Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

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lunedì 20 ottobre 2014

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Altre strade per l’Europa


  
Il 6 dicembre 1978, dopo la conclusione del vertice di Bruxelles del giorno prima, si era certi che l’Italia non avrebbe aderito al Sistema Monetario Europeo.
Sotto al titolo della prima pagina: “Tre assenti e non è più Sme. Italia, Gran Bretagna e Irlanda dicono no al nuovo Sistema monetario”, Il Sole 24 Ore pubblicò questo editoriale.
Nella stessa pagina si esprimevano contro l’adesione allo Sme: Luciano Barca, deputato comunista; Luigi Spaventa, deputato della Sinistra indipendente; e Mario Monti, con un lungo articolo.
Pericolo scampato, ma solo per qualche giorno.




Alfredo Recanatesi

Altre strade per l’Europa

Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 1978.



Altre strade per l'Europa 




Il disegno di un’Europa che potesse unificarsi attraverso la finestra dei vincoli valutari anziché attraverso la porta dell’armonizzazione economica, è nuovamente caduto.
Ancora una volta si è dimostrato che sistemi economici eterogenei non possono superare questa eterogeneità attraverso una stabilizzazione dei cambi tra le loro monete che dell’armonizzazione economica può essere semmai il coronamento formale, non certo il fondamento.

In quanto riteniamo che il fallimento del vertice di Bruxelles vada fatto risalire alle oggettive difficoltà che ciascun governo ha di premiare la causa europea rispetto ai più immediati e stringenti problemi nazionali, crediamo che ogni drammatizzazione sarebbe fuori luogo.
In fin dei conti a Bruxelles ha prevalso il realismo, laddove nel 1972 prevalse l’utopia.
Nessuno può compiacersi di questa realtà, ma nessuno avrebbe dovuto illudersi di poterla facilmente scavalcare ritenendo possibile che le oggettive esigenze di un Paese come la Germania, la cui posizione strutturalmente eccedentaria è frutto di una peculiare e indiscussa scelta politica, potessero essere accordate con quelle di un’Italia, la quale ha problemi che possono essere risolti solo in un quadro di congiuntura internazionale espansiva.

Trascurare questa elementare realtà è stato l’errore compiuto, per un motivo o per l’altro, da tutte le delegazioni: da quella tedesca, la quale ha cercato nello Sme solo uno strumento per poter ripartire sugli altri partner il rovescio della medaglia della sua posizione eccedentaria; e quella francese, che nel nuovo accordo vedeva e vede solo un supporto alla politica economica che il governo Barre intende attuare; a quella italiana, la quale anziché impostare la trattativa sul quadro di politica economica comunitaria che costituisce ad un tempo un progresso sulla via dell’armonizzzazione e la necessaria premessa alla soluzione dei suoi specifici problemi, si è addentrata nella trattativa sui particolari tecnici, come la fascia di oscillazione, e su discutibili contropartite, come le agevolazioni comunitarie per gli investimenti nel Mezzogiorno, esponendosi alla sortita di Giscard, certo teatrale, ma non per questo meno fondata.

Fin dall’inizio il nuovo Sme era apparso come un punto di incontro franco-tedesco; è logico che con questa forma prenda vita il 1° gennaio prossimo perdendo una caratterizzazione politica che altro non avrebbe significato se non un allineamento forzato e - continuiamo a ritenere - negativo su quel punto di incontro.

La delegazione italiana di errori ne ha commessi molti, ma l’esito negativo del vertice non può essere imputato ad essa.
Nessuno può accusarla per non aver aderito ad un accordo col quale, in cambio di qualche contentino, avrebbe dovuto mettersi da parte nel fare concorrenza alla produzione tedesca, posto che la Germania non intende rinunciare al suo grado di stabilità monetaria interna (invidiabile, forse, ma decisamente atipico) e posto che in nessun caso l’Italia può collocare nel suo orizzonte un contenimento dell’inflazione alla dimensione tedesca.

