato valore coesivo; il sistema monetario europeo darà un contributo alla
coesione, ma non possiamo determinarci nel presupposto che esso valga, quasi
per incanto, a suscitare negli ambiti nazionali le energie di consensi atti ad
allineare rapidamente le politiche interne ad un sistema di obblighi che fosse
definito con eccessiva durezza.”
Ed esiste purtroppo un.
terzo modo di concepire la questione come eminentemente politica, che è il meno
chiaro, il meno nobile.
La questione relativa
all’adesione al sistema monetario europeo può essere impiegata quasi a guisa di
grimaldello per mutare i presenti equilibri politici di partito e di
maggioranza; può essere concepita come prova di forza per affermare una
supremazia; può essere intesa come strumento per fini di parte e non come
materia di cui si debba valutare l’interesse pubblico.
E il meno chiaro e il
meno nobile, questo modo di concepire la questione, dell’adesione al sistema
monetario europeo come esclusivamente politica.
Ma purtroppo, onorevole
Presidente del Consiglio, lo voglia o non lo voglia, è quello che oggi sembra
più avvicinarsi alla realtà dei fatti.
A questo proposito si
possono porre alcune domande, che non trovano risposta, se non quella ovvia,
appena indicata.
Perché alcuni che, come
ho cercato di dimostrare, erano sino a ieri fra gli scettici o fra i dubbiosi,
per ragioni economiche e tecniche precise, ma non per questo meno sostanziali,
si sono all’improvviso, da un giorno d’altro, schierati fra i fautori
dell’adesione immediata?
Ma questa è la domanda
meno importante.
Cosa è avvenuto di nuovo
fra il 6 dicembre e oggi per averla indotta a sciogliere la riserva allora
manifestata?
Nulla, stando a quanto ci
ha comunicato stamane.
Perché allora non aderire
subito, il 6 dicembre?
Il costo e il contenuto
politico dell’operazione sarebbero stati assai minori con una adesione
immediata, e la questione che poteva essere prevalentemente tecnica, con
un’adesione il 6 dicembre, è oggi diventata, lo si voglia o no, una questione
politica.
Infine, perché non si è
ritenuto di prendere neppure in considerazione la soluzione, elaborata nei
giorni scorsi, dai colleghi del partito socialista italiano che ha trovato
espressione formale nella delibera di ieri della direzione del partito
socialista italiano?
Era questa una soluzione
razionale di fronte a un problema sul quale non vi possono essere certezze,
perché le certezze sono stolte su questi problemi, sui quali la ragione
suggeriva soluzioni caute e tali da rendere minimi, nei limiti del possibile, i
rischi per la collettività nazionale.
In una soluzione di
questo tipo si sarebbe potuto trovare un punto di unità, un punto di impegno
serio, senza intrusioni, in una questione di tale importanza, da parte della
bassa cucina della politica.
Onorevole Presidente del
Consiglio, la sua scelta, dunque, in un modo o nell’altro, nel senso più nobile
o in quello meno nobile, è stata politica.
Ella, infatti, ha
ritenuto di accantonare le questioni tecniche; e d’altra parte ella è persona
di troppo buon gusto per attribuire importanza allo status symbol
dell’appartenenza ad un club: non basta il pagamento di una quota di
abbonamento assai salata per ottenere la vera eguaglianza con gli altri membri.
Questa eguaglianza ce la
dobbiamo costruire noi, con le nostre mani, con i nostri sacrifici, e per questo
dobbiamo ottenere e sollecitare un consenso.
Ma questo consenso,
onorevole Presidente del Consiglio, non lo si ottiene con le formule monetarie
o con le imposizioni esterne.
E’ nostro dovere, dovere
di ciascuno di noi, contribuire allo sforzo di risanamento del paese ed
augurarci che tutte le diagnosi tecniche contrastanti con la scelta eseguita
siano errate.
Questo è un nostro
preciso dovere. Il dovere dunque, è nostro.
Ma da oggi, onorevole
Presidente del Consiglio, la responsabilità per ogni costo indebito che ci
debba derivare da questa frettolosa adesione al sistema monetario è sua, e non
potrà essere attribuita ad altri.
(Vivi applausi all’estrema sinistra - Molte
congratulazioni).
[FINE]