Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

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domenica 5 ottobre 2014

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Il sogno di un banchiere, l’incubo di un popolo




“se ci fosse [nell'Unione Europea] una volontà politica di cooperare, questa potrebbe tradursi in pratica immediatamente, e senza alcuna modifica istituzionale. Basterebbe che la Germania coordinasse le proprie politiche economiche con quelle degli altri paesi membri”
Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur editore, Ariccia 2012, p. 249.

“forse, bisognerebbe ammettere che la scommessa di partire da un'unione monetaria per arrivare a quella politica, cioè il contrario esatto di quello che storia, economia e logica suggerivano, è perdente e presenta il suo conto tremendo.”
Guido Gentili, Per l'Europa il tempo di una svolta è adesso, Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2014.




Carlo Azeglio Ciampi

Intervento del Presidente della Repubblica alla cerimonia celebrativa dell'immissione in circolazione dell'euro

Palazzo del Quirinale, 26 novembre 2001.
Pubblicazione disponibile qui




Il sogno di un banchiere, l’incubo di un popolo



 
Signor Presidente del Consiglio,
Signor Presidente della Commissione dell'Unione Europea,
Signor Presidente della Corte Costituzionale,
Signori Vice Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati,
Signori membri del Governo,
Signori Ambasciatori,
Onorevoli Parlamentari,
Illustri Ospiti,

quando penso alla mia gioventù - agli anni trenta ed al secondo conflitto mondiale - la cerimonia di oggi mi appare come la realizzazione di un sogno.

Il risultato raggiunto si deve alla continuità ed alla coerenza del lavoro di tre generazioni di europeisti.
Dalla prima schiera che operò in un'Europa ancora in preda ai rancori, tutte hanno nutrito ambizioni elevate, tutte hanno perseguito e raggiunto con tenacia e determinazione traguardi impegnativi.

La prossima introduzione dell'euro è un evento storico non solo per i 12 Paesi aderenti all'euro ma per tutta l'Unione Europea.
Essa ci dà la sicurezza che non esiste in Europa obiettivo che non possa essere conseguito.

Al di là del contenuto tecnico-economico, la moneta unica è il segno distintivo di una comunità che, dopo secoli, ha fatto scomparire la guerra dai propri orizzonti.

Sono stato testimone, a Bruxelles nel tardo autunno del 1978, in una notte lunga e tormentata, dell'istituzione del Sistema Monetario Europeo.
Ho fatto parte sia del gruppo incaricato di preparare il progetto dell'Unione Monetaria Europea sia di quello che redasse la bozza dello Statuto della Banca Centrale Europea.
Ci fu di riferimento il modello in uso negli Stati federali unitari.

Non dimentico quel 2 maggio del 1998 quando, aprendo il Consiglio Europeo di Bruxelles, il Presidente di turno dell'Unione Europea, Primo Ministro del Regno Unito - uno Stato che pur condividendo il progetto, non vi aderiva - disse testualmente: "Oggi è una giornata storica".
Questo stesso Primo Ministro oggi, coerentemente, prospetta l'adesione della Gran Bretagna all'euro.

Il popolo italiano è consapevole che l'euro ha accelerato il risanamento della sua economia e crede nel successo dell'euro.

Apprezza che l'euro è sinonimo di stabilità monetaria, di bassi tassi d'interesse, di trasparenza dei prezzi di beni e di servizi, di più ampia facilità di scelta e quindi di maggiore libertà dei consumatori.

Sa che il Patto di stabilità e di crescita esprime volontà di rigore nella gestione del pubblico denaro ed è garanzia di sviluppo, di benessere, di lavoro.

Per la seconda volta, in 140 anni dall'unità d'Italia, gli italiani devono familiarizzarsi con una valuta nuova: la prima, dopo l'unità d'Italia, allorché la creazione di una moneta unica, la lira, sostituì ben sette monete diverse circolanti nella penisola; la seconda, con l'euro, che assorbe dodici monete nazionali nel continente europeo.

Così come l'introduzione della lira consolidò l'unità dell'Italia, l'euro rafforzerà e accelererà l'integrazione dell'Europa.
E' per fortuna impossibile tornare indietro.

Con l'euro nasce irrevocabilmente l'Europa come soggetto politico che convivrà con il mantenimento d'essenziali valori e di caratteristiche nazionali.

E' impossibile immaginare un simbolo altrettanto forte per testimoniare la rivoluzione copernicana compiutasi negli ultimi cinquant'anni e uno strumento altrettanto efficace per far avanzare l'Europa nella libertà e nel progresso.

Per la prima volta nella tormentata storia del nostro continente, le principali componenti della civiltà europea, in particolare quella mitteleuropea e quella mediterranea, saranno unite in un unico intreccio.

La moneta unica è soprattutto frutto di una volontà di coesione che, insieme alla continuità e coerenza degli ideali, costituisce la forza trainante dell'Europa.