Al governo però si pone un problema: quello di ricondurre sul piano interno le motivazioni di una politica economica che con troppa enfasi aveva impostato sull’adesione allo Sme.
Il fatto che non abbia aderito non costituisce alcuna contraddizione di quella politica economica, ma è imminente il rischio che possa essere colto come pretesto per rafforzare le critiche e, soprattutto, le contravvenzioni alla logica di quella politica.

Sarà quindi opportuno che sollecitamente e fermamente quella politica venga confermata in quanto unica via per risolvere i nostri problemi.
La necessità di controllare rigorosamente l’inflazione ha solide motivazioni autonome per essere perseguita anche al di fuori di un’ottica di integrazione valutaria europea, così come l’esigenza di evitare svalutazioni della lira non viene meno con il fallimento del rendez-vous con le altre monete comunitarie.
E’ una linea questa, il cui orientamento sull’Europa oggi appare più come una coincidenza che come una motivazione; tanto meglio se, lungo la strada della sua attuazione, potremo incontrare altri membri della comunità che nel frattempo abbiano compiuto qualche passo verso di noi.


[FINE]


N.B.        Il grassetto è mio.


venerdì 22 agosto 2014

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L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco




Heiner Flassbeck

Avis de tempête sur l'Union monétaire européenne

Le Monde, 5 marzo 2010.
Pubblicazione disponibile qui



L’Unione monetaria europea è incompatibile con il dumping salariale tedesco  

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]



Nella marea di prese di posizione e di commenti pubblicati dalla stampa europea in queste ultime settimane sulla Grecia, ben pochi sono stati quelli che si sono occupati degli stretti legami tra la zona euro e la crisi.
La maggior parte dei commentatori trattano dei problemi interni della Grecia e degli altri paesi meridionali dell'Unione monetaria europea come se essi fossero totalmente indipendenti dal commercio internazionale, sia tra i paesi dell’Unione che con il resto del mondo.
Pochi hanno fatto notare gli enormi squilibri commerciali interni all’Unione monetaria europea e il fatto che essi generano una situazione fiscale insostenibile.
Nessuno ha tentato una valutazione equilibrata dei problemi interni all'Unione né ha identificato le loro cause.
Non c'è alcun dubbio che i deficit di bilancio siano un grosso problema.
Tuttavia è un fatto che sono gli squilibri internazionali quelli che potrebbero condurre ad una dissoluzione dell’Unione monetaria europea, se non si prendono rapidamente misure correttive draconiane.

Eppure, nessuna forte azione politica sarà possibile fintanto che queste evidenze resteranno dei tabù perché gli stati politicamente forti dell'Unione monetaria europea non vogliono mettere in discussione la teoria tradizionale sulla flessibilità del mercato del lavoro.

La Grecia non è che la punta dell'iceberg.
Nel 2007, il disavanzo delle sue partite correnti aveva già raggiunto quasi il 15% del suo PIL, per poi diminuire lievemente con il calo delle importazioni dovuto alla recessione.

Cos'è andato male?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Grecia hanno ristagnato mentre la sua domanda interna è aumentata al rispettabile tasso annuale del 2,3%, secondo le stime della Commissione Europea.
I redditi da lavoro reali annuali per addetto sono aumentati dell’1,9%, un po' meno della produttività.
Il costo unitario del lavoro, la più importante misura della competitività in una unione monetaria, è aumentato del 2,8% all'anno, raggiungendo un livello pari a 130 nel 2010 (base 100 nel 2000).
Nello stesso tempo, la maggiore economia dell'Unione monetaria europea, la Germania, accumulava un enorme avanzo delle sue partite correnti, arrivando all'8% del suo PIL nel 2007.

Cos'è andato bene?
Tra il 2000 e il 2010, le esportazioni nette della Germania sono esplose mentre la sua domanda interna stagnava, con un insignificante tasso di crescita dello 0,2% all'anno.
Un crescita quasi nulla dei redditi da lavoro - solo lo 0,4% all'anno, molto al di sotto degli incrementi di produttività - spiega il rallentamento della domanda interna, la compressione salariale non ha condotto alla prevista creazione di posti di lavoro.
In questi ultimi dieci anni il costo unitario del lavoro in Germania non è cresciuto che solo marginalmente, raggiungendo un livello pari a 105 nel 2010.

