Antonio Gramsci
La formazione dell’uomo. Scritti di pedagogia
A cura di Giovanni
Urbani, Editori Riuniti, Roma, 1972.
Intellettuali e nazione.
La missione del popolo italiano
[
A cura di Giorgio D.M. ]
Concetto di nazionale-popolare
E’ da osservare il fatto che, in
molte lingue, “nazionale” e “popolare” sono sinonimi o quasi (così in russo,
così in tedesco in cui volkish ha un
significato ancora più intimo, di razza, così nelle lingue slave in genere; in
francese “nazionale” ha un significato in cui il termine “popolare” è già
elaborato politicamente, perché legato al concetto di “sovranità”: sovranità
nazionale e sovranità popolare hanno uguale valore o l’hanno avuto).
In Italia, il termine “nazionale” ha
un significato molto ristretto ideologicamente, e in ogni caso non coincide con
“popolare”, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal “popolo”, cioè
dalla “nazione”, e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la
tradizione è “libresca” e astratta, e l’intellettuale tipico moderno si sente
più legato ad Annibal Caro o ad Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese
o siciliano.
Il termine corrente “nazionale” è in
Italia legato a questa tradizione intellettuale e libresca. […]
Cosa significa il fatto che il popolo
italiano legge di preferenza gli scrittori stranieri?
Significa che esso subisce l’egemonia
intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato
più agli intellettuali stranieri che a quelli “paesani”, cioè che non esiste
nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto
meno egualitario.
Gli intellettuali non escono dal
popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è di origine popolana, non si
sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono
i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi; ma nei confronti del popolo,
sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non
un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso.
La questione deve essere estesa a
tutta la cultura nazionale popolare e non ristretta alla sola letteratura
narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura
scientifica in generale (scienze della natura, storia, ecc.). […]
Perché non è nata in Italia una
letteratura di divulgazione scientifica come in Francia e negli altri paesi?
Questi libri stranieri, tradotti,
sono letti e ricercati e conoscono spesso grandi successi.
Tutto ciò significa che tutta la
“classe colta”, con la sua attività intellettuale, è staccata dal
popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non
dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi, dai più
infimi (romanzacci d’appendice) ai più elevati, tanto è vero che ricerca i
libri stranieri in proposito, ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più
straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione.
(pp. 354-356; tratto dai Quaderni del carcere; Letteratura e vita
nazionale, Einaudi, Torino, 1950, pp. 103-108)
Intellettuali e popolo-nazione in
Francia e in Italia
La cultura storica e generale
francese ha potuto svilupparsi e diventare “nazionale-popolare” per la stessa
complessità e varietà della storia politica francese negli ultimi
centocinquant’anni. […]
E’ impossibile un’”agiografia”
nazionale unilineare: ogni tentativo di questo genere appare subito settario,
sforzato, utopistico, antinazionale, perché è costretto a tagliare via o a
sottovalutare pagine incancellabili della storia nazionale. […]
Per questa ragione il protagonista
della storia francese è diventato l’elemento permanente di queste variazioni
politiche, il popolo-nazione; quindi, un tipo di nazionalismo politico e
culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici e che
impregna tutta la cultura, quindi una dipendenza e un collegamento stretto tra
popolo-nazione e intellettuali.
Niente di simile in Italia, in cui
nel passato occorre ricercare col lanternino il sentimento nazionale, facendo
distinzioni, interpretando, tacendo, ecc. […].
Il preconcetto che l’Italia sia
sempre stata una nazione complica tutta la storia e domanda acrobazie
intellettuali antistoriche.
Perciò nella storia del secolo XIX
non [ci] poteva essere unità nazionale, mancando l’elemento permanente, il
popolo-nazione.
La tendenza dinastica, da una parte,
doveva prevalere dato l’apporto che le dava l’apparato statale, e le tendenze
politiche più opposte non potevano avere un minimo comune di obbiettività: la
storia era propaganda politica, tendeva a creare l’unità nazionale, cioè la
nazione, dall’esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura; era un
voler essere, non un dover essere,
perché esistono già le condizioni di fatto.
Per questa stessa loro posizione, gli
intellettuali dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di
loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in
realtà era qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli
teste.
(pp. 364-365; tratto dai Quaderni del carcere; Passato e presente,
Einaudi, Torino, 1951, pp. 35-36)
Sentimento nazionale e sentimento
nazionale-popolare
Sentimento nazionale, non
popolare-nazionale: cioè un sentimento puramente soggettivo, non legato a
realtà, a fattori a istituzioni oggettive.
E’ perciò ancora un sentimento da
“intellettuali”, che sentono la continuità della loro categoria e della loro
storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta.