La coesione è la nostra più grande ricchezza: deve però manifestarsi attraverso una volontà, una fisionomia, una struttura anche istituzionale.

Tutti i Capi di Stato extraeuropei che incontro mi parlano con interesse e con ammirazione, al limite dell'incredulità, della capacità dell'Europa di aver raggiunto l'unificazione monetaria: sono scomparse le crisi monetarie e valutarie intereuropee; si è creato un unico mercato di oltre 300 milioni di consumatori.

Alla vigilia del Consiglio Europeo di Laeken rivolgo un caldo appello perché il processo costituente che avrà inizio nelle prossime settimane e porterà nel 2004 ad un nuovo Trattato europeo venga affrontato con altrettanta lungimiranza e chiarezza d'intenti come è avvenuto per l'euro.

Guai a fermarsi, guai a limitarsi ad una valutazione meramente tecnica dell'evento che, fra poche settimane, irromperà con forza trascinante nella nostra realtà quotidiana.

Un'innovazione così penetrante quale è la moneta unica renderà incompatibili comportamenti dominati da egoismi nazionali.

Per questa ragione sono convinto, ho fiducia che l'Europa compirà il prossimo passo verso una più piena unità politica.

Grazie.


[FINE]


venerdì 22 agosto 2014

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L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco




Heiner Flassbeck

Avis de tempête sur l'Union monétaire européenne

Le Monde, 5 marzo 2010.
Pubblicazione disponibile qui



L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco  

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Nella marea di prese di posizione e di commenti pubblicati dalla stampa europea in queste ultime settimane sulla Grecia, ben pochi sono stati quelli che si sono occupati degli stretti legami tra la zona euro e la crisi.
La maggior parte dei commentatori trattano dei problemi interni della Grecia e degli altri paesi meridionali dell'Unione monetaria europea come se essi fossero totalmente indipendenti dal commercio internazionale, sia tra i paesi dell’Unione che con il resto del mondo.
Pochi hanno fatto notare gli enormi squilibri commerciali interni all’Unione monetaria europea e il fatto che essi generano una situazione fiscale insostenibile.
Nessuno ha tentato una valutazione equilibrata dei problemi interni all'Unione né ha identificato le loro cause.
Non c'è alcun dubbio che i deficit di bilancio siano un grosso problema.
Tuttavia è un fatto che sono gli squilibri internazionali quelli che potrebbero condurre ad una dissoluzione dell’Unione monetaria europea, se non si prendono rapidamente misure correttive draconiane.

Eppure, nessuna forte azione politica sarà possibile fintanto che queste evidenze resteranno dei tabù perché gli stati politicamente forti dell'Unione monetaria europea non vogliono mettere in discussione la teoria tradizionale sulla flessibilità del mercato del lavoro.

La Grecia non è che la punta dell'iceberg.
Nel 2007, il disavanzo delle sue partite correnti aveva già raggiunto quasi il 15% del suo PIL, per poi diminuire lievemente con il calo delle importazioni dovuto alla recessione.

Cos'è andato male?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Grecia hanno ristagnato mentre la sua domanda interna è aumentata al rispettabile tasso annuale del 2,3%, secondo le stime della Commissione Europea.
I redditi da lavoro reali annuali per addetto sono aumentati dell’1,9%, un po' meno della produttività.
Il costo unitario del lavoro, la più importante misura della competitività in una unione monetaria, è aumentato del 2,8% all'anno, raggiungendo un livello pari a 130 nel 2010 (base 100 nel 2000).
Nello stesso tempo, la maggiore economia dell'Unione monetaria europea, la Germania, accumulava un enorme avanzo delle sue partite correnti, arrivando all'8% del suo PIL nel 2007.

Cos'è andato bene?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Germania sono esplose mentre la sua domanda interna stagnava, con un insignificante tasso di crescita dello 0,2% all'anno.
Un crescita quasi nulla dei redditi da lavoro - solo lo 0,4% all'anno, molto al di sotto degli incrementi di produttività - spiega il rallentamento della domanda interna, la compressione salariale non ha condotto alla prevista creazione di posti di lavoro.
In questi ultimi dieci anni il costo unitario del lavoro in Germania non è cresciuto che solo marginalmente, raggiungendo un livello pari a 105 nel 2010.

Questo significa semplicemente che un bene o un servizio che era prodotto allo stesso costo da tutti i membri dell’Unione monetaria europea nel 2000, e che poteva dunque essere venduto allo stesso prezzo, oggi costa il 25% in più se è prodotto in Grecia di quanto costa se è prodotto in Germania.
La differenza con la Germania è dello stesso ordine di grandezza per la Spagna, il Portogallo e l'Italia.
Ed è del 13% anche per la Francia, sebbene la Francia sia l'unico paese nel quale il costo unitario del lavoro è cresciuto seguendo rigorosamente l'obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2% stabilito dalla Banca Centrale Europea.

