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Nicholas Kaldor
The Nemesis of
Free Trade
Kaldor, N. (1978). “Further Essays on Applied
Economics”. London: Ducksworth. pp. 234-241.
La nemesi del libero scambio
[
Traduzione di Giorgio D.M. ]
Lasciate che incominci con una
citazione:
“Sono stato educato, come quasi tutti
gli inglesi, al rispetto del Libero Scambio, non solo come una dottrina
economica della quale una persona razionale e istruita non può dubitare ma
quasi come un articolo della legge morale.
Consideravo ogni deviazione da esso
come una idiozia e un oltraggio nello stesso tempo.
Pensavo che l’incrollabile fede
dell’Inghilterra nel Libero Scambio, mantenuta per quasi cento anni, fosse sia la
spiegazione di fronte agli uomini che la giustificazione di fronte a Dio della
sua supremazia economica.
Ancora nel 1923 scrivevo che il
Libero Scambio era basato su verità fondamentali che, affermate con le dovute
limitazioni, nessuno che sia capace di comprendere il significato delle parole
potrebbe mettere in discussione.”
Questo non è stato detto da John
Stuart Mill, né da Alfred Marshall, e neppure da un grande statista liberale
come Asquith.
E’ il paragrafo introduttivo di due
articoli scritti da John Maynard Keynes e intitolati “National
Self-Sufficiency” che furono pubblicati dal New
Statesman and Nation nel luglio del 1933 – scritti, bisogna dirlo, quasi
due anni dopo l’abbandono del gold
standard da parte della Gran Bretagna.
Keynes aveva proposto l’introduzione
di un “dazio sulle importazioni” [revenue tariff] due anni prima, come una alternativa all’abbandono del gold
standard e come un modo per espandere di nuovo l’economia caduta in uno stato
di depressione.
Ma in questi due articoli egli
affrontò la questione del commercio internazionale da un punto di vista più
orientato al lungo periodo, e si domandò se i vantaggi della divisione
internazionale del lavoro o della specializzazione fossero così grandi nel XX Secolo
come lo erano stati nel XIX Secolo, e se la posizione a favore di una maggiore
autosufficienza non si rafforzi se si considerano i vantaggi che ne derivano in
termini di una maggiore stabilità economica.
Tuttavia questi due articoli furono
curiosamente insoddisfacenti – Keynes ricercò le ragioni per le quali il libero
scambio aveva fallito nel produrre buoni risultati ma in quel momento non seppe
come trovarle.
In particolare egli non riuscì ad
afferrare le due questioni cruciali della controversia tra il libero scambio e la protezione: la questione del livello dell’occupazione e la questione del tasso di crescita dell’economia.
Queste questioni erano state le più
rilevanti nel dibattito iniziato da Joseph
Chamberlain trenta anni prima – nella famosa campagna per la riforma dei
dazi del 1903.
Le questioni affrontate e gli
argomenti esposti in quel dibattito suonano curiosamente familiari a chi ha
seguito o partecipato alle recenti discussioni sulla politica economica – con
la sola differenza che i protagonisti sembrano essersi scambiate le parti –
quello che allora era considerato di destra oggi è considerato di sinistra e
viceversa.
Forse questo è semplicistico, ed è un
errore etichettare politicamente le argomentazioni economiche – Joe Chamberlain
era dopotutto un radicale che divenne conservatore nell’ultima parte della sua
vita.
Comunque sia, molti dei punti
contenuti nei discorsi tenuti da Joe Chamberlain nel periodo 1903-1905 (e il
loro tono complessivo) potrebbero oggi essere più facilmente ascoltati da un
membro del gruppo Tribune piuttosto che da un membro del Partito Conservatore,
mentre gli argomenti del grande oppositore di Chamberlain di allora, [il
liberale] Asquith, sono molto più vicini a quelli avanzati da conservatori di
destra come Keith Joseph o Brittan, o dall’attuale direttore del The Times.
E’ opportuno perciò richiamare alcune
delle affermazioni di Chamberlain, e degli argomenti che furono contrapposti ad
esse.
I
I.1
La principale preoccupazione di
Chamberlain fu di “assicurare più
occupazione a un salario equo per i lavoratori di questa nazione”. Egli
disse nel 1905 (cioè trenta anni prima di Keynes!) che “la questione dell’occupazione è oggi divenuta la più
importante questione del nostro tempo. Prodotti a un prezzo accessibile, più
elevate condizioni di vita, salari più alti – tutte queste cose sono contenute
nella parola “occupazione”. Se la mia
politica vi dà più occupazione, tutte
le altre cose si aggiungeranno per voi.”
