Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

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venerdì 21 marzo 2014

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Il tabù della monetizzazione del debito pubblico




Adair Turner

Rethinking the Monetization Taboo

Project Syndicate, 18 marzo 2014.
Pubblicazione disponibile qui



Il tabù della monetizzazione del debito pubblico

[ Traduzione di Giorgio D.M. * ]



Ora che si è dibattuto fino allo sfinimento sul ritmo della riduzione [tapering] del programma della Federal Reserve degli Stati Uniti di acquisto di attività finanziarie, l’attenzione si sposterà progressivamente sulle prospettive derivanti da un incremento dei tassi di interesse.
Ma si profila anche un’altra questione: come potranno le banche centrali “uscire” definitivamente dalla politica monetaria non convenzionale e ridimensionare a livelli “normali“ i loro bilanci gonfiati dalla politica monetaria non convenzionale?

Secondo molti, deve essere affrontato un problema ancora più ampio.
La riduzione degli acquisti da parte della Federal Reserve rallenta solo la crescita del suo bilancio. La banca centrale dovrebbe ancora vendere 3.000 miliardi di dollari di titoli per ritornare nella condizione precedente la crisi.

La verità che solo raramente si ammette, tuttavia, è che non c’è alcuna necessità che le banche centrali riducano i loro bilanci.

Le banche centrali possono avere un bilancio permanentemente più ampio e, per alcuni paesi, un bilancio permanentemente maggiore sarà di aiuto per ridurre l’onere del debito pubblico.

Come mostra uno studio recente pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale, di Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, le economie avanzate si trovano ad affrontare oneri derivanti dai debiti pubblici che non possono essere ridotti semplicemente con un mix di austerità, astinenza e crescita.

Però, se una banca centrale possiede i titoli del debito del suo Stato, non esiste alcuna passività netta per lo Stato stesso.
Lo Stato possiede la banca centrale, quindi il debito che ha emesso e che la banca centrale possiede è verso se stesso, e la spesa per gli interessi viene restituita al governo sotto la forma dei profitti della banca centrale.
Se i titoli del debito pubblico posseduti dalla banca centrale fossero convertiti in obbligazioni perpetue che non pagano interessi, non cambierebbe nulla di sostanziale, ma diverrebbe evidente che alcuni dei titoli del debito pubblico emessi in passato non devono affatto essere rimborsati.

Questo corrisponde al gettare denaro dall’elicottero [helicopter money], a posteriori.
Nel 2003, l’allora presidente della Federal Reserve Ben Bernanke sostenne che il Giappone, trovandosi a dover affrontare la deflazione, avrebbe dovuto incrementare la spesa pubblica o ridurre le imposte, finanziando l’operazione stampando denaro [printing money] piuttosto che emettendo titoli di Stato.
Questo, disse, necessariamente avrebbe incrementato il reddito nazionale, perché l’effetto diretto di stimolo per l’economia non sarebbe stato contrastato dalle preoccupazioni relative ai futuri oneri del debito.

Il suo consiglio non fu seguito, gli ampi disavanzi del Giappone furono infatti finanziati con l’emissione di titoli di Stato. 1
I titoli posseduti dalla Banca del Giappone però possono ancora essere cancellati.
Nel caso del Giappone, questa cancellazione ridurrebbe il debito pubblico di un ammontare pari a più del 40% del PIL oggi, e di circa il 60% del PIL se attuata dopo gli acquisti di titoli programmati per il 2014.

Le obiezioni si concentrano su due rischi: le perdite della banca centrale e l’inflazione eccessiva.
Ma entrambi questi rischi possono essere evitati.

Le banche centrali hanno acquistato i titoli di Stato con denaro sul quale attualmente pagano un tasso di interesse nullo o molto basso. 2
Così, man mano che i tassi di interesse salgono, le banche centrali potrebbero dover andare incontro a costi maggiori dei loro ricavi.
Le banche centrali però possono decidere di pagare un interesse nullo su una porzione delle riserve che le banche commerciali possiedono presso di loro, anche quando incrementano i tassi di interesse della politica monetaria.
E possono richiedere alle banche commerciali di mantenere presso le banche centrali delle riserve, in proporzione ai loro prestiti, sulle quali non siano corrisposti interessi, prevenendo in questo modo una crescita inflazionistica del credito privato e del denaro.

Una permanente monetizzazione 3 dei debiti pubblici è senza alcun dubbio tecnicamente possibile.
Se sia desiderabile dipende dalle prospettive riguardanti l’inflazione.
Se l’inflazione dovesse ritornare ai livelli obiettivo, la monetizzazione del debito potrebbe essere inutilmente e pericolosamente di stimolo per l’economia.
La vendita dei titoli di Stato da parte della banca centrale, anche se certamente non inevitabile, potrebbe allora essere opportuna .
Ma se il pericolo è la deflazione, una permanente monetizzazione del debito può essere la politica migliore.

Prevedo che il Giappone, in effetti, monetizzerà permanentemente una parte del debito pubblico.
Dopo due decenni di bassa crescita e deflazione, il debito pubblico lordo giapponese è oggi maggiore del 240% del PIL (e maggiore del 140% del PIL in termini netti); e, con un disavanzo fiscale pari al 9,5% del PIL, l’onere del debito continua ad aumentare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, per ridurre il suo debito pubblico netto all’80% del PIL entro il 2030 il Giappone dovrebbe convertire il suo attuale disavanzo primario (il saldo di bilancio che si ottiene escludendo il pagamento degli interessi sul debito pubblico) pari all’8,6% del PIL in un avanzo primario pari al 6,7% del PIL e mantenere questo avanzo con continuità fino al 2030.

Questo non accadrà, e ogni tentativo di raggiungere questo obiettivo condurrebbe il Giappone in una grave depressione.
Ma il governo non deve rimborsare i 140.000 miliardi di yen (1.400 miliardi di dollari) del suo debito che la Banca del Giappone possiede già.

