Isaac Deutscher
Eretici e rinnegati
1950. Longanesi, Milano
1970, pp. 37-54. Traduzione di Elsa Pelitti.
Vita tragica di un ministro polrugarese
La Polrugaria non è necessariamente
definita da precise coordinate geografiche.
Basta sapere che si trova da qualche
parte nelle zone orientali dell’Europa.
E nemmeno è il caso di andare a
cercare nel Chi è? internazionale il
nome di Vincent Adriano, altro funzionario polrugarese, perché si tratta di un
personaggio per metà reale e per metà immaginario.
I suoi tratti fisici e morali si
potrebbero tuttavia ritrovare in alcune delle persone che attualmente governano
i paesi satelliti della Russia e nessuna delle sue esperienze raccontate qui di
seguito è stata inventata.
Non è nemmeno necessario precisare
quale carica Vincent Adriano occupa nel governo del suo paese.
Potrebbe essere il presidente oppure
il presidente del Consiglio o il vice presidente del Consiglio, o anche
soltanto il ministro degli Interni o quello della Pubblica Istruzione.
In ogni caso però è membro del
Politburo e noto come un pilastro della democrazia popolare in Polrugaria.
Le sua azioni e le sue parole vengono
riportate dalla stampa di tutto il mondo.
Si suole riferirsi a individui dello
stampo di Adriano definendoli “servi di Stalin”, “fantocci della Russia” e
“capi della quinta colonna del Cominform”.
Ma se etichette del genere bastassero
a descriverlo esaurientemente, non varrebbe davvero la pena di dedicargli
un’attenzione particolare.
Senza dubbio, com’è inevitabile, Adriano
è fino a un certo punto un fantoccio e un agente di una potenza straniera, ma è
molto più di questo.
Vincent Adriano è sotto i cinquanta o
li ha passati da poco.
La sua età è importante perché gli
anni della sua formazione sono stati quelli della febbre rivoluzionaria seguita
alla prima guerra mondiale.
Uscito da una famiglia della media
borghesia che prima del 1914 aveva goduto di una certa prosperità e creduto
nella stabilità delle dinastie, dei governi, della moneta e dei principi
morali, tra i quindici e i vent’anni Vincent aveva visto crollare tre vasti
imperi senza che nessuno versasse una lacrima.
In seguito vide i governi costituirsi
e cadere in successione così rapida che era quasi impossibile tener dietro al
conto.
In media, ne passavano da dodici a
venti in un anno e l’avvento di ogni nuovo governo era salutato come l’inizio
di una nuova era; ogni nuovo primo ministro era applaudito come il salvatore.
Dopo qualche settimana, o qualche
giorno, lo si fischiava e lo si cacciava a pedate come un inetto, un ribaldo,
un imbecille.
La moneta della Polrugaria, come
quella di tutti i paesi limitrofi, perdette valore da un mese all’altro, poi da
un giorno all’altro, infine da un’ora all’altra.
Il padre di Adriano vendette la casa
all’inizio di un anno: alla fine di quello stesso anno col denaro ricavato
avrebbe potuto comprarsi sì e no due scatole di fiammiferi.
Nessuna combinazione politica,
nessuna istituzione, nessuna tradizione, nessuna ideologia tradizionale
sembrava in grado di sopravvivere.
Anche i principi morali si
liquefacevano.
La realtà pareva perdere la chiarezza
dei contorni e questo si rifletteva nella nuova arte, poesia, pittura,
scultura.
Il giovane Vincent si convinse
facilmente di assistere al disfacimento di un decrepito ordine sociale, di
vedere con i propri occhi il capitalismo che soccombeva all’attacco
dell’insanabile follia che portava in sé.
Si entusiasmò per gli incandescenti
manifesti dell’Internazionale comunista firmati da Lenin e da Trotzky e ben
presto si iscrisse al partito comunista, che a quel tempo in Polrugaria era
ferocemente perseguitato (le pene per gli iscritti potevano variare da cinque
anni di carcere alla condanna a morte).
Chi aderiva al partito in quei
giorni, non lo faceva certo per motivi di lucro personale o di carriera.
Adriano rinunciò senza esitare alla
prospettiva di una carriera sicura in campo accademico per diventare
rivoluzionario di professione, spinto a ciò da un ideale fratellanza per gli
oppressi e da qualcosa che egli chiamava “convinzione scientifica”.