I.2
La sua seconda preoccupazione fu di
mantenere un tasso di crescita dell’economia soddisfacente – non solo in senso assoluto,
ma anche relativamente ai concorrenti
della Gran Bretagna 1.
I.3
Egli spiegò che gli effetti del
declino industriale sono molto diversi per l’industriale
[manufacturer] e per il lavoratore.
L’industriale può salvarsi – può
investire il suo capitale all’estero, dove i profitti sono più elevati (perché
lì si può operare su di un mercato nazionale protetto). “Sì, l’industriale può
salvarsi [avrebbe potuto aggiungere “potrebbe diventare una multinazionale”].
Ma non è per lui che io sono maggiormente preoccupato. E’ per voi – i
lavoratori – dico che per voi la perdita del lavoro significa più di quanto
possa significare la perdita del capitale per un qualsiasi industriale.
Voi non avete investimenti in un paese straniero che vi consentano di
vivere. Voi vivete
con il lavoro delle vostre mani – e se quel lavoro vi è tolto, voi non avete
alternative, eccetto forse l’imparare il francese o il tedesco.”
(Questo è proprio quello che gli
oppositori di sinistra del Mercato Comune hanno detto in anni recenti).
I.4
Gli argomenti contrari, avanzati da
Asquith, ruotavano tutti attorno alla proposizione secondo la quale le
difficoltà della Gran Bretagna erano dovute alle sue inefficienze e che queste
a loro volta erano dovute al suo ostinato conservatorismo nel campo
industriale.
La protezione avrebbe congelato le inefficienze anziché
incoraggiare il necessario trasferimento delle risorse.
Se un’attività economica diventa non
profittevole, questo avviene solo perché le
risorse impiegate in essa devono avere un più importante uso altrove.
Vale la pena di citare per intero la
risposta di Chamberlain a questo argomento:
“Credo che tutto questo sia parte del
vecchio errore a proposito del trasferimento dell’occupazione. [...] E’ colpa tua se tu non lasci il
settore dell’attività economica che sta fallendo e se non entri nel settore che
sta emergendo.
Be’, signori, è una teoria davvero ammirevole:
è soddisfacente per tutti tranne che per una pancia vuota.
Guardate quanto è semplice.
La tua attività di raffinazione dello
zucchero, una volta prospera, è finita? Tutto bene, prova con le marmellate.
Il settore dell’acciaio è in crisi? Non
ti preoccupare, puoi fabbricare trappole per topi.
Il commercio del cotone è minacciato?
Be’, cosa ti importa? Se provassi con gli occhi delle bambole…
Ma quanto può andare avanti tutto
questo?
Perché mai supponete che lo stesso
processo che ha rovinato l’attività di raffinazione dello zucchero non si
applicherà nel corso del tempo alle marmellate?
E quando anche le marmellate saranno
andate? Allora dovrete trovare qualcosa d’altro.
Credetemi, anche se i settori
dell’attività industriale di questo paese sono numerosi, non potete andare
avanti così all’infinito.
Non potete continuare ad assistere
con indifferenza alla scomparsa dei vostri principali settori industriali.”
I.5
La risposta successiva di Asquith –
di nuovo un argomento incontrato spesso negli anni recenti – fu che Chamberlain
aveva compiuto un errore imperdonabile concentrandosi sui settori “visibili” –
quelli dei beni industriali, come se questi fossero gli unici davvero
importanti, mentre la Gran Bretagna aveva settori in rapido sviluppo e fonte di
guadagni “invisibili” che pagavano per una quota crescente delle importazioni.
Ma Chamberlain replicò “quale tipo di esportazioni compensa le
importazioni? Se importiamo qualcosa
che è l’equivalente di una sterlina di lavoro, una sterlina di salari –
esportiamo l’equivalente di una sterlina di salari?
La finanza, e gli altri settori
invisibili dell’economia, o i redditi dall’estero, non incrementano
l’occupazione nazionale, o non nello
stesso modo.
I lavoratori potrebbero morire di
fame nel bel mezzo di una abbondanza senza precedenti.”
II
Tuttavia l’essenza della posizione
contraria al libero scambio – che non fu affatto
colta o compresa da Asquith e dagli altri sostenitori del libero scambio – fu
solo vagamente percepita da Chamberlain, come mostra questo passaggio:
“Quando Cohen predicava la sua
dottrina, egli credeva […] che mentre le nazioni straniere ci avrebbero fornito
generi alimentari e materie prime, noi gli avremmo fornito in cambio i nostri
manufatti.