Come il presidente e il capo degli economisti della Banca Centrale Europea, alcuni funzionari ritengono che questa differenza non sia significativa perché la Germania soffriva di uno svantaggio assoluto prima della creazione dell’Unione monetaria europea, a causa del costo della riunificazione tedesca.
La logica tuttavia li smentisce.
Se il risultato della compressione dei salari da parte della Germania fosse stato solo l’eliminazione di uno svantaggio assoluto, essa non si ritroverebbe ora con un vantaggio assoluto.
Eppure, è proprio questo quello che sta avvenendo alla Germania.
La Germania è l'unico grande paese europeo che ha potuto stabilizzare la sua quota di mercato mondiale negli ultimi dieci anni, quando tutti gli altri, compresa la Francia, l'hanno vista diminuire fortemente.

Questo conduce all'ultima linea della difesa tedesca, secondo la quale il dumping salariale tedesco sarebbe stato giustificato da una elevata disoccupazione, e continuerebbe ad esserlo.
Altro errore: la disoccupazione in Germania è diminuita ma resta al livello prevalente in Francia e in altri Paesi perché la debolezza della domanda interna compensa il dinamismo della domanda estera.

Inoltre, i paesi che desiderano esercitare una pressione verso il basso sui salari per ragioni interne non dovrebbero entrare in una unione monetaria se non vogliono o non possono convincere gli altri paesi membri a fare altrettanto.

Ancora peggio, la Germania è entrata in una Unione monetaria che ha l’obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2%, non di un tasso di inflazione massimo del 2%.
Di fatto, l'inflazione e il costo unitario del lavoro, che sono fortemente correlati, hanno avuto un andamento in Germania molto al di sotto di questa norma del 2%.
Questo ha costituito, da parte del governo tedesco, una chiara violazione dell'obiettivo comune riguardante l’inflazione fissato dall’Unione monetaria europea, ed ha esercitato in questo modo un’enorme pressione sulle contrattazioni salariali che si sono concluse con un aumento del costo della mano d'opera vicino allo zero.

I leader europei hanno torto nel credere che ci sarà un'uscita dalla crisi greca, spagnola, portoghese o una qualsiasi altra soluzione nazionale all'interno dell’Unione monetaria europea.
Se la Germania continua a stringere la cinghia, e tutto porta a credere che lo farà, questi paesi e la Francia saranno costretti ad abbassare i loro salari in termini assoluti.
Questo provocherà la deflazione e la depressione in tutta l’Europa, che non potrà rinascere dalle sue ceneri fintanto che la sopravvalutazione delle valute nazionali non potrà essere corretta con una svalutazione.

La crisi europea non è una tragedia greca.

Se l'Europa non può accordarsi per una azione comune, prendendo delle decisioni chiare sull’evoluzione dei salari su di un orizzonte temporale di molti anni, o persino decenni, con lo scopo di riequilibrare il suo commercio, allora tutti i paesi dell'Europa del Sud, inclusa la Francia, devono considerare l’uscita dall'Unione monetaria.

L’economia di nessun paese al mondo può sopravvivere se tutte le sue imprese hanno uno svantaggio assoluto nei confronti dei principali concorrenti internazionali.



[FINE]


giovedì 7 agosto 2014

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Riconoscere gli errori ed imparare da essi




Paul Krugman

Wrongness, OK and Not

The Conscience of a Liberal, 13 giugno 2014.
Pubblicazione disponibile qui.



Riconoscere gli errori ed imparare da essi

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



[...] Barry Ritholtz ha scritto un simpatico post nel quale riconosce un errore (per nulla fondamentale) in un suo articolo e discute di come comportarsi con gli errori quando li si commettono -  e li si commettono!

Aggiungerei che ci sono errori ed errori, e che è importante sapere quale tipo di errore si è compiuto.
Ho già scritto di questo in passato, ma forse posso affrontare l’argomento in un modo abbastanza nuovo.

Supponete di stare facendo una previsione - e ogni affermazione su come va il mondo comporta per lo meno una previsione implicita di qualcosa, perché altrimenti si tratta di un’affermazione vuota.

Questa previsione è il risultato di un certo modello - se pensate di non avere un modello vi state ingannando e il vostro modello è il peggiore di tutti perché immaginate di non farne uso.

Ad esempio, diciamo che il vostro modello abbia la forma

y = a + bx + u

dove y è la variabile che state prevedendo, x è una qualche variabile esplicativa, a e b sono parametri, e u rappresenta variabili casuali (non necessariamente davvero casuali, ma variabili che non fanno parte del vostro modello).
L’ultimo termine è importante: nessuno, e nessun modello, prevede tutto in modo perfetto.

Supponiamo quindi che la vostra predizione di y finisca con il rivelarsi errata.
Che cosa vi dice questo errore di previsione?
Potrebbe semplicemente dirvi, come dicono, ma non proprio così, gli adesivi, che le cose spiacevoli accadono [Stuff Happens] e che c’è stato un disturbo causale o anche che le vostre variabili esplicative non si sono comportate come vi aspettavate.
L’errore di previsione però potrebbe anche dirvi che il vostro modello è semplicemente del tutto sbagliato, e che deve essere ripensato.