Lo studio dei classici del marxismo
lo aveva condotto alla ferma convinzione che la proprietà privata dei mezzi di
produzione e il concetto dello Stato nazionale erano ormai sorpassati; di più,
erano destinati ad essere soppiantati da una società socialista internazionale
che avrebbe potuto scaturire soltanto da una dittatura del proletariato.
Dittatura del proletariato non
significava governo dittatoriale di un’oligarchia e men che meno di un capo
singolo, ma predominio politico e sociale delle classi lavoratrici, “la
dittatura di una maggioranza preponderante su un pugno di sfruttatori, di
proprietari terrieri semifeudali e di grandi capitalisti”.
Lungi dal rinnegare la democrazia, la
dittatura del proletariato, pensava Adriano, ne rappresentava anzi la
sublimazione.
Avrebbe riempito con la sostanza
dell’uguaglianza sociale il guscio vuoto dell’uguaglianza formale, il massimo
che la democrazia borghese potesse offrire.
Con questa visione del futuro,
Adriano si gettò a tuffo nel movimento rivoluzionario clandestino.
Non è necessario riferire in tutti i
suoi particolari la carriera rivoluzionaria di Adriano che seguì, fino a un
certo punto, lo schema tipico.
Vi furono gli anni della pericolosa
attività clandestina, quando Vincent visse come un uomo braccato, senza nome né
domicilio e organizzò scioperi, scrisse articoli per i giornali clandestini,
viaggiò per il paese intero, studiandone le condizioni sociali e creando
organizzazioni.
Poi vennero gli anni del carcere e
della tortura, della solitudine impaziente.
La visione del futuro che lo aveva
ispirato si inquinò un poco, per necessità, con gli espedienti, i ripieghi
tattici, i sotterfugi organizzativi: la routine quotidiana dell’uomo politico,
anche di quello che è al servizio di una rivoluzione.
Ma nonostante tutto ciò, il suo
entusiasmo e il suo idealismo non avevano ancora cominciato a evaporare.
Persino in carcere si diede da fare
per mantenere vivi nei compagni convinzioni, speranze, orgoglio dei propri
sacrifici.
Una volta organizzò uno sciopero
della fame tra centinaia di detenuti politici, sciopero che durò sei o sette
settimane e fu uno dei più lunghi che mai si fossero fatti.
Il direttore della prigione sapeva
che per spezzarlo doveva prima spezzare Vincent Adriano.
Le guardie carcerarie trascinarono
per i piedi il detenuto, esausto ed emaciato, giù per la scala di ferro, dalla
sua cella al sesto piano, facendogli sbattere la testa su ognuno degli scalini
taglienti e rugginosi, finché egli non svenne.
Vincent Adriano divenne un eroe
leggendario.
Riuscì finalmente a evadere dal
carcere con alcuni compagni e a rifugiarsi in Russia.
E siccome trascorse poi parecchi anni
a Mosca, ora si dice e si scrive spesso di lui che appartiene al “nucleo
intransigente di agenti istruiti a Mosca che controllano la Polrugaria”.
Parole che, se gli capitano sotto gli
occhi, fanno salire alle sue labbra un triste, ironico sorriso.
Quando arrivò a Mosca, nel 1931 o
’32, Adriano non era uno dei capi del partito polruganese, e non gli importava
gran che del proprio posto nella scala gerarchica.
Lo preoccupava molto di più la
confusione sorta nella sua mente da quando aveva potuto confrontare il quadro
che s’era fatto della società futura con la vita nell’Unione Sovietica sotto
Stalin.
Non osava ammettere nemmeno con se
stesso la portata della propria delusione e anche questa fu un’esperienza
tipica degli uomini come lui, così che non è nemmeno necessario attardarsi a
discuterne.
E tipici furono pure i luoghi comuni,
le mezze verità, la volontà di illudersi con i quali cercò di blandire la
propria conturbata coscienza comunista.
La secolare povertà della Russia, il
suo isolamento nel cuore di un mondo capitalista, i pericoli che la
minacciavano dall’esterno, l’analfabetismo delle masse, la loro pigrizia e la
mancanza di senso civico... questo e altro ancora ricordava a se stesso per
spiegarsi come mai la vita in Russia fosse così dolorosamente vuota di ideali.
“Oh”, sospirava, “se la rivoluzione
avesse invece trionfato per la prima volta in un paese più civile e progredito!