Ma questo è esattamente quello che
noi non abbiamo fatto.
Al contrario, nel periodo che ho
considerato noi abbiamo inviato sempre meno dei nostri manufatti a loro ed essi
hanno inviato sempre più dei loro manufatti a noi.”
(Questo si riferisce ai primi anni
del Novecento, non agli anni Settanta!)
Perché un settore dell’economia è
diverso dall’altro?
La risposta è che le attività
manifatturiere sono soggette a rendimenti
di scala crescenti - sia di tipo statico che di tipo dinamico – e sotto
queste condizioni la presunzione derivata dalla dottrina di Ricardo dei costi
comparati – la presunzione che il libero scambio assicuri la migliore
allocazione delle risorse per ciascuno e per tutti i partecipanti ad esso, e
che ci debba essere un guadagno netto dal commercio per tutti – non è più valida.
Perché sotto queste condizioni si può
dimostrare che il libero scambio può condurre a una crescita limitata, o anche
all’impoverimento di alcune regioni (o nazioni) a maggiore vantaggio di altre.
Questo è un punto che Adam Smith –
che pose la più forte enfasi sui
benefici della “divisione del lavoro” che dipende dalla “estensione del
mercato” – certamente non colse, anche se egli fu perfettamente consapevole del
fatto che i rendimenti crescenti – la riduzione dei costi derivante da una più
ampia scala di produzione – si applicano all’industria manifatturiera, e non
all’agricoltura nella quale prevalgono invece i rendimenti decrescenti.
Il pamphlet di Ricardo sull’influenza
del prezzo dei cereali sui profitti *
– che fu influente nel plasmare l’intero pensiero dell’Ottocento come nessun
altro pamphlet di quel secolo – costituì un potente argomento contro la protezione della agricoltura.
La questione della protezione
dell’attività manifatturiera non si pose perché allora la Gran Bretagna era
all’avanguardia nel mondo come nazione manifatturiera, e la questione della
necessità della sua industria di essere protetta era una questione che nessuno
considerava.
Al contrario, la libera importazione dei
cereali incrementando i redditi dei produttori stranieri aveva un effetto
benefico sulle nostre esportazioni di manufatti.
Quindi nel contesto della teoria di
Ricardo, e nella situazione storica della Gran Bretagna di allora, il libero
scambio poteva comportare solo vantaggi: (1) prezzi minori per i prodotti
alimentari; (2) salari minori in termini di beni industriali; (3) profitti più
elevati e una più rapida accumulazione di capitale nel settore industriale; (4)
mercati più ampi per i manufatti della Gran Bretagna, in cambio delle
importazioni più elevate.
Per completezza, Ricardo avrebbe
dovuto aggiungere che il libero scambio avrebbe potuto non essere ugualmente vantaggioso per le nazioni
straniere che, sebbene avrebbero esportato più generi alimentari e materie
prime verso la Gran Bretagna, avrebbero però potuto anche soffrire una perdita
di reddito a causa della contrazione delle loro attività manifatturiere.
In realtà, l’arrivo di prodotti
industriali poco costosi fabbricati in Inghilterra causò effettivamente una perdita di occupazione e di produzione per i
settori che operavano su piccola scala (l’artigianato) sia nei paesi europei
(dove più tardi fu compensata da una industrializzazione su larga scala portata
avanti con la protezione) sia e ancora di più in India e in Cina, dove non fu
compensata nello stesso modo.
Mentre però il pamphlet originale di
Ricardo, e le argomentazioni politiche basate su di esso, furono perfettamente
fondati, la formulazione successiva da parte di Ricardo della dottrina dei
“costi comparati” insinuò ulteriori assunzioni nell’argomentazione con la
conseguenza sfortunata che si attribuirono al “libero scambio” più vantaggi di
quelli che erano davvero giustificati.
Perché nel dimostrare, o nel
tentativo di dimostrare, che tutte le nazioni avrebbero tratto benefici dal
libero scambio, senza considerare se esse avessero costi elevati o bassi, se
fossero ricche o povere, Ricardo introdusse (senza davvero rendersi conto della
sua importanza o delle sue conseguenze) la principale assunzione neoclassica
della “linearità” – l’assunzione universale di funzioni di produzione
lineari-omogenee ovvero di rendimenti di scala costanti, cioè di costi per
unità di prodotto costanti indipendentemente da quanto grande o piccola sia la
produzione.