(pp. 352-353, tratto dai Quaderni del carcere; Gli intellettuali e
l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1955, pp. 47-48)
Cosmopolitismo degli intellettuali
italiani e mancato sviluppo di una coscienza nazionale-popolare
La forza espansiva, l’influsso
storico di una nazione non può essere misurato dall’intervento individuale di
singoli, ma dal fatto che questi singoli esprimono consapevolmente e
organicamente un blocco sociale nazionale.
Se così non è, si deve parlare di
fenomeni di una certa portata culturale appartenenti a fenomeni storici più
complessi: come avvenne in Italia per tanti secoli, di essere l’origine
“territoriale” di elementi dirigenti cosmopoliti e di continuare in parte ad
esserlo per il fatto che l’alta gerarchia cattolica è in gran parte italiana.
Storicamente, questa funzione
internazionale è stata la causa di debolezza nazionale e statale: lo sviluppo
delle capacità non è avvenuto per i bisogni nazionali, ma per quelli
internazionali, il processo di specializzazione tecnica degli intellettuali ha
seguito perciò delle vie anormali dal punto di vista nazionale, perché ha
servito a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una
comunità nazionale ma di una comunità più vasta che voleva “integrare” i suoi
quadri nazionali.
Questo punto deve essere sviluppato
con precisione e esattezza. […]
Come e perché avviene che a un certo
punto sono gli italiani a emigrare all’estero e non gli stranieri a venire in
Italia? […]
Questo punto storico è di massima
importanza; gli altri paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono
organizzare una cultura nazionale, la cosmopoli medievale si sfalda, l’Italia
come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non
si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita,
staccandosi dal territorio e sciamando all’estero. [..]
[Si deve] studiare come le classi
dirigenti (politiche e culturali) di una serie di paesi furono rafforzate da
elementi italiani i quali contribuirono a crearvi una civiltà nazionale, mentre
in Italia appunto una classe nazionale mancava e non riusciva a formarsi: è
questa emigrazione di elementi dirigenti che rappresenta un fatto storico
peculiare, corrispondente all’impossibilità italiana di utilizzare e unificare
i suoi cittadini più energici e intraprendenti.
(pp. 351-352; tratto dai Quaderni del carcere; Gli intellettuali e
l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1955, pp. 55-56, 61-62)
Missione del popolo italiano
Il moto politico che condusse
all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve
necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico?
Si può sostenere che questo sbocco è
anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è
realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi.
Le tradizioni sono cosmopolitiche.
Che il moto politico dovesse reagire
contro le tradizioni e dar luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere
spiegato, ma non si tratta di una reazione organico-popolare.
D’altronde, anche nel Risorgimento,
Mazzini e Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione
cosmpolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova
Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico,
fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in
processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di tutta la
storia italiana, anche la più recente, da Quintino Sella a Enrico Corradini a
D’Annunzio).
Perché un evento si è prodotto nel
passato non significa che debba riprodursi nel presente e nell’avvenire; le
condizioni di una espansione militare nel presente e nell’avvenire non esistono
e non pare siano in processo di formazione.
L’espansione moderna è di tipo
finanziario-capitalistico.
Nel presente italiano l’elemento
“uomo” o è l’”uomo-capitale” o è l’”uomo-lavoro”.
L’espansione italiana può essere solo
dell’uomo-lavoro, e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello
tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi cartacei del passato.
Il cosmopolitismo italiano
tradizionale dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da
assicurare le migliori condizioni di sviluppo all’uomo-lavoro italiano, in
qualsiasi parte del mondo egli si trovi.
Non il cittadino del mondo in quanto
civis romanus o in quanto cattolico; ma in quanto produttore di civiltà.
Perciò si può sostenere che la
tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei
suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale
tradizionale.
Il popolo italiano è quel popolo che
“nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo.
Non solo l’operaio, ma il contadino e
specialmente il contadino meridionale.
Collaborare a ricostruire il mondo
economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano: si può
dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione.
Il nazionalismo di marca francese è
un’escrescenza anacronistica nella storia italiana, proprio di gente che ha la
testa rivolta all’indietro come i dannati danteschi.
La “missione” del popolo italiano è
nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più
moderna e avanzata.
Sia pure nazione proletaria, come
voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stato l’esercito
industriale di riserva dei capitalisti stranieri, perché ha dato maestranze a
tutto il mondo insieme ai popoli slavi.
Appunto perciò deve inserirsi nel
fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha
contribuito a creare con il suo lavoro, ecc. ecc.
(pp. 356-357; tratto dai Quaderni del carcere; Il Risorgimento, Einaudi,
Torino, 1949, pp. 66-67 )
[FINE]
Era un pezzo che volevo scriverlo : gran blog.
RispondiEliminaQueste note sui "Quaderni dal carcere" sono l'occasione giusta.