Ma la storia deve essere accettata così com’è e la Russia merita se non altro
il rispetto e la gratitudine dovuti ai pionieri, quali che siano i loro errori
e le loro manchevolezze.”
E faceva di tutto per non vedere le
realtà della vita che lo circondavano.
Poi vennero le grandi purghe del
1936-38.
Molti capi del partito polruganese
furono fucilati come spie, sabotatori e agenti della polizia politica del loro
paese e prima di morire furono costretti (come vi furono costretti i loro
familiari, mogli, fratelli e sorelle) a testimoniare l’uno contro l’altro.
Fra gli uomini così disonorati e
giustiziati ve n’era uno che più di ogni altro aveva destato l’entusiasmo di
Adriano e sostenuto il suo coraggio, che lo aveva iniziato ai più difficili
problemi della teoria marxista, che Adriano aveva sempre considerato amico
sicuro e guida spirituale.
Anche a Vincent Adriano furono mosse
le consuete accuse, ma per un capriccio della fortuna, o forse del capo della
GPU, Yezhov, o di uno dei suoi scagnozzi, non lo portarono davanti al plotone
di esecuzione.
Lo deportarono invece in un campo di
lavoro forzato, in un punto imprecisato del circolo subpolare, dove si trovò in
numerosa compagnia (seguaci di Trotzky, di Zinoviev e di Bucharin, kulaki,
nazionalisti ucraini, banditi e ladri, ex generali, ex professori universitari
e organizzatori del partito) e fu impiegato come gli altri ad abbattere alberi
e a trasportarli da una foresta a un lontano deposito.
Il gelo, la fame e le malattie
decimavano i deportati, ma il loro posto veniva sempre riempito dai nuovi
arrivati.
Adriano vedeva i suoi compagni
ridursi dapprima a lottare come animali per sopravvivere, poi perdere la
volontà di lottare e di sopravvivere e infine crollare e morire come mosche.
Ma chissà come, la sua vitalità non
cedette.
Vincent continuò a maneggiare con le
dita congelate la sua ascia, a mettersi ogni tre o quattro giorni, con altri compagni
di prigionia, fra le stanghe di un carro carico di tronchi per trascinarlo
attraverso la pianura coperta di neve e ghiaccio, fino al deposito distante
parecchi chilometri.
Erano queste le ore peggiori.
Adriano non sapeva rassegnarsi al
fatto di essere usato come una bestia da soma, nel paese dei suoi sogni, lui,
il fiero rivoluzionario.
Ancora oggi, quando pensa a quei
giorni, sente una fitta dolorosa al cuore e per questo legge con un sorriso
triste i riferimenti al suo misterioso “addestramento nelle attività da quinta
colonna” che avrebbe ricevuto in Russia.
In un angolo del cervello cercava di
dipanare il groviglio di circostanze che lo avevano portato a quella
degradazione e di notte ne discuteva con gli altri deportati.
Il problema era vasto e confuso oltre
ogni limite di comprensione.
Alcuni deportati comunisti
sostenevano che Stalin aveva compiuto una controrivoluzione, distruggendo tutto
ciò che era stato fatto dalla rivoluzione di Lenin.
Altri sostenevano invece che
le basi della rivoluzione (proprietà pubblica ed economia collettivistica)
erano rimaste intatte, ma che invece di una libera società socialista su quelle
basi si era costruito un mostruoso sistema di socialismo combinato con la
schiavitù.
Le prospettive erano quindi assai più
gravi di quanto essi avrebbero mai potuto immaginare, ma sussisteva forse
ancora qualche speranza, se non per la loro generazione, per quella successiva.
Lo stalinismo, era vero, stava
gettando enorme discredito sull’ideale socialista, ma forse si sarebbe potuto
ancora salvare dal naufragio quel che del socialismo era rimasto.
Adriano non sapeva che pensare, ma propendeva
piuttosto per questa seconda tesi.
Poi gli eventi presero a un tratto
una piega tanto fantastica che nemmeno l’immaginazione più fertile avrebbe
potuto concepirla.
Un giorno, verso la fine del 1941
(gli eserciti di Hitler erano appena stati ricacciati dalle porte della
capitale russa), Adriano fu liberato dal campo di concentramento e condotto con
i massimi onori a Mosca.