E proprio questo è il punto: nel corso della vita si compiono entrambi questi tipi di errori.
La questione è se ignorarli o imparare da essi - se rimanere aderenti alla propria teoria o riconoscere che essa è errata

Lasciate che vi mostri quattro esempi, tratti dalla lunga lista degli errori che io stesso ho compiuto.


Primo esempio: negli anni Novanta ero estremamente scettico nei confronti di chi affermava che si stava verificando un incremento della produttività generato dalla diffusione dell’informatica.
Ero proprio in errore: la produttività stava davvero aumentando, sebbene alla fine questa crescita si smorzò.
Di che tipo fu questo errore?
La risposta è che non fu un errore fondamentale.
Il mio modello di come funziona il mondo non escludeva affatto incrementi della produttività, stavo semplicemente valutando in modo errato l’incremento che stava avvenendo.
Una cosa che imparai, comunque, fu di considerare con più serietà di quanto non facessi quel rumore di fondo che non si rispecchia ancora nei dati ufficiali.



Secondo esempio: nel 2003 misi in guardia contro la possibilità che si verificasse, a causa della irresponsabilità fiscale del governo, una crisi finanziaria negli Stati Uniti, in qualche modo comparabile con le crisi finanziarie verificatesi in Asia pochi anni prima.
Oggi penso che questo fu un errore fondamentale: gli Stati che si indebitano nella propria valuta non corrono gli stessi rischi degli Stati che si indebitano in una valuta estera.
Quello che davvero mi dà fastidio di questo errore è che la mia stessa analisi di allora cercava di dirmi questo: avevo lavorato molto sulla crisi dell’Asia, con modelli che si basavano in modo cruciale sul debito in valuta estera e sugli effetti patrimonali.
Misi però quell’analisi da parte e procedetti con il mio sesto senso, il che è quasi sempre una cattiva idea.
Questo dunque fu un errore fondamentale nella costruzione del modello, che richiedeva una revisione importante della teoria - che compii.


Terzo esempio: mi preoccupai molto negli anni dal 2010 al 2012 di una rottura dell’euro [euro breakup].
Anche in questo caso impiegavo un modello fondamentalmente errato.
L’errore però non era nel mio modello economico, che si comportò abbastanza bene, ma nel mio implicito modello politico: semplicemente fallii nel valutare gli incentivi che muovono le élite europee e quanto esse sarebbero state determinate nel compiere tutto quello che era necessario [how willing they would be to do whatever it takes], sia nei paesi debitori [come l’Italia] che alla Banca Centrale Europea, per evitare una vera e propria rottura.

Ultimo esempio: il Regno Unito cresce oggi molto più rapidamente di quanto mi aspettassi.
C’è un errore fondamentale nel modello? Non penso.
Come Simon Wren-Lewis ha evidenziato più volte, il governo Cameron essenzialmente ha smesso di rendere sempre più restrittiva la politica fiscale prima dell’inizio della crescita, e questo significa che la “x” nella mia equazione [la variabile esplicativa] non si è comportata come pensavo che avrebbe fatto.
Inoltre c’è stata una diminuzione del risparmio privato, che è una di quelle cose che capitano ogni tanto.
Il punto è che la deviazione della crescita dell’economia britannica dal percorso che un modello keynesiano standard avrebbe previsto, sebbene reale, non è avvenuta al di fuori di quel normale intervallo delle variazioni-dovute-alla-possibilità-che-le-cose-spiacevoli-accadano; nulla che richieda una revisione importante della struttura del modello.

Quindi talvolta si è in errore, ed è necessario fare del proprio meglio per capire perché.

Quello che non si deve fare mai, ovviamente, è accampare pretesti, o fingere di non aver detto quello che si è detto.
Sfortunatamente, molte persone se non la maggior parte di quelle che elaborano previsioni economiche si comportano sempre come nessuno dovrebbe comportarsi mai.


[FINE]


domenica 11 maggio 2014

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L'Unione Europea non è riformabile




João Ferreira

A União Europeia não é reformável

Intervista a Avante!, 20 marzo 2014.
Pubblicazione disponibile qui.
Traduzione di marx21.it (qui parzialmente rivista).
João Ferreira è il capolista della Coalizione democratica unitaria (la coalizione promossa dal Partito comunista portoghese) nelle elezioni del Parlamento Europeo del 25 maggio.




L'Unione Europea non è riformabile




Quale importanza assumono le prossime elezioni per il Parlamento Europeo nel quadro dell'attuale situazione politica?