La Banca del Giappone continuerà ad espandere il suo bilancio finché raggiungerà il suo obiettivo di una inflazione pari al 2%.
Una volta raggiunto questo obiettivo, il suo bilancio si potrà stabilizzare in termini nominali assoluti e ridursi leggermente in rapporto al PIL, ma la sua dimensione in termini assoluti probabilmente non si ridurrà mai - una possibilità che non deve generare alcuna preoccupazione.
E’ precisamente quello che avvenne al bilancio della Federal Reserve dopo che i suoi acquisti di titoli del governo degli Stati Uniti nel periodo della guerra e nell’immediato dopoguerra terminarono nel 1951.
Anche se si verifica una permanente monetizzazione del debito pubblico, tuttavia, la verità può essere nascosta.
Se il governo continuasse a rimborsare alla Banca del Giappone i titoli di Stato giunti a scadenza, ma i rimborsi fossero sempre compensati da nuovi acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale, e se la Banca del Giappone mantenesse nullo il tasso di interesse pagato sulle riserve delle banche commerciali, l’effetto netto sarebbe lo stesso di una cancellazione del debito, ma la finzione di una “normale“ attività della banca centrale potrebbe essere mantenuta.

Le banche centrali possono monetizzare il debito pubblico fingendo di non farlo.
Questa finzione può riflettere un utile tabù: se riconosciamo apertamente che la cancellazione o monetizzazione del debito pubblico è possibile, i politici potrebbero pretenderla in continuazione e in misura eccessiva, non solo quando è opportuna.
Le esperienze storiche della Germania di Weimar, o dello Zimbabwe oggi, illustrano il pericolo.

Quindi, anche quando una permanente monetizzazione del debito pubblico si verifica - come quasi certamente accadrà in Giappone e probabilmente altrove - essa rimane sempre la politica che non osa dire il suo nome.
Questa reticenza può essere utile.
Ma non deve nascondere alle banche centrali e ai governi l’ampio ventaglio degli strumenti di politica monetaria disponibili per affrontare gli attuali gravi eccessi di debito pubblico.



 [FINE]



* Note
1 Sembra che con “printing money” l’Autore intenda la creazione di denaro direttamente da parte dello Stato o del governo.
2 In realtà le banche centrali acquistano i titoli di Stato accreditando le riserve che le banche commerciali hanno presso di esse: le banche centrali creano denaro acquistando attività. Come poi viene detto, l’accreditamento corrispondente all’acquisto dei titoli di Stato e la remunerazione delle riserve sono operazioni logicamente e operativamente distinte e indipendenti.
3 “Permanente monetizzazione” del debito pubblico è quindi per l’Autore l’acquisto da parte della banca centrale di  titoli di Stato che non saranno più rivenduti sul mercato, né rimborsati dallo Stato. Anziché “stampare denaro”, il governo emette un titolo di Stato che direttamente o indirettamente viene acquistato dalla banca centrale. In questo modo il governo si procura il denaro di cui ha bisogno senza “stamparlo” ma anche senza dover pagare interessi sul debito e senza dover rimborsare i titoli emessi.



domenica 9 settembre 2012

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Aspetti politici del pieno impiego




Michał Kalecki

Political Aspects of Full Employment

Political Quartely, 14, pp. 322-331.
Pubblicazione disponibile qui.


Aspetti politici del pieno impiego

[ Traduzione di Giorgio Di Maio * ]



I
[La dottrina economica del pieno impiego]
I.1
Una solida maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono essere importate dall’estero.
Se il Governo garantisce investimenti pubblici (ad esempio costruisce scuole, ospedali e autostrade) o sostiene con sussidi il consumo di massa (con gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o con sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità) e se, in più, queste spese sono finanziate con un maggiore indebitamento e non con la tassazione (che potrebbe avere un effetto negativo sugli investimenti e sui consumi privati) allora la domanda effettiva per beni e servizi può essere incrementata fino al punto che corrisponde al raggiungimento del pieno impiego.

Si noti che questa spesa del Governo incrementa l’occupazione non solo direttamente ma anche indirettamente, dal momento che i redditi più elevati che essa genera provocano a loro volta incrementi secondari della domanda di beni di consumo e di investimento.

I.2
Ci si potrebbe chiedere dove il pubblico prenderà il denaro da prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi.
Per comprendere questo processo la cosa migliore, penso, è immaginare per un momento che il Governo paghi i suoi fornitori con titoli di Stato.
I fornitori, in generale, non tratterranno questi titoli ma li metteranno in circolazione acquistando altri beni o servizi, e la circolazione dei titoli di Stato continuerà finché alla fine essi giungeranno a persone che li tratterranno in quanto attività che generano un reddito sotto forma di interesse.
In ogni periodo l’incremento totale dei titoli di Stato posseduti (temporaneamente o stabilmente) dalle persone e dalle imprese sarà pari ai beni e ai servizi venduti al Governo.
Così quello che l’economia presta al Governo sono i beni e i servizi la cui produzione è “finanziata” dai titoli di Stato.
Nella realtà il Governo non paga i suoi acquisti con titoli di Stato ma con denaro, ma nello stesso tempo emette titoli e così raccoglie denaro; e questo è equivalente al processo immaginario descritto prima.

Che cosa succede, tuttavia, se il pubblico non vuole assorbire tutto l’incremento dei titoli di Stato? Il pubblico alla fine offrirà i titoli di Stato alle banche per avere in cambio del denaro (in contanti o sotto forma di depositi). Se le banche accetteranno queste offerte, il tasso di interesse non varierà, altrimenti il prezzo dei titoli di Stato diminuirà, il che significa che ci sarà un incremento del tasso di interesse, e questo incoraggerà il pubblico a detenere più titoli di Stato in rapporto ai depositi.
Ne segue che il tasso di interesse dipende dalla politica delle banche, e in particolare dalla politica della Banca Centrale.
Se questa politica mira a mantenere il tasso di interesse a un certo livello questo obiettivo può facilmente essere raggiunto, qualunque sia l’ampiezza del nuovo indebitamento del Governo.
Questa era ed è la situazione nell’attuale guerra. Nonostante l’astronomico deficit di bilancio, il tasso di interesse non ha mostrato alcun aumento sin dall’inizio del 1940.