Il Cremlino aveva bisogno urgente di
comunisti dell’Europa centrale e orientale in grado di trasmettere messaggi radio
ai paesi occupati dai nazisti e di stabilire contatti con i movimenti
clandestini alle spalle delle linee nemiche e a questo scopo erano
particolarmente ricercati i polrugaresi, data l’importanza strategica della
loro patria.
Ma non uno dei capi del partito comunista
polrugarese era rimasto vivo.
I pochi esponenti meno importanti,
sparsi nei vari campi di concentramento, furono ricondotti d’urgenza a Mosca,
riabilitati e messi al lavoro.
La riabilitazione avvenne sotto forma
di scuse da parte della polizia di sicurezza, la quale dichiarò che la
deportazione del compagno Tal dei Tali era stata un deplorevole errore.
Parecchie volte la settimana Adriano,
messo davanti a un microfono, gridò all’etere la propria fiducia nella Terra
del Socialismo, esaltò Stalin e la sua opera, esortò i polrugaresi a sollevarsi
dietro le linee nemiche e a prepararsi per la liberazione.
Adriano era profondamente cosciente
dell’assurdità di quella situazione.
Era diventato il propagandista dei
suoi carcerieri e torturatori, di color che avevano denigrato e distrutto i
capi del comunismo polrugarese, compreso l‘uomo che era stato per lui amico e
guida.
In cuor suo, non poteva dimenticare
né perdonare le sofferenze e le vergogne delle purghe.
E con una parte del suo cervello non
poteva distaccarsi dagli infelici che erano rimasti lassù, al nord.
Ma non poteva rifiutare l’incarico.
Un rifiuto sarebbe stato giudicato
come sabotaggio dello sforzo bellico e punito con la condanna a morte o alla
deportazione.
Tuttavia non fu soltanto per salvare
la pelle che Adriano si prestò a fare quel lavoro.
Bramava contribuire alla disfatta del
nazismo e per questo, pensava, era giusto dare la mano “al demonio e a sua
nonna”... e a Stalin.
Ma il desiderio di sconfiggere il
nazismo non era tutto.
Nonostante le sue dolorose
esperienze, Adriano era tuttora attaccato alle proprie vecchie idee e speranze.
Era ancora comunista.
Anticipava con la mente il fermento
rivoluzionario che dopo la guerra sarebbe dilagato in tutto il mondo
capitalista.
Quanto più grave era la delusione
inflittagli dall’Unione Sovietica, tanto più intensa era la sua speranza che la
vittoria del comunismo in altri paesi avrebbe rinnovato il suo spirito e lo
avrebbe liberato dall’infida tutela del Cremlino.
Gli stessi motivi lo indussero ad accettare
una proposta che Stalin gli fece personalmente dopo qualche mese, quella di
organizzare un comitato di liberazione della Polrugaria e divenirne il
segretario.
Era certo che prima o poi l’armata
rossa sarebbe entrata in Polrugaria.
Il comitato di liberazione sarebbe
entrato nella sua scia per diventare il nucleo di un governo provvisorio.
Adriano era sovraccarico di lavoro.
Quale incaricato dei contatti con la
resistenza polrugarese, impartiva istruzioni agli emissari che penetravano fra
le linee nemiche o venivano paracadutati alle loro spalle; riceveva i rapporti
dai guerriglieri sparsi nei paesi occupati e li trasmetteva ai superiori;
provvedeva perché i capi dei partiti non comunisti e persino anticomunisti
potessero espatriare clandestinamente e raggiungere Mosca.
Riuscì persino a convincerne alcuni a
entrare nel comitato di liberazione.
Il seguito lo conoscono tutti.
Il comitato di liberazione divenne il
governo provvisorio, poi il governo effettivo della Polrugaria.
I partiti non comunisti vennero
estromessi l’uno dopo l’altro e poi soppressi.
La Polrugaria divenne una democrazia
popolare.
Adriano è uno dei pilastri del nuovo
governo e niente finora lascia prevedere una sua probabile eclissi.
Non ha potuto uscire dalla trappola,
ma non v’è rimasto schiacciato.
Esistono due Vincent Adriano ora.
Uno pare non avere mai avuto un
attimo di dubbio o di incertezza.
La sua ortodossia stalinista non ha
mai destato sospetti, la sua devozione al partito non ha mai vacillato, le sue
doti di capo e di statista sono ritenute insuperabili.
L’altro Adriano è torturato quasi
senza soste dalla propria coscienza comunista, sempre in preda a scrupoli e
paure, a illusioni e delusioni.