Assumono una indiscutibile importanza.
Il Portogallo vive uno dei momenti più bui della sua storia.
Mai come oggi è stata tanto evidente la relazione tra i principali problemi del Paese e i vincoli imposti dall'integrazione capitalista europea – il sostegno principale alle politiche di destra, nel corso degli ultimi 28 anni.
I partiti che si sono alternati al governo lungo questo periodo sono gli stessi che nelle istituzioni dell'Unione Europea, compreso il Parlamento Europeo, hanno sottomesso il Portogallo, ripetutamente e in modo crescente, a decisioni contrarie ai suoi interessi.
Queste elezioni sono un'opportunità non solo per eleggere più deputati del Partito comunista portoghese e dei suoi alleati nella Coalizione democratica unitaria (CDU) – deputati impegnati nella difesa degli interessi nazionali e nella ferma difesa degli interessi dei lavoratori e del popolo – il che, già di per sé non sarebbe poca cosa, ma anche per dare più forza all'esigenza delle dimissioni di questo governo e della sconfitta della politica di destra.
[...]

C'è chi, pur concordando con le giuste critiche che indirizziamo all'integrazione capitalista europea e alle sue conseguenze, si domanda per quale ragione allora votare e appoggiare chi è contro l'Unione Europea?

Il popolo portoghese e il Portogallo hanno bisogno nel Parlamento Europeo di deputati che difendano convintamente e coraggiosamente gli interessi nazionali e non di deputati ossequienti e sottomessi ai disegni e alle proposte dell'Unione Europea.
Io direi che chi concorda con le critiche che indirizziamo all'integrazione capitalista europea non potrà assumere altro atteggiamento che quello di appoggiare e votare chi, come il Partito comunista portoghese e la Coalizione democratica unitaria, da sempre, con coerenza e in modo solidamente argomentato, ha previsto e contrastato gli effetti di tale integrazione e l'ha sempre combattuta, senza illusioni né ambiguità.
Questo appoggio e questo voto sono una garanzia che si darà più forza a chi, nel Parlamento Europeo, assume come obiettivo essenziale la difesa ferma degli interessi del Portogallo e dei portoghesi e allo stesso tempo darà più forza alla lotta per l'alternativa patriottica e di sinistra che assicuri, come nessun altro voto, la difesa e il recupero dei diritti e dei redditi rubati e apra la prospettiva della costruzione di una vita migliore per i lavoratori e il popolo portoghese.

Questo mandato (2009-2014) è stato attraversato da una crisi del capitalismo senza precedenti nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, una crisi che ancora perdura. Si può dire che le contraddizioni e il carattere imperialista dell'Unione Europea si sono aggravati?

Senza dubbio.
Essendo questo un processo di integrazione capitalista, la crisi del capitalismo è, nell'Unione Europea, una crisi della stessa Unione Europea, dei suoi fondamenti.
Non a caso, la risposta dell'Unione Europea alla crisi ha seguito le linee fondamentali della risposta del sistema capitalista alla sua crisi: distruzione delle forze produttive e aggravamento dello sfruttamento, insieme alla concentrazione del potere politico ed economico.
D'altro lato, si è accentuato il carattere militarista dell'Unione Europea, la sua affermazione come blocco militare e politico al servizio delle ambizioni imperialiste delle grandi potenze. Crescono le spese militari e in collaborazione con la NATO aumenta la partecipazione ad operazioni di ingerenza e aggressione a paesi sovrani.
L'adesione all'allora Comunità Economica Europea fu uno strumento della controrivoluzione.
La firma dei successivi trattati europei ha consolidato questo percorso traducendosi, in pratica, in una maggiore dipendenza, in una minore sovranità e in un regresso economico e sociale del Portogallo.

A 40 anni dalla rivoluzione, come si coniugano i valori di Aprile che pretendiamo affermare nel futuro del nostro Paese nel quadro dell'attuale Unione Europea?

L'inserimento del Portogallo nella Comunità Economica Europea - Unione Europea, dal momento dell'adesione e fino al giorno d'oggi, ha rappresentato, in termini generali, un conflitto con il regime democratico che era emerso dalla Rivoluzione di Aprile e, evidentemente, con la Costituzione della Repubblica che ha consacrato le sue grandi conquiste e la visione di un paese indipendente e sovrano, orientato verso il progresso e la giustizia sociale.
Le classi dominanti, che non hanno mai accettato di aver perso potere con il 25 Aprile, hanno visto qui una grande opportunità per soddisfare le loro ambizioni, legando il Paese all'integrazione capitalista europea.
L'approfondimento dell'integrazione si è tradotto in una escalation di questo conflitto.
Maastricht e la mancata costituzione europea, poi recuperata nel Trattato di Lisbona, sono i passaggi cruciali che dobbiamo sottolineare.
Allo stesso modo, gli sviluppi più recenti (Fiscal Compact, Governance Economica, Semestre Europeo, il Patto Euro plus) comportano evidentemente pericoli ancora maggiori per la sovranità e il regime democratico, che potrebbero risultarne ancora più indeboliti.
Lo sviluppo di una politica patriottica e di sinistra in Portogallo e, in termini più generali, la ripresa del progetto di democrazia avanzata, che abbiamo iniziato con Aprile e che il Partito comunista portoghese sviluppa nel suo programma, si scontrano, inevitabilmente, con gli elementi portanti del processo di integrazione europeo.
Per questo proclamiamo con chiarezza, senza ambiguità, la necessità della rottura con questi elementi portanti del processo di integrazione.
Certi che nulla può obbligare il Portogallo a rinunciare al diritto di scegliere le proprie strutture socio-economiche e il proprio regime politico.