I.3
Si può obiettare che la spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento causerà inflazione. A questo si può replicare che la domanda effettiva creata dal Governo agisce come ogni altro incremento della domanda. Se la forza lavoro, gli impianti e le materie prime di provenienza estera sono disponibili in eccesso, l’incremento della domanda è soddisfatto da un incremento della produzione.
Ma se il punto di pieno impiego delle risorse è raggiunto e la domanda effettiva continua a crescere, allora i prezzi si alzeranno per equilibrare la domanda e l’offerta di beni e servizi.
(In una condizione di sovraimpiego delle risorse come quella della quale siamo testimoni nell’attuale economia di guerra, un rialzo dei prezzi che generi inflazione è stato evitato solo fin tanto che il razionamento e la imposizione fiscale diretta sono riusciti a far diminuire la domanda effettiva per i beni di consumo).
Ne segue che se l’intervento del Governo mira a raggiungere il pieno impiego ma si ferma prima che la domanda effettiva aumenti oltre il segno corrispondente al pieno impiego, allora non c’è alcuna necessità di preoccuparsi dell’inflazione 1.


II
[Problemi politici del pieno impiego]
II.1
Quello che ho scritto sopra è un riassunto molto rozzo e incompleto della dottrina economica del pieno impiego. Ma, penso, è sufficiente per dare al lettore un’idea dell’essenza della dottrina e per consentirgli così di seguire la discussione che seguirà dei problemi politici che comporta il raggiungimento del pieno impiego.

Bisogna innanzitutto affermare che sebbene la massima parte degli economisti concordi oggi sul fatto che il pieno impiego possa essere ottenuto con la spesa del Governo, questo non avveniva affatto fino a solo poco tempo fa.
Tra gli oppositori a questa dottrina c’erano (e ci sono ancora) stimati cosiddetti “esperti di economia” strettamente legati ai settori bancario ed industriale.
Questo suggerisce che ci sia uno sfondo politico nella opposizione alla dottrina del pieno impiego anche se gli argomenti avanzati sono di tipo economico. 
Il che però non vuole dire che le persone che avanzano queste obiezioni di carattere economico, per quanto povere possano essere, non credano in esse.
Ma una ignoranza ostinata è generalmente una manifestazione di sottostanti motivazioni politiche.

Ci sono, comunque, anche indicazioni più dirette del fatto che in gioco ci sia una questione politica di prima grandezza.
Nella grande depressione degli anni Trenta, le grandi imprese [big business] si opposero nello stesso modo a esperimenti diretti ad incrementare l’occupazione con la spesa del Governo in tutti i paesi, tranne che nella Germania nazista.
Questo si vide chiaramente negli Stati Uniti (opposizione al New Deal), in Francia (l’esperimento di Blum) e anche in Germania prima di Hitler.
Questo atteggiamento non è facile da spiegare.
Chiaramente una produzione e una occupazione più elevate generano benefici  non solo per i lavoratori ma anche per gli imprenditori, perché i loro profitti aumentano. E la politica di pieno impiego delineata sopra non usurpa i profitti perché non comporta alcuna tassazione aggiuntiva.
Gli imprenditori durante una crisi economica non vedono l’ora di un nuovo boom; perché non dovrebbero accettare con gioia quella ripresa economica “artificiale” che il Governo è in grado di offrire loro?
E’ una questione difficile e affascinante che intendo affrontare in questo articolo.
Le ragioni della opposizione dei “leader dell’industria” al pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo possono essere suddivise in tre categorie:
i)         L’avversione contro l’interferenza, in quanto tale, del Governo nel problema dell’occupazione;
ii)       L’avversione contro la destinazione della spesa del Governo (investimenti pubblici e sussidi ai consumi);
iii)   L’avversione contro i mutamenti sociali e politici provocati dal mantenimento del pieno impiego.
Esamineremo nel dettaglio ciascuna di queste tre categorie di obiezioni contro una politica espansiva condotta dal Governo.

II.2
Affronteremo innanzitutto la riluttanza dei “capitani d’industria” ad accettare l’intervento del Governo nel campo dell’occupazione.
Ogni ampliamento dell’attività dello Stato è vista dal “mondo degli affari” [business] con sospetto, ma la creazione di posti di lavoro con la spesa pubblica presenta un aspetto speciale che rende l’opposizione contro di essa particolarmente intensa.
In un sistema di laisser-faire il livello dell’occupazione dipende grandemente dal cosiddetto stato della fiducia [state of confidence].
Se questo si deteriora, gli investimenti privati diminuiscono, e questo provoca una caduta sia della produzione che dell’occupazione (sia direttamente che attraverso l’effetto secondario della caduta dei redditi sui consumi e sugli investimenti)
Questo dà ai capitalisti un potente controllo indiretto sulla politica del Governo: tutto quello che può scuotere lo stato della fiducia deve essere attentamente evitato perché causerebbe una crisi economica.
Ma una volta che il Governo apprende il trucco di incrementare l’occupazione con i suoi stessi acquisti, questo potente strumento di controllo perde la sua efficacia.
Quindi i deficit di bilancio necessari per portare a termine l’intervento del Governo devono essere considerati pericolosi.
La funzione sociale della dottrina di una “finanza solida” [sound finance] è quella di rendere il livello dell’occupazione dipendente dallo “stato della fiducia”.

II.3
L’avversione degli uomini d’affari [business leaders] contro una politica di spesa del Governo diventa ancora più acuta quando giungono a considerare gli obiettivi per i quali il denaro dovrebbe essere speso: investimenti pubblici e sostegno al consumo di massa.
I principi economici dell’intervento del Governo richiedono che gli investimenti pubblici siano confinati a oggetti che non competono con i mezzi di produzione delle imprese private (ad esempio ospedali, scuole, autostrade, etc.).
Altrimenti la profittabilità degli investimenti privati potrebbe essere diminuita e l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione controbilanciato dall’effetto negativo del declino degli investimenti privati.
Questa concezione si adatta molto bene alle richieste degli uomini d’affari.
Ma l’ambito degli investimenti pubblici di questo tipo è piuttosto ristretto, e c’è il pericolo che il Governo, nel perseguire questa politica, possa alla fine essere tentato di nazionalizzare i trasporti o i servizi idrici ed elettrici [public utilities] così da acquisire una nuova sfera di intervento nella quale poter investire. 2

Ci si potrebbe quindi aspettare che gli uomini d’affari e i loro esperti preferiscano un sostegno dei consumi di massa  (per mezzo di assegni familiari, sussidi per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, etc.) agli investimenti pubblici; dal momento che sussidiando i consumi il Governo non si imbarcherebbe in nessun tipo di “impresa”.
In pratica, tuttavia, questo non accade.
Al contrario, sussidi ai consumi di massa sono avversati molto più violentemente da questi “esperti” che non gli investimenti pubblici.
Perché qui è in gioco un principio “morale” della massima importanza.
I principi fondamentali dell’etica capitalista richiedono che “tu ti guadagnerai il tuo pane con il sudore” -  a meno che non capiti che tu sia ricco.