Questo significa semplicemente che un bene o un servizio che era prodotto allo stesso costo da tutti i membri dell’Unione monetaria europea nel 2000, e che poteva dunque essere venduto allo stesso prezzo, oggi costa il 25% in più se è prodotto in Grecia di quanto costa se è prodotto in Germania.
La differenza con la Germania è dello stesso ordine di grandezza per la Spagna, il Portogallo e l'Italia.
Ed è del 13% anche per la Francia, sebbene la Francia sia l'unico paese nel quale il costo unitario del lavoro è cresciuto seguendo rigorosamente l'obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2% stabilito dalla Banca Centrale Europea.

Come il presidente e il capo degli economisti della Banca Centrale Europea, alcuni funzionari ritengono che questa differenza non sia significativa perché la Germania soffriva di uno svantaggio assoluto prima della creazione dell’Unione monetaria europea, a causa del costo della riunificazione tedesca.
La logica tuttavia li smentisce.
Se il risultato della compressione dei salari da parte della Germania fosse stato solo l’eliminazione di uno svantaggio assoluto, essa non si ritroverebbe ora con un vantaggio assoluto.
Eppure, è proprio questo quello che sta avvenendo alla Germania.
La Germania è l'unico grande paese europeo che ha potuto stabilizzare la sua quota di mercato mondiale negli ultimi dieci anni, quando tutti gli altri, compresa la Francia, l'hanno vista diminuire fortemente.

Questo conduce all'ultima linea della difesa tedesca, secondo la quale il dumping salariale tedesco sarebbe stato giustificato da una elevata disoccupazione, e continuerebbe ad esserlo.
Altro errore: la disoccupazione in Germania è diminuita ma resta al livello prevalente in Francia e in altri Paesi perché la debolezza della domanda interna compensa il dinamismo della domanda estera.

Inoltre, i paesi che desiderano esercitare una pressione verso il basso sui salari per ragioni interne non dovrebbero entrare in una unione monetaria se non vogliono o non possono convincere gli altri paesi membri a fare altrettanto.

Ancora peggio, la Germania è entrata in una Unione monetaria che ha l’obiettivo di un tasso di inflazione vicino al 2%, non di un tasso di inflazione massimo del 2%.
Di fatto, l'inflazione e il costo unitario del lavoro, che sono fortemente correlati, hanno avuto un andamento in Germania molto al di sotto di questa norma del 2%.
Questo ha costituito, da parte del governo tedesco, una chiara violazione dell'obiettivo comune riguardante l’inflazione fissato dall’Unione monetaria europea, ed ha esercitato in questo modo un’enorme pressione sulle contrattazioni salariali che si sono concluse con un aumento del costo della mano d'opera vicino allo zero.

I leader europei hanno torto nel credere che ci sarà un'uscita dalla crisi greca, spagnola, portoghese o una qualsiasi altra soluzione nazionale all'interno dell’Unione monetaria europea.
Se la Germania continua a stringere la cinghia, e tutto porta a credere che lo farà, questi paesi e la Francia saranno costretti ad abbassare i loro salari in termini assoluti.
Questo provocherà la deflazione e la depressione in tutta l’Europa, che non potrà rinascere dalle sue ceneri fintanto che la sopravvalutazione delle valute nazionali non potrà essere corretta con una svalutazione.

La crisi europea non è una tragedia greca.

Se l'Europa non può accordarsi per una azione comune, prendendo delle decisioni chiare sull’evoluzione dei salari su di un orizzonte temporale di molti anni, o persino decenni, con lo scopo di riequilibrare il suo commercio, allora tutti i paesi dell'Europa del Sud, inclusa la Francia, devono considerare l’uscita dall'Unione monetaria.

L’economia di nessun paese al mondo può sopravvivere se tutte le sue imprese hanno uno svantaggio assoluto nei confronti dei principali concorrenti internazionali.



[FINE]


sabato 24 maggio 2014

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Votate PD!






























... dei tedeschi ci si può fidare.




venerdì 23 maggio 2014

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Ci si può fidare dei tedeschi!