C'è chi sostiene che la crisi che ha colpito l'Unione Europea sia frutto di errori della leadership, che ciò che si deve fare è oliare i meccanismi di intervento dell'Unione, approfondire il federalismo per rispondere globalmente ed efficacemente a questa e a future crisi. Esiste forse qualche possibilità di riformare questa Unione Europea?

Al contrario di quanto esprime questo orientamento (o disorientamento) di circostanza, che allude a “leader senza dimensione europea” o ad altre ragioni del genere, frequentemente invocate, il modo con cui l'Unione Europea si è mossa dipende dalle sue caratteristiche e dalla sua natura di classe.
La situazione attuale evidenzia i limiti dell'integrazione capitalista.
Ma non attenua la volontà di proseguirla e approfondirla, da parte di coloro che già ne hanno beneficiato.
Al contrario.
In questa fase, l'approfondimento del processo di integrazione richiede una ancora maggiore concentrazione del potere politico ed economico in seno all'Unione Europea.
Una concentrazione di potere che tende persino ad instaurare relazioni di dominio di tipo coloniale.
Viene evidenziato con maggiore chiarezza il carattere antidemocratico del processo di integrazione e, ancora una volta, vengono svelati i suoi limiti oggettivi, dimostrando che l'Unione Europea non è riformabile e che i suoi assi federalista, neo-liberale e militarista sono inseparabili.

I sostenitori delle soluzioni federaliste, anche coloro che invocano questo inventato federalismo di sinistra, davanti alla critica del Partito comunista portoghese a questo percorso non poche volte ci accusano di isolazionismo e nazionalismo. Come rispondi a queste argomentazioni?

I tentativi di sottomissione delle nazioni in corso nell'Unione Europea rappresentano una forma di oppressione di classe che viene esercitata sui lavoratori e i popoli, oltre che un inquietante e pericoloso attacco alla democrazia.
Chi, pur dicendosi di sinistra, non se ne rende conto, o non vuole rendersene conto, non comprende un elemento decisivo per intervenire sulla realtà del nostro tempo, trasformandola nel senso del progresso sociale.
Se l'evoluzione del capitalismo ha portato le classi dominanti a sacrificare gli interessi nazionali ai propri interessi di classe, allora, al contrario, ciò conduce all'identificazione crescente degli interessi dei lavoratori e del popolo con gli interessi nazionali.
Detto questo, noi non difendiamo alcun isolazionismo e neppure alcuna soluzione autarchica, che oltre che non essere possibile, non sarebbe neppure auspicabile.
Al contrario.
L'internazionalizzazione dell'economia, la profonda divisione internazionale del lavoro, l'interdipendenza e la cooperazione tra stati e i processi di integrazione corrispondono a realtà e tendenze di evoluzione non esclusive del capitalismo.
In funzione del loro orientamento, delle loro caratteristiche e obiettivi, tali processi possono servire i monopoli, o possono servire i popoli.
E' diritto inalienabile di ogni popolo e di ogni paese lottare in difesa dei suoi interessi e diritti.
L'Unione Europea non è stato il primo processo di integrazione tra stati in Europa.
Certamente non sarà l'ultimo.

Sulla base dell'esperienza di precedenti elezioni, occorre ammettere che il Partito socialista (PS) e il Partito socialdemocratico (PSD) basano la loro campagna su questioni che nulla hanno a che vedere con i problemi reali del popolo e del Paese, deviando l'attenzione su questioni come la Presidenza della Commissione, per esempio. Come commenti tale strategia?

Il Partito socialista e il Partito socialdemocratico - e ora anche il Centro democratico sociale (CDS) - hanno un compito difficile in vista delle elezioni.
Questo compito è quello di tentare, con tutti i mezzi, di dimostrare di essere diversi tra di loro mentre in realtà erano e sono uguali.
Perché questi tre partiti, nello stesso modo, si sono trovati uniti nella firma del patto di aggressione, e sono stati uniti in tutto ciò che di più rilevante è stato votato al Parlamento Europeo, in particolare negli ultimi cinque anni.
Per questa ragione, non mancheranno manovre diversive.
Manovre che passano attraverso il tentativo di illudere su ciò che è veramente in causa in queste elezioni.
Illudere sulla natura stessa di queste elezioni, cercando di trasformarle in una presunta elezione del presidente della Commissione Europea – il che non è, non è stato e non potrebbe essere.
Vogliono nascondere che ciò che è in causa è l'elezione dei deputati portoghesi al Parlamento Europeo.
Non è un caso.
Vogliono che si dimentichi che è stato con l'appoggio di questi tre partiti che sono state approvate misure profondamente contrarie agli interessi nazionali.
Vogliono che si dimentichi che invece dell'indispensabile rinegoziazione del debito, che il Partito comunista portoghese da tre anni propone, hanno scelto di vincolare il Paese a un patto di aggressione, sfruttamento e impoverimento.
Vogliono soprattutto che si ignori la dura realtà che rende infernale la vita di milioni di portoghesi, nascondendo le responsabilità che portano nella situazione del Paese, derivante da anni di politiche di destra promosse dai governi che si sono susseguiti di questi partiti.