II.4
Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata -  come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse - il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari.
Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure].
La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero.
Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dei profitti, dagli uomini d’affari.
Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista.


III
[Fascismo e pieno impiego]
III.1
Una delle importanti funzioni del fascismo, come caratterizzato dal sistema nazista, è stata quella di rimuovere le obiezioni dei capitalisti al pieno impiego.

L’avversione contro la spesa del Governo in quanto tale è superata sotto il fascismo dal fatto che la macchina dello Stato è sotto il controllo diretto di una stretta alleanza tra le grandi imprese e i gerarchi fascisti.
La necessità del mito di una “finanza solida”, che serviva ad impedire al Governo di provocare una crisi di fiducia con la sua spesa, viene meno.
In una democrazia non si sa come sarà il prossimo Governo. Sotto il fascismo non c’è un prossimo Governo..

L’avversione contro la spesa del Governo, sia per investimenti pubblici che per sostenere i consumi, è superata dal concentrare la spesa del Governo sugli armamenti.
Infine, la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” in una condizione di pieno impiego sono mantenute dal “nuovo ordine”,  che spazia dalla soppressione dei sindacati ai campi di concentramento.
La pressione politica sostituisce la pressione economica della disoccupazione.

III.2
Il fatto che gli armamenti costituiscano la spina dorsale della politica di pieno impiego fascista ha una profonda influenza sulle sue caratteristiche economiche.
Una politica di riarmo su grande scala è inseparabile dall’espansione delle forze armate e dalla predisposizione dei piani per una guerra di conquista. Essa inoltre induce una politica di riarmo competitiva da parte degli altri paesi.
Questo fa sì che l’obiettivo principale della spesa si sposti gradualmente dal pieno impiego al raggiungimento della massima efficacia del riarmo. Di conseguenza l’occupazione diviene “troppo piena”; non solo la disoccupazione è abolita ma prevale un’acuta scarsità di forza lavoro.
Colli di bottiglia si manifestano dappertutto e devono essere affrontati con l’istituzione di tutto un insieme di strumenti di controllo.
Un’economia di questo tipo ha molte delle caratteristiche di una “economia pianificata”, ed è talvolta paragonata, dimostrando una certa ignoranza, al socialismo.
Comunque è necessario che questo tipo di “pianificazione” appaia ogni volta che un’economia si pone un certo elevato obiettivo produttivo in un determinato settore, quando diventa una “economia con un obiettivo” [target economy] della quale la “economia per l’armamento” [armament economy] è un caso particolare.
Una “economia per l’armamento” comporta in particolare la riduzione dei consumi, se confrontati con quelli che si potrebbero avere in una condizione di pieno impiego.

Il sistema fascista inizia con il superamento della disoccupazione, si sviluppa in una “economia per l’armamento” della scarsità, e termina inevitabilmente nella guerra.


IV
[Democrazia capitalista e pieno impiego]
IV.1
Quale sarà il risultato pratico dell’opposizione al “pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo” in una democrazia capitalista?
Proveremo a rispondere a questa domanda sulla base delle ragioni di questa opposizione esposte nella sezione II.
Abbiamo argomentato che ci possiamo aspettare l’opposizione dei “leader dell’industria” su tre piani:
i)         L’opposizione di principio contro la spesa del Governo basata sul deficit di bilancio;
ii)       L’opposizione contro il fatto che questa spesa sia diretta o verso gli investimenti pubblici - che potrebbero prefigurare l’intrusione dello Stato in nuovi campi dell’attività economica - o verso il sostegno ai consumi di massa;
iii)    L’opposizione contro il mantenimento della piena occupazione e non contro una semplice azione diretta a prevenire il verificarsi di depressioni economiche profonde e prolungate.

Ora, deve essere riconosciuto il fatto che il tempo in cui gli “uomini d’affari” potevano opporsi a qualsiasi tipo di intervento del Governo diretto ad alleviare una crisi economica è ormai passato.
Tre fattori hanno contribuito a questo:
a)     Proprio il pieno impiego durante questa guerra;
b)     Lo sviluppo della dottrina economica del pieno impiego;
c)    In parte come risultato dei precedenti due fattori, il fatto che lo slogan “mai più disoccupazione” ["Unemployment never again"] è oggi profondamente radicato nella coscienza delle masse.
Questa condizione si è riflessa nelle dichiarazioni recenti dei “capitani d’industria” e dei loro esperti.
La necessità che “qualcosa deve essere fatto nella crisi” è condivisa; ma la battaglia continua, in primo luogo, su “cosa deve essere fatto nella crisi” (ad esempio su quale deve essere la direzione dell’intervento del Governo), e in secondo luogo, sul fatto che “deve essere fatto solo nella crisi” (ad esempio semplicemente per alleviare la crisi piuttosto che non per assicurare un permanente pieno impiego).

IV.2
Nelle discussioni correnti di questi problemi emerge continuamente l’idea di contrastare le fasi di recessione economica stimolando gli investimenti privati.
Questo può essere fatto diminuendo il tasso di interesse, riducendo le imposte sui redditi, o sussidiando direttamente gli investimenti privati in un modo o nell’altro.
Che questa idea debba essere attraente per il “mondo degli affari” non è sorprendente. L’imprenditore rimane il mezzo attraverso il quale l’intervento è condotto. Se egli non prova fiducia per la situazione politica non potrà essere comprato affinché investa. E l’intervento non comporta né che il Governo “giochi” con gli investimenti (pubblici) né che “sprechi denaro” sussidiando i consumi.