Il primo è eloquente ed espansivo, il
secondo rimugina in silenzio e non si confida nemmeno con i più vecchi amici.
Il primo agisce, il secondo non
smette mai di riflettere.
Dal 1945 al 1947 i due Adriano
vissero quasi in pace l’uno con l’altro.
In quegli anni il partito polrugarese
attuò alcune delle riforme radicali che aveva in programma da decenni.
Attaccò il problema del latifondo.
Divise tra i contadini affamati di
terre gli immensi possedimenti semifeudali.
Diede il via a piani grandiosi per lo
sviluppo industriale di un paese gravemente sottosviluppato.
Promosse una vasta legislazione
sociale progressista e un’ambiziosa riforma scolastica.
Quei provvedimenti riempirono di
gioia e di orgoglio il cuore di Adriano.
Proprio per quello, in fin dei conti,
egli aveva languito nelle prigioni del suo paese.
In quegli anni poi, anche Mosca, per
ragioni sue, andava dicendo ai polrugaresi che non dovevano uniformarsi troppo
al modello sovietico, che dovevano cercare e seguire una loro “via nazionale al
socialismo”.
Per Adriano questo significava che
alla Polrugaria sarebbero stati risparmiati le purghe e i campi di
concentramento, l’abbietto servilismo e le paure.
Comunismo, intenso sviluppo
industriale e scolastico, una certa autentica libertà di discussione e di
critica... pareva proprio il raggiungimento dell’ideale.
Lo turbava solo lo scarso entusiasmo
per la rivoluzione mostrato dalla popolazione polrugarese.
Certo, tutti ne vedevano i vantaggi e
nel complesso li approvavano.
Ma si risentivano per il fatto che la
rivoluzione venisse compiuta dall’alto da persone che essi non avevano scelto,
che spesso non si degnavano nemmeno di consultarli e che avevano tutta l’aria
di essere strumenti di una potenza straniera.
Adriano sapeva bene quanto la
presenza dell’armata rossa avesse facilitato la rivoluzione.
Senza il suo appoggio, le forze della
controrivoluzione, con l’aiuto delle democrazie borghesi occidentali, si
sarebbero riaffermate attraverso una sanguinosa guerra civile, com’era accaduto
dopo la prima guerra mondiale.
Ma rifletteva che una rivoluzione che
non abbia dietro a sé un genuino entusiasmo popolare è già sconfitta a mezzo.
Tende a non fidarsi del popolo che
dovrebbe servire.
E la mancanza di fiducia potrebbe
generare paure e terrore com’era accaduto in Russia.
Tuttavia, pur rendendosi conto di
quei pericoli, Adriano sperava che attraverso un’onesta e attiva dedizione a
favore delle masse, il nuovo governo polruganese sarebbe riuscito a
conquistarsi la loro fiducia e a destare il loro entusiasmo.
Allora il nuovo ordine sociale
avrebbe potuto reggersi coi propri mezzi. Prima o poi l’esercito sovietico se
ne sarebbe tornato in Russia.
Doveva esservi un’altra via al
socialismo, pensava, forse non esattamente polrugarese, ma nemmeno russa o
staliniana.
Frattanto, Vincent Adriano prese
alcuni provvedimenti che furono compresi solo dagli iniziati.
Promosse in Polrugaria una vasta
azione intesa a glorificare la memoria del suo vecchio amico giustiziato in
Russia, benché Mosca non ne avesse riabilitato ufficialmente il nome.
La biografia del capo defunto è
tuttora esposta nelle librerie, accanto alla biografia ufficiale di Stalin.
E siccome nel libro non si parla
delle circostanze che accompagnarono la morte del martire, soltanto i più
vecchi comunisti conoscono le implicazioni recondite di questo omaggio.
Adriano ha anche istituito un ente
speciale per l’assistenza alle famiglie di tutti i comunisti polrugaresi
giustiziati a Mosca come “spie e traditori”.
L’ente si chiama Fondazione dei
Veterani e dei Martiri della Rivoluzione.
Questi provvedimenti danno a Vincent
Adriano una certa soddisfazione morale, egli sa benissimo che dal punto di
vista politico la loro importanza è irrilevante.