L'esperienza ha dato completa ragione alla denuncia del Partito comunista portoghese su ciò che avrebbe significato l'adesione all'euro. Ci sono voci e settori che vedono nell'uscita dall'euro l'apocalisse, altri che difendono l'uscita immediata dalla moneta unica. Puoi dirci la tua opinione?

L'ingresso del Portogallo nella moneta unica ha condizionato e reso più fragile economicamente il Paese.
Il Paese ha perduto molto con l'ingresso nell'euro.
Ma potrà perdere ancora di più, sia rimanendo nell’euro, sia in uno scenario di riconfigurazione della zona euro, nella quale venisse spinto ai margini, di fronte agli sviluppi della crisi che, in nessun modo, possono essere ignorati.
Uscire dall'euro non significa tornare al punto in cui eravamo quando siamo entrati. E ancora meno al punto in cui ci troveremmo se non fossimo entrati.
Se è certo che il proseguimento dell'attuale corso è assolutamente insostenibile, è anche chiaro che l'uscita dell'euro può avvenire nell'interesse del popolo portoghese o può, al contrario, avvenire nell'interesse di chi ha guadagnato con l'euro nel corsi di tutti questi anni e che continua a guadagnare: interessi irrimediabilmente antagonisti.
Pronunciandoci chiaramente per lo scioglimento dell'Unione Economica e Monetaria, sosteniamo nello stesso tempo la definizione, in collaborazione con l'insieme dei paesi colpiti nella loro sovranità e sulla base del diritto allo sviluppo anche all’interno dell'euro, di un programma che prepari l'uscita dalla moneta unica in accordo con gli interessi di questi paesi e dei rispettivi popoli.
In un quadro in cui è assolutamente chiaro che una cosa sarà l'uscita dall'euro guidata da un governo patriottico e di sinistra, che affermi il primato degli interessi nazionali nelle relazioni con l'Unione Europea, che protegga i lavoratori e il popolo dagli inevitabili costi della decisione e approfitti in pieno delle opportunità di sviluppo che si aprono, e un'altra, ben diversa, sarebbe l'uscita guidata dalle stesse forze che ci stanno imponendo innumerevoli, ingiusti e sterili sacrifici in nome del “mantenimento dell'euro”.
Con piena coscienza del fatto che ciò che è decisivo per assicurare lo sviluppo sovrano e indipendente del Paese è la realizzazione vittoriosa della lotta per la rottura con la politica di destra e la costruzione di una politica patriottica e di sinistra e la chiara assunzione del diritto inalienabile del popolo portoghese a far prevalere questo obiettivo su qualsiasi altro interesse e condizionamento.

Quali sono le linee guida della campagna del Partito comunista portoghese per le elezioni europee del 25 maggio? La lotta all'astensione è una preoccupazione?

In queste elezioni, tutti noi comunisti, e gli altri attivisti della Coalizione democratica unitaria, saremo chiamati a costruire una campagna che deve essere allo stesso tempo di mobilitazione per il voto e di spiegazione della necessità di rafforzare la Coalizione democratica unitaria.
Una campagna che stiamo costruendo sulla base del patrimonio delle attività svolte del partito, del percorso compiuto di intransigente difesa degli interessi del popolo e del Paese, con la definizione delle ragioni e dell'importanza del voto alla Coalizione democratica unitaria e del suo contributo alla lotta più generale in difesa dei diritti dei lavoratori e del popolo, sulla base dell'esigenza di un'altra politica.
E costruiremo questa campagna con le ragioni e l'autorità proprie di chi può presentarsi agli occhi del popolo portoghese con la coerenza delle sue posizioni, alle quali i fatti hanno dato e danno ragione.
Ci appelliamo per questo a tutti coloro che, colpiti dalla politica di destra, lottano per un paese più giusto e democratico, affinché non si astengano.
Perché facciano del 25 maggio, con il loro voto alla Coalizione democratica unitaria, un giorno di lotta.
Che dicano, con il loro voto e non con l'astensione, no ai partiti della troika nazionale.
Che condannino, con il loro voto e non con l'astensione, gli usurai e l'oligarchia che vessano il popolo portoghese.
Che dicano sì, con il loro appoggio e il loro voto alla Coalizione democratica unitaria, allo sviluppo del Portogallo.
Dicano sì al diritto dei portoghesi a decidere del proprio destino.