Si può mostrare, tuttavia, che lo stimolo degli investimenti privati non fornisce un metodo adeguato per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ci sono due alternative da considerare qui:
(a)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi (o entrambi) vengono ridotti nettamente nella crisi e incrementati nel boom.
In questo caso sia il periodo che l’ampiezza del ciclo economico saranno ridotti, ma l’occupazione può essere lontana dal pieno impiego non solo nelle fasi di recessione ma anche in quelle di espansione economica, ad esempio il tasso di disoccupazione medio può essere considerevole, anche se le sue fluttuazioni saranno meno marcate;
(b)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi vengono ridotti in una crisi ma non vengono incrementati nella successiva fase di espansione economica.
In questo caso la fase espansiva dell’economia durerà più a lungo ma deve terminare in una nuova crisi: una diminuzione del tasso di interesse o dell’imposta sui redditi non eliminano di certo le forze che causano fluttuazioni cicliche in una economia capitalista.
Nella nuova fase recessiva sarà necessario ridurre di nuovo o il tasso di interesse o le imposte sui redditi, e cosi via.
Così, in un futuro non troppo remoto, il tasso di interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui redditi dovrebbe essere sostituita con sussidi ai redditi.
Lo stesso risultato si otterrebbe se si tentasse di mantenere il pieno impiego stimolando gli investimenti privati: il tasso di interesse e le imposte sui redditi dovrebbero essere ridotte continuamente.

In aggiunta rispetto a questa debolezza fondamentale del combattere la disoccupazione stimolando gli investimenti privati, c’è una difficoltà pratica.
La reazione degli imprenditori alle misure descritte sopra è incerta.
Se la recessione è accentuata gli imprenditori possono assumere una visione estremamente pessimistica del futuro, e la riduzione del tasso di interesse o delle imposte sui redditi può avere perciò per un lungo periodo di tempo un effetto piccolo o nullo sugli investimenti, e così sul livello della produzione e dell’occupazione.

IV.3
Anche coloro che sono a favore di uno stimolo degli investimenti privati per contrastare una fase di recessione economica spesso non fanno affidamento esclusivamente su di esso ma immaginano che debba essere associato ad investimenti pubblici.
Al momento sembra che i “leader dell’economia” e i loro esperti (o almeno parte di essi) tendenzialmente accetterebbero come estremo rimedio investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento, come strumento per alleviare le fasi di recessione economica.
Essi appaiono comunque ancora fortemente contrari alla creazione di occupazione con sussidi ai consumi, e al mantenimento della piena occupazione.

Questo stato delle cose è forse sintomatico del regime economico futuro delle democrazie capitaliste.
Nelle fasi di recessione economica, o sotto la pressione delle masse o anche senza di essa, investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento saranno decisi per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ma è probabile che eventuali tentativi di applicare questo metodo, compiuti per mantenere l’alto livello di occupazione raggiunto nella fase successiva di espansione economica, incontrerebbero una forte opposizione da parte dei “leader dell’economia”.
Come ho già detto, un durevole pieno impiego non è affatto di loro gradimento.
I lavoratori “sfuggirebbero di mano” e i “capitani d’industria” sarebbero ansiosi di “dargli una lezione”.
Inoltre, l’incremento dei prezzi in una fase di espansione economica avviene a svantaggio dei piccoli e grandi rentier e li rende “stanchi del boom economico”.
In questa situazione è probabile che si formi un potente blocco sociale tra gli interessi delle grandi imprese e quelli dei rentier, e che essi troverebbero più di un economista disposto a dichiarare che la situazione sia manifestamente non sostenibile.
La pressione di tutte queste forze, e in particolare delle grandi imprese [big business] - di norma influenti nei ministeri -  quasi sicuramente indurrebbe il Governo a ritornare alla politica ortodossa di riduzione del deficit di bilancio.
Seguirebbe quindi una recessione economica nella quale la politica di spesa del Governo tornerebbe in auge.
Questo tipo di ciclo economico-politico [political business cycle] non è solo una congettura; qualcosa di molto simile è accaduto negli Stati Uniti nel biennio 1937-1938 .
La fine della fase economica espansiva nella seconda metà del 1937 fu davvero dovuta alla drastica riduzione del deficit di bilancio. D’altra parte, nella fase acuta di recessione economica che seguì, il Governo prontamente ritornò a una politica di spesa.

Il regime del “ciclo economico-politico” sarebbe una restaurazione artificiale della condizione esistente nel capitalismo dell’Ottocento.
Il pieno impiego sarebbe raggiunto solo all’acme della fase economica espansiva, ma le fasi di contrazione economica sarebbero relativamente moderate e di breve durata.


V
[Compiti dei progressisti]
V.1
Un progressista dovrebbe essere soddisfatto di un regime del “ciclo economico-politico” come quello descritto nella sezione precedente?
Penso che dovrebbe opporsi per due motivi:
i)          Perché non assicura un durevole pieno impiego;
ii)     Perché l’intervento del Governo è limitato agli investimenti pubblici e non si estende al sostegno ai consumi.
Quello che le masse oggi domandano non è la mitigazione delle fasi di recessione economica ma la loro totale abolizione.
Né il più pieno impiego delle risorse risultante dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici non desiderati solo per fornire lavoro.
Il programma di spesa del Governo dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici solo nella misura in cui questi investimenti sono realmente necessari.
Il resto della spesa del Governo necessaria per mantenere il pieno impiego dovrebbe essere diretta a sostenere i consumi (attraverso gli assegni familiari, le pensioni di vecchiaia, la riduzione delle imposte indirette, i sussidi per ridurre i prezzi dei beni di prima necessità).
Gli oppositori a questo tipo di spesa del Governo dicono che il Governo non avrà allora nulla da mostrargli in cambio dei loro soldi. La risposta a questa obiezione è che la contropartita di questa spesa sarà un più elevato livello di vita delle masse.
Non è questo il fine di tutta l’attività economica?

V.2
Il “capitalismo del pieno impiego” [full employment capitalism] dovrà, naturalmente, sviluppare nuove istituzioni sociali e politiche che rifletteranno l’accresciuto potere della classe operaia.
Se il capitalismo riuscirà ad adattarsi al pieno impiego allora in esso sarà stata incorporata una riforma radicale.
Altrimenti, si sarà dimostrato un sistema obsoleto che deve essere abbandonato.

Ma forse la battaglia per il pieno impiego condurrà al fascismo?
Forse il capitalismo si adeguerà al pieno impiego in questo modo?
Questo sembra estremamente improbabile.
Il fascismo è sorto in Germania in una condizione di tremenda disoccupazione e si è mantenuto al potere assicurando quel pieno impiego che il capitalismo non era riuscito a garantire.
La battaglia delle forze progressiste per il pieno impiego è nello stesso tempo un modo per prevenire la rinascita del fascismo.