E’ solo sotto queste assunzioni che è
valida l’ipotesi che il Portogallo sarà necessariamente reso più ricco dal
libero scambio, anche se il libero scambio induce il Portogallo a
specializzarsi nella produzione del vino (cioè nell’agricoltura, un settore con
rendimenti di scala decrescenti) e l’Inghilterra a specializzarsi nella
produzione di abiti; e sotto queste assunzioni non c’è davvero motivo per
interferire con il commercio, né per quanto riguarda l’occupazione né per
quanto riguarda la produttività.
Sotto queste assunzioni il libero
scambio deve essere sempre una Buona Cosa, anche se è unilaterale.
III
Questa estensione formale della teoria
da parte di Ricardo ha avuto delle conseguenze estremamente sfortunate delle
quali soffriamo ancora oggi.
Perché mentre il libero scambio si
adattò perfettamente alla Gran Bretagna allorché le servì per incrementare la quota delle imprese manifatturiere del Regno Unito nel mercato mondiale,
e perciò incrementò il tasso di crescita della nostra industria manifatturiera
e del nostro Prodotto Interno Lordo, accadde l’opposto quando altre nazioni –
la Germania, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, per nominare solo le più
importanti – incominciarono a sviluppare le loro industrie manifatturiere
dietro lo scudo di dazi protettivi contro le importazioni.
Il nostro rimanere aderenti al libero
scambio ha significato che tutto un insieme di nuovi settori industriali – come quello chimico o i settori basati
sull’impiego dell’elettricità – non poterono svilupparsi adeguatamente nel
nostro paese.
Man mano che i settori industriali
tradizionali divenivano progressivamente meno profittevoli i nostri risparmi venivano
sempre più investiti all’estero.
Le esportazioni della Gran Bretagna
furono respinte da un posto dopo l’altro, man mano che un mercato dopo l’altro
veniva chiuso – “ogni volta che incominciamo un commercio la porta ci viene
chiusa in faccia con enormi dazi (Chamberlain).”
Dopo 25 prosperi anni di crescita
veloce (3,5%), terminati nel 1873, abbiamo avuto 40 anni di crescita lenta
(1,5%), gli ultimi 14 dei quali, in questo secolo, sono stati i peggiori – con
una produttività in calo, il Prodotto Interno Lordo stagnante, gli investimenti
nazionali dimezzati (fino al 5% del PIL, a fronte del 15% in Germania),
l’esportazione di capitali che ha raggiunto livelli senza precedenti.
L’emigrazione netta dalla sola Gran
Bretagna (senza considerare l’Irlanda) è stata pari a circa 6 milioni di
persone tra il 1880 e il 1910.
La grande vittoria dei Liberali del
1906, riconfermando l’aderenza al libero scambio, rese la continuazione della
stagnazione economica certa; da essa la Gran Bretagna si riprese solo con la prima
guerra mondiale.
(Si può sostenere che, senza le
guerre mondiali, la crisi attuale si sarebbe verificata con 50 anni di
anticipo.)
Dopo di allora le cose non andarono
più così male fino agli anni Settanta.
Perché la prima guerra mondiale vide
una veloce re-industrializzazione
della Gran Bretagna, forzata dalle necessità della guerra e dall’energia
sconfinata di Lloyd Gorge; e, dopo di essa, alcuni settori industriali – i
cosiddetti “settori chiave”, come la chimica, l’ottica e altri, come il settore
della motoristica – rimasero protetti.
Poi, dopo un tentativo che non riuscì
(da parte di Stanley Baldwin, nel 1923), i Tories finalmente ebbero successo
nell’introdurre un dazio generale del 20% ad
valorem su tutti i manufatti (e del 30% nei settori dell’acciaio e della
chimica) nel 1932.
Dopo questo, per un certo periodo la
Gran Bretagna divenne la nazione con la crescita economica più rapida al mondo.
Nei 23 anni dal 1932 al 1955, la produzione industriale crebbe a un tasso
composto del 4% all’anno - più velocemente di quanto abbia mai fatto prima, o
dopo.
Però, a partire dal 1968, la nostra performance relativa è peggiorata come
mai prima, e l’esperienza a partire dal 1972 ha dimostrato che, anche con una
successione di svalutazioni in un regime di tassi di cambio flessibili, non
siamo stati in grado di ribaltare l’andamento negativo che ci affligge nel
commercio mondiale, con una continua contrazione della domanda per i prodotti
britannici.