Se dovessi presentare una sintesi delle ragioni dell'appoggio e del voto alla Coalizione democratica unitaria come le riassumeresti?

E' nelle mani dei lavoratori e del popolo portoghese la costruzione del loro futuro.
Nelle elezioni per il Parlamento Europeo, il rafforzamento della Coalizione democratica unitaria, in termini di voti, influenza e numero di deputati, è un obiettivo possibile e necessario.
Il voto alla Coalizione democratica unitaria è l'unico che può assicurare la presenza di deputati nel Parlamento Europeo che si impegnino per gli interessi nazionali e la difesa dei lavoratori e del popolo.
Il voto alla Coalizione democratica unitaria è l'unico voto coerente e decisivo per condannare la politica di destra del Governo e dare forza alla lotta di chi non si rassegna e si batte per un Portogallo più giusto, più fraterno, più democratico e sviluppato.
Un grande voto alla Coalizione democratica unitaria, il 25 maggio, potrà rappresentare un fattore essenziale per il cambiamento del corso della vita nazionale, per le dimissioni dell'attuale governo e la sconfitta della sua politica, e per dare forza all'alternativa politica, patriottica e di sinistra.


[FINE]


sabato 3 maggio 2014

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Achille e il fiscal compact II



L’Articolo 4 del Fiscal Compact dice che

“Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% [...] tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno [...]."

Nel post Achille e il fiscal compact abbiamo scritto di un'affermazione attribuita ad Angelo Baglioni da un articolo de Il Fatto Quotidiano del 17 aprile, secondo la quale

“il ritmo di discesa del debito viene ricalcolato ogni anno sulla base del triennio precedente. Quindi, se il debito inizia a scendere la quota da ridurre si assottiglia via via: se ho un debito di 200 e lo riduco di un ventesimo arrivo a 190, quindi l’anno successivo il ventesimo richiesto non sarà più 10, ma 9,5.“

La stessa idea era stata però già proposta, l’8 aprile, da Lorenzo Bini Smaghi

“Il Fiscal Compact stabilisce che ogni anno il debito deve essere ridotto di 1/20 della distanza tra il livello del debito e il 60%. Quando il debito è al 130%, il ritmo di riduzione del rapporto debito/Pil è di 3,5 punti, ossia (130-70)/20, ma quando il debito scende al 110% del Prodotto la riduzione annua richiesta cala al 2,5%, ossia (110-60)/20.”

in una anticipazione del suo nuovo libro intitolato niente meno che “33 false verità sull'Europa”.

E’ curioso notare come anche Gustavo Piga, il 12 aprile, non abbia scritto nulla su questa affermazione di Bini Smaghi, probabilmente poi ripresa da Angelo Baglioni.

Indipendentemente dal fatto che l’anno di inizio dell’applicazione del Fiscal Compact sia il 2015 o il 2016 e il rapporto tra il debito pubblico e il PIL iniziale sia il 135% o il 130% o una qualsiasi altra percentuale maggiore del 60%, l’Articolo 4 del trattato richiede che il rapporto tra il debito pubblico e il PIL sia ridotto ogni anno in media di un ventesimo della differenza tra il rapporto tra il debito pubblico e il PIL iniziale e il 60%, non ogni anno di un ventesimo del rapporto tra il debito pubblico e il PIL ottenuto al termine dell’anno precedente, perché solo in questo modo è possibile giungere al termine dei vent’anni con un rapporto tra il debito pubblico e il PIL pari al 60% richiesto.

Lo si può facilmente vedere anche confrontando l’andamento della riduzione del rapporto tra il debito pubblico e il PIL nei due casi: con un ritmo pari a un ventesimo della differenza tra il rapporto iniziale e il 60% (1) e con un ritmo pari a un ventesimo della differenza tra il rapporto raggiunto man mano e il 60% (2).




Come è evidente, con il “metodo Bini Smaghi” il rapporto tra il debito pubblico e il PIL dopo vent’anni sarebbe ancora lontano dall’obiettivo del 60%.

Quanto tempo ci vorrebbe allora con questo metodo?
Vediamo.



Dopo cento anni non ci siamo ancora. 
Proseguiamo.



Con il “metodo Bini Smaghi” l’obiettivo di un rapporto tra il debito pubblico e il PIL pari al 60% sarebbe sempre più vicino, sempre un po’ meno lontano, ma non sarebbe raggiunto neppure in duecento anni. 
In effetti non sarebbe raggiunto mai (o all'infinito, ma già nel lungo periodo saremo tutti morti, e comunque molto prima della scadenza dei venti anni i tedeschi busseranno alle nostre porte).

Ecco Achille che rallenta man mano che si avvicina alla tartaruga, e riesce a non raggiungerla mai.

Il libro delle “33 false verità sull'Europacontiene dunque almeno una vera falsità.


[FINE]