__________


Note:

Questo articolo corrisponde approssimativamente a una conferenza tenuta presso la Marshall Society a Cambridge nella primavera del 1942.

1 Un altro problema, di natura un po’ più tecnica, è quello del debito pubblico. Se il pieno impiego è mantenuto dalla spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento, il debito pubblico crescerà continuamente. Questo comunque non comporta alcun problema per la produzione e l’occupazione, se gli interessi sul debito sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.
Il reddito corrente, dopo il pagamento dell’imposta patrimoniale, sarà minore per alcuni capitalisti e maggiore per altri rispetto a quello che sarebbe stato se il debito pubblico non fosse stato incrementato, ma il loro reddito complessivo rimarrà uguale e il loro consumo aggregato probabilmente non varierà significativamente.
Inoltre, l’incentivo ad investire in capitale fisso non è modificato da una imposta patrimoniale perché essa è applicata ad ogni tipo di ricchezza. Sia che un capitale sia detenuto in contanti o in titoli di Stato o investito nella costruzione di una fabbrica, su di esso si applica la stessa imposta patrimoniale e così il vantaggio comparato di un’alternativa rispetto all’altra rimane immutato.
E gli investimenti finanziati con debiti non sono chiaramente colpiti da un’imposta patrimoniale perché non costituiscono un incremento della ricchezza dell’imprenditore che ha investito.
Così né i consumi né gli investimenti dei capitalisti sono influenzati da un incremento del debito pubblico, se gli interessi su di esso sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.

2 Si deve notare qui che gli investimenti in un settore nazionalizzato possono contribuire alla soluzione del problema della disoccupazione solo se sono affrontati con principi differenti da quelli adottati dalle imprese private.
Il Governo deve accontentarsi di un tasso di rendimento netto inferiore a quello delle imprese private, o deve deliberatamente pianificare i suoi investimenti in modo tale da realizzarli al momento giusto per mitigare gli effetti delle crisi economiche.


[FINE]


* Ho aggiunto delle intestazioni alle cinque sezioni dell'articolo. Il testo in corsivo grassetto evidenzia l'enfasi posta dall'Autore su alcune parole.


domenica 26 agosto 2012

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La Finanza Funzionale e il debito pubblico




Abba P. Lerner

Functional Finance and the Federal Debt

Social Research: An International Quarterly. Volume 10, No. 1 (Spring 1943): 38-51.
Pubblicazione disponibile qui.


La Finanza Funzionale e il debito pubblico

[ Traduzione di Giorgio Di Maio * ]


Tranne la necessità di vincere la guerra, non c’è oggi un altro compito che la società debba affrontare più importante della eliminazione della insicurezza economica.
Se falliamo in questo, dopo la guerra l’attuale minaccia alla civiltà democratica risorgerà di nuovo.
E’ perciò assolutamente necessario che noi tentiamo di affrontare questo problema anche se ciò richiede una riflessione abbastanza accurata e anche se il ragionamento si dimostra fino a un certo punto contrario ai nostri preconcetti.
Negli ultimi anni sono stati adeguatamente definiti i principi sulla base dei quali una azione appropriata del governo può mantenere la prosperità della società ma coloro che hanno proposto questi nuovi principi o non ne hanno visto tutte le logiche conseguenze o si sono preoccupati in modo eccessivo di cercare di evitare che il pubblico dovesse affaticarsi con quell’esercizio mentale che è necessario per comprenderle.
Questo ha prodotto un effetto boomerang.
Molte delle persone preoccupate del bene pubblico, che pure hanno constatato come la spesa in deficit [deficit spending] effettivamente consenta alla società di raggiungere la prosperità, si oppongono ancora al mantenimento permanente della prosperità raggiunta perché, nella loro incapacità di comprendere come effettivamente il tutto funziona, sono facilmente spaventati da racconti fiabeschi delle terribili conseguenze del deficit.

I
[1.1]
Come formulata da Alvin Hansen e da altri che l’hanno sviluppata e resa popolare, la nuova teoria fiscale (che avanzò per primo in una forma sostanzialmente completa John Maynard Keynes in Inghilterra) suona un po’ meno nuova e assurda alle nostre orecchie precondizionate di quanto suonerebbe se venisse presentata nella sua forma più semplice e più logica, con tutte le sue implicazioni non ortodosse dichiarate apertamente.
In alcuni casi una formulazione meno sconvolgente può essere intenzionale, come espediente tattico per attirare in modo serio l’attenzione. In altri casi ciò avviene non per un desiderio di addolcire la pillola ma proprio per il fatto che gli autori stessi non hanno visto tutte le implicazioni non ortodosse della loro teoria, forse perché inconsciamente hanno stabilito un compromesso tra la nuova teoria e la loro formazione ortodossa.
Ma ora sono proprio questi compromessi che sono sotto attacco.
Ora più che mai è necessario esporre i teoremi della nuova teoria nella loro forma più pura.
Solo così sarà possibile ripulire l’aria dalle obiezioni che davvero sono preoccupate di quelle difficoltà che appaiono tali solo quando la nuova teoria è costretta nella vecchia struttura teoretica.
Fondamentalmente la nuova teoria, come praticamente tutte le scoperte importanti, è estremamente semplice. Certamente è questa semplicità che fa sì che il pubblico sospetti di essa come di una teoria troppo facile.
Anche dotti professori che non hanno potuto abbandonare le solite abitudini di pensiero hanno protestato dicendo che la nuova teoria è “semplice logica” non avendo potuto trovare in essa alcun difetto.
Qualsiasi progresso la nuova teoria abbia compiuto sinora è stato ottenuto non semplificandola ma rivestendola per renderla più complicata e accompagnando la sua presentazione con impressionanti ma del tutto irrilevanti statistiche.

[1.2 - Finanza Funzionale]
L’idea centrale della nuova teoria è che il governo deve condurre la politica fiscale, cioè spendere e imporre tasse, prendere a prestito e rimborsare i prestiti, emettere nuova moneta e ritirare moneta, deve compiere tutto questo guardando solo ai risultati di queste azioni sull’economia e ignorando qualsiasi dottrina tradizionale su cosa sia sostenibile o non sostenibile.
Questo principio di giudicare solo sulla base degli effetti è stato applicato in molti altri campi dell’attività umana, dove è stato riconosciuto come il metodo della scienza in opposizione alla scolastica. Il principio di giudicare le misure fiscali sulla base del modo in cui funzionano, cioè dei risultati che esse producono nell’economia, potremmo chiamarlo Finanza Funzionale.