IV
La nemesi del credo nel libero
scambio e nella libertà dei mercati, dopo un secolo di fallimenti, ci
perseguita ancora.
Certamente nessuno dei grandi iniziali
sostenitori del libero scambio – Combden in particolare – avrebbe pensato
possibile che l’abolizione delle restrizioni sulle importazioni avrebbe portato
a una contrazione della produzione industriale e dell’occupazione.
Sotto le particolari condizioni
prevalenti nella prima metà, o anche nei primi tre quarti, dell’Ottocento, essi
avevano certamente ragione.
Ma la grande vittoria ideologica dei
sostenitori del libero scambio ha significato che i loro argomenti hanno
continuato ad essere utilizzati con successo, sino ad oggi – testimone la
propaganda a proposito dei grandi “benefici dinamici” di un mercato interno di
250 milioni di persone che ha preceduto il nostro ingresso in Europa – per molto
tempo dopo che avevano cessato di essere validi.
Oggi è l’industria della Germania,
non quella inglese, che gode dei grandi benefici derivanti dal “mercato interno
di 250 milioni di persone”. L’industria della Gran Bretagna è minacciata da una
continua contrazione e da un progressivo declino.
V
Supponendo che noi non avessimo
sposato ideologicamente il libero scambio e che avessimo adottato una politica
diretta a sostenere la crescita delle nostre industrie manifatturiere con gli
stessi metodi che la Germania, la Francia, gli Stati Uniti e il Giappone hanno
impiegato per sostenere la crescita delle loro industrie – cioè principalmente
con dei dazi protettivi e anche con uno sviluppo pianificato della capacità
industriale di base – cosa sarebbe successo?
Non avremmo certamente potuto mantenere
la preminenza industriale della quale godemmo a metà dell’Ottocento.
Era abbastanza inevitabile che le
tecniche della produzione industriale su larga scala e di impiego della potenza
meccanica si diffondessero al resto dell’Europa e al Nord America.
Era inevitabile inoltre che i paesi
giunti più tardi e con successo all’industrializzazione avrebbero in qualche
modo sorpassato la Gran Bretagna per il solo fatto di beneficiare
dell’apprendimento dalla nostra esperienza senza lo svantaggio di tradizioni
ben radicate, come avviene con “l’apprendimento sul lavoro” rispetto a una più
formale istruzione tecnica.
Però ho pochi dubbi sul fatto che con
un mercato interno protetto noi avremmo goduto di tassi di crescita molto più alti
e di conseguenza avremmo oggi condizioni di vita più elevate e una occupazione
più sicura.
Anche un 1% addizionale rispetto al
nostro tasso di crescita annuale nel secolo trascorso dal 1873 avrebbe
significato che le nostre condizioni di vita oggi sarebbero circa tre volte più
elevate di quanto sono.
Se avessimo seguito queste politiche,
le altre nazioni industriali non sarebbero state in grado di crescere a nostre
spese – o almeno non così tanto. Questo è particolarmente vero per quanto
riguarda la Germania nel periodo 1880-1914 e per quanto riguarda il Giappone nel
periodo 1950-1975.
Questo non implica necessariamente
che il tasso di crescita complessivo della produzione industriale mondiale
sarebbe stato minore e non maggiore a causa di una politica protezionista da
parte della Gran Bretagna.
Comunque sia, è inutile speculare su
cosa sarebbe potuto succedere.
Il tempo è irreversibile, e anche se
noi iniziassimo domani, il tempo perduto non potrebbe mai essere completamente
recuperato.
____
Originariamente una conferenza
pubblica tenuta all’Università di Leeds il 21 marzo 1977.
Sono in debito con Robert Skidelsky
per aver attirato la mia attenzione sui passaggi citati dei discorsi di Joseph
Chamberlain e Herbert Asquith, che sono stati tratti da Charles W. Boyd (ed.) Mr. Chamberlain’s Speeches,
ii, 1914, pp.120-372; Speeches by the
Earl of Oxford and Asquith, 1927, pp.45-81.
1 Chamberlain era convinto che un tasso di crescita
industriale relativamente basso
costituisse un grave svantaggio in se stesso nella competizione con le
industrie delle nazioni con una crescita più elevata.
[FINE]
* Ricardo, D.
(1815). An Essay on the Influence of a
low Price of Corn on the Profits of Stock. Qui
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