Ma quando i due campi opposti,
oriente e occidente, cominciarono a schierare le proprie forze e quando i capi
delle due parti, ognuno alla propria maniera, misero tutti di fronte a un
categorico “chi non è con me è contro di me” le prospettive di Adriano si
fecero oscure.
Avesse potuto fare a suo modo,
Vincent avrebbe risposto con un cordiale: “All’inferno voi e loro!”.
L’uomo che era stato un reietto nella
Russia di Stalin, una bestia da soma in un campo di concentramento, l’uomo cui
ogni copia della Pravda con i suoi
dissennati inni a Stalin dà un acuto senso di nausea, ha visto rabbrividendo la
sua “via nazionale al socialismo” diventare sempre di più la via staliniana.
Ma non vede come potrebbe
distaccarsene.
E’ certo che l’occidente non abbia da
offrire all’Europa centrale e orientale altro che la controrivoluzione.
L’occidente può pure esaltare la
libertà e la dignità dell’uomo (e chi più di Adriano ha avuto modo di esplorare
tragicamente, fino al fondo, il significato di quegli ideali?), ma gli occhi di
Vincent sono fissi al baratro ch’egli vede tra le promesse occidentali e il
loro adempimento.
Crede fermamente che nella sua parte
di mondo ogni tentativo di ribellione aggraverà anziché alleggerire
l’oppressione, peggiorerà anziché lenire la degradazione dell’uomo.
E’ disposto a concedere che quanti
parlano in favore dell’occidente siano sinceri nelle loro promesse, ma aggiunge
di avere conservato la vecchia abitudine marxista di non tenere conto dei
desideri e delle promesse degli statisti, per tenere l’occhio sulle realtà sociali
a politiche.
Chi in Polrigaria, si domanda,
sarebbe pronto ad arruolarsi sotto le bandiere dell’occidente?
Sì, ci sarebbe forse anche qualche
onesto in buona fede, ma questi sarebbero i minchioni.
I più energici e attivi alleati
dell’occidente in Polrugaria sono coloro che avevano qualcosa in gioco nel
vecchio ordine sociale, i privilegiati della dittatura d’anteguerra, i vecchi soldateska, i grandi proprietari
terrieri espropriati e i loro simili.
Se dovesse prevalere l’occidente,
costoro sarebbero a capo del nuovo governo e, in nome della libertà e della
dignità dell’uomo, scatenerebbero un terrore bianco del quale non si è mai
visto l’uguale.
Adriano ha già sperimentato anche il
loro terrore.
Ma a quel tempo la vecchia classe
dirigente era convinta che quel regime sarebbe durato in eterno e questa
fiducia la tratteneva dallo scatenare fino alla follia quel terrore.
Ora, se tornasse al potere, sarebbe
fuori di sé per la paura e il desiderio di vendetta.
La vera scelta, secondo Adriano, non
è fra la tirannia e la libertà, ma fra la tirannia stalinista, riscattata in
parte dal progresso sociale ed economico, e una tirannia reazionaria che non
sarebbe riscatta da niente.
A volte Adriano sarebbe felice di
poter rinunciare al suo alto incarico e sparire nell’oscurità.
Ma il mondo è diventato troppo
piccolo.
Un uomo come lui non può cercare
rifugio in occidente.
Secondo lui, sarebbe un vero e
proprio tradimento, non verso la Russia, ma verso l’ideale comunista ch’egli ha
sempre sognato.
Le dimissioni e il ritiro a vita
privata sarebbero un gesto di opposizione e di sfida, e questo il regime che
lui stesso ha concorso a stabilire non potrebbe permetterlo.
Che cosa hanno ancora in comune il
giovane che un tempo si gettò nella mischia con ardore da Prometeo per vincere
la follia della storia quale si manifestava nel sistema capitalistico, e il
ministro di mezza età che intuisce come le forze irrazionali della storia
abbiano sopraffatto anche la rivoluzione, trascinando pure lui,
incidentalmente, in una trappola?
Adriano fa quanto può per conservare
il rispetto di se stesso, per convincersi che come statista, come alto
funzionario e come capo egli è sempre lo stesso uomo che sposò la causa degli
oppressi e che per essa soffrì nelle patrie galere.
Ma talvolta, mentre riceve in forma
solenne una delegazione di contadini o saluta un pittoresco corteo, una nota
fitta di dolore gli trapassa il cuore e il ministro sente a un tratto di essere
soltanto un patetico rottame, la bestia da soma del circolo subpolare.
[FINE]