[1.3 - Prima legge della Finanza Funzionale]
La prima responsabilità finanziaria del governo (dal momento che nessun altro può assumersi questa responsabilità) è quella di mantenere la spesa totale per l’acquisto di beni e servizi nel paese a un livello né maggiore né minore di quello che ai prezzi correnti acquisterebbe tutto quello che è possibile produrre. Se si permette alla spesa totale di salire al di sopra di questo livello ci sarà inflazione, se si permette alla spesa totale di scendere al di sotto di questo livello ci sarà disoccupazione.
Il governo può incrementare la spesa totale sia spendendo di più esso stesso sia riducendo le tasse così che i contribuenti abbiano più denaro a disposizione da spendere. Il governo può ridurre la spesa totale sia spendendo meno esso stesso sia incrementando le tasse così che i contribuenti abbiano meno denaro a disposizione da spendere.
Con questi mezzi la spesa totale può essere mantenuta al livello necessario, sufficiente perché siano acquistati i beni che possono essere prodotti da tutti quelli che vogliono lavorare ma non così alto da provocare l’inflazione con una domanda (ai prezzi correnti) superiore a quello che può essere prodotto.
Nell’applicare questa prima legge della Finanza Funzionale, il governo può ritrovarsi ad incassare con le tasse più di quello che spende o a spendere più di quello che incassa con le tasse. Nel primo caso può accumulare la differenza [avanzo o surplus] nei suoi forzieri o impiegarla per rimborsare parte del debito pubblico [national debt], nel secondo caso dovrebbe coprire la differenza [disavanzo o deficit] o prendendo a prestito il denaro necessario o creando moneta [printing money]. In nessuno dei due casi il governo dovrebbe ritenere che ci sia qualcosa di particolarmente buono o  cattivo in queste conseguenze. Il governo dovrebbe semplicemente concentrarsi nel mantenere la spesa totale a un livello né troppo alto né troppo basso, in modo tale da prevenire così il verificarsi sia della disoccupazione che dell’inflazione.

[1.4 - La tassazione]
Un interessante, e per molti sconvolgente, corollario è che lo strumento della tassazione non deve mai essere scelto semplicemente perché il governo ha bisogno di denaro per effettuare i pagamenti.
Secondo i principi della Finanza Funzionale, la tassazione deve essere giudicata solo sulla base dei suoi effetti.
Gli effetti principali della tassazione sono due: i contribuenti hanno a disposizione meno denaro da spendere e il governo ha più denaro.
Il secondo effetto può essere ottenuto così tanto più facilmente creando moneta che solo il primo effetto è importante. Lo strumento della tassazione deve quindi essere impiegato solo quando è desiderabile che i contribuenti abbiano meno denaro da spendere, per esempio quando essi altrimenti spenderebbero abbastanza da far salire l’inflazione.

[1.5 - Seconda legge della Finanza Funzionale]
La seconda legge della Finanza Funzionale è che il governo dovrebbe prendere a prestito denaro solo se è desiderabile che il pubblico detenga meno denaro e più titoli di Stato, perché questi sono gli effetti dell’indebitarsi del governo.
Questo potrebbe essere desiderabile se altrimenti il tasso di interesse dovesse ridursi troppo (a causa dei tentativi da parte di coloro che possiedono troppo denaro di prestarlo) e indurre una spesa per investimenti troppo elevata facendo così salire l’inflazione. Al contrario, il governo dovrebbe prestare denaro (o rimborsare parte del suo debito) solo se è desiderabile incrementare la moneta o ridurre la quantità di titoli di Stato nelle mani del pubblico.
Quando la tassazione, la spesa, l’indebitamento e la concessione di finanziamenti (o il rimborso dei debiti) sono governati secondo i principi della Finanza Funzionale, qualsiasi eccesso delle spese rispetto alle entrate [disavanzo o deficit], se non può essere coperto con le riserve di denaro, deve essere coperto con la creazione di nuova moneta, e ogni eccesso delle entrate sulle uscite [avanzo] può essere distrutto o impiegato per riempire le riserve di denaro.
L’avversione quasi istintiva che abbiamo contro l’idea di stampare denaro, e la tendenza ad identificare il creare moneta con l’inflazione, può essere superata se ci calmiamo e se prendiamo nota del fatto che questo stampare non ha effetti sul denaro speso.
L’ammontare del denaro speso è regolato dalla prima legge della Finanza Funzionale, che si riferisce in modo particolare all’inflazione e alla disoccupazione.
La creazione di moneta ha luogo solo quando è necessario applicare la Finanza Funzionale con lo spendere o con il concedere finanziamenti (o col rimborsare il debito pubblico). 1

[1.6 - Prescrizioni della Finanza Funzionale]
In breve, la Finanza Funzionale respinge completamente le dottrine tradizionali che raccomandano una “finanza solida” e il principio di cercare di mantenere in pareggio il bilancio relativo a un anno solare o a un qualsiasi altro arbitrario periodo di tempo.
Al loro posto, la Finanza Funzionale prescrive:
-         primo, l’aggiustamento della spesa totale (spesa di tutti nell’economia, incluso il governo) al fine di eliminare sia la disoccupazione che l’inflazione, impiegando la spesa pubblica quando la spesa totale è troppo bassa e la tassazione quando è troppo alta;
-     secondo, l’aggiustamento della quantità di moneta e di titoli di Stato detenuta dal pubblico per mezzo dell’indebitamento del governo o del rimborso del debito, al fine di ottenere quel tasso di interesse che porta al livello più desiderabile degli investimenti;
-          e terzo, la creazione di nuova moneta, l’accumulo di riserve di denaro o la distruzione di moneta a seconda delle necessità per portare a termine le prime due parti del programma.

II
[2.1]
Nel giudicare le formulazioni degli economisti su questo argomento è difficile distinguere tra il tatto nel minimizzare le affermazioni più sconcertanti della Finanza Funzionale e la mancanza di chiarezza da parte di coloro che non hanno compreso appieno quanto le loro formulazioni relativamente ortodosse abbiano delle implicazioni estreme.
All’inizio ci furono i sostenitori dello stimolo fiscale [pump-primers] secondo i quali il governo avrebbe dovuto  semplicemente rimettere in moto le cose e l’economia poi avrebbe potuto proseguire da sola.
Una formula abbastanza simile a questa fu sviluppata dagli economisti scandinavi con una serie di bilanci del ciclo economico, del capitale e di altri speciali tipi, che dovevano essere in pareggio non anno per anno ma su di orizzonti temporali più lunghi.
Come la formula dei sostenitori dello stimolo fiscale anche quella degli economisti scandinavi fallì perché non c’è alcuna ragione per ritenere che la politica di spesa e di tassazione che mantiene la piena occupazione e previene l’inflazione porti necessariamente a un bilancio in pareggio in un decennio più di quanto non lo faccia in un anno o ogni quindici giorni.
Non appena ci si accorse di questo - della mancanza di una qualsiasi garanzia del fatto che il mantenimento di una società prospera consentirebbe di avere un bilancio in pareggio, anche su periodi di tempo più lunghi - si dovette riconoscere che il risultato potrebbe anche essere un debito pubblico continuamente crescente (se la spesa addizionale dovesse essere coperta con l’indebitarsi del governo e non con la creazione della moneta necessaria per coprire l’eccesso delle spese rispetto alle entrate fiscali).
A questo punto, due cose avrebbero dovuto essere chiarite: primo, che questa possibilità non mette in alcun modo in pericolo la società, non importa a quali livelli impensati il debito pubblico possa salire, finché la Finanza Funzionale mantiene la domanda totale per la produzione corrente al livello adeguato; e secondo (anche se questo è molto meno importante) che c’è una tendenza automatica al pareggio di bilancio nel lungo periodo che è un risultato dell’applicazione della Finanza Funzionale anche se essa non ammette il principio del pareggio di bilancio.

[2.2]
Non importa quanti interessi debbano essere pagati sul debito pubblico, lo strumento della tassazione non deve essere applicato a meno che non sia necessario mantenere sotto controllo la spesa per prevenire l’inflazione.
Gli interessi possono essere pagati indebitandosi ancora di più.
Finché il pubblico è disposto a prestare al governo non c’è alcuna difficoltà, non importa quanti zeri si aggiungano al debito pubblico.
Se il pubblico diventa restio a continuare a prestare al governo, allora deve o accumulare denaro o spenderlo.
Se il pubblico accumula, il governo può stampare la moneta occorrente per pagare gli interessi sul debito pubblico e le altre sue obbligazioni, e l’unico effetto è che il pubblico detiene il denaro del governo anziché i titoli del governo e il governo si risparmia la fatica di pagare gli interessi.
Se invece il pubblico spende, la sua spesa incrementa il livello della spesa totale così che il governo non deve più indebitarsi per sostenerla; e se il livello della spesa diventa eccessivo, quello è il momento di utilizzare la tassazione per prevenire l’inflazione. I proventi della tassazione possono quindi essere impiegati per pagare gli interessi e rimborsare il debito pubblico.
In ogni caso la Finanza Funzionale dà una risposta semplice e quasi automatica.

[2.3]
Questo però o non fu visto chiaramente o venne considerato troppo sconvolgente o troppo logico per essere detto al pubblico.
Invece si sostenne, ad esempio da parte di Alvin Hansen, che finché c’è un ragionevole rapporto tra il reddito nazionale e il debito, il pagamento degli interessi sul debito pubblico può essere facilmente coperto con le tasse versate sul reddito nazionale aggiuntivo creato dalla spesa in deficit [deficit spending].
Questa “concessione” non necessaria aprì la strada ad una opposizione estremamente efficace contro la Finanza Funzionale.
Anche persone che capiscono chiaramente il meccanismo grazie al quale la spesa del governo durante una depressione economica può incrementare il reddito nazionale di diverse volte l’ammontare della spesa stessa, e che capiscono perfettamente che il debito pubblico, quando non è dovuto ad altre nazioni, non è un peso sulla nazione nello stesso modo che un debito di una persona nei confronti di un’altra persona lo è per la prima persona, hanno finito con l’essere fortemente contrari al “deficit spending” 2.
E’ stato sostenuto che “sarebbe impossibile immaginare un programma più adatto del “deficit spending” a minare in modo sistematico il sistema della impresa privata e ad accelerare la catastrofe finale”. 3
Queste obiezioni si basano sull’ammissione del fatto che sebbene ogni dollaro speso dal governo può creare diversi dollari di reddito nazionale aggiuntivo nel corso dei prossimi uno o due anni, gli effetti poi però svaniranno.
Da questo segue che se il reddito nazionale deve essere mantenuto a un livello elevato allora il governo deve continuare a contribuire alla spesa totale fin tanto che la spesa privata è insufficiente da sola a garantire la piena occupazione.
Questo potrebbe significare un continuo sostegno alla spesa da parte del governo per un periodo di tempo indeterminato (anche se non necessariamente per una quota crescente nel tempo); e se, come la “concessione” suggerisce, tutta questa spesa è finanziata con l’indebitamento, il debito continuerà a crescere finché non sarà più in un rapporto “ragionevole” con il reddito nazionale.
Questo conduce al punto decisivo dell’argomentazione contro la spesa in deficit.
Se gli interessi sul debito pubblico devono essere pagati con le tasse (lo ripeto, una assunzione che non è messa in discussione dalla “concessione”) allora nel tempo questi interessi verranno a costituire una importante frazione del reddito nazionale.
Le altissime imposte sui redditi necessarie per raccogliere questa somma di denaro e per pagarla ai detentori dei titoli di Stato scoraggerà gli investimenti privati rischiosi, riducendo così tanto il ritorno netto sugli investimenti che gli investitori non saranno più remunerati per il rischio di perdere il loro capitale.
Questo renderà necessario per il governo di affrontare un deficit ancora maggiore per sostenere il livello del reddito e l’occupazione.
Una tassazione ancora più pesante sarà allora necessaria per pagare gli interessi sul debito - finché il peso della tassazione non sarà così opprimente da rendere non profittevoli gli investimenti privati, e da far collassare il sistema economico basato sull’iniziativa privata.
Le aziende private e le società falliranno tutte a causa delle tasse e il governo dovrà prendere il controllo di tutta l’economia.
Questa argomentazione non è nuova. Le identiche calamità, anche se oggi esse ricevono molta più attenzione del solito, furono promesse quando venne proposta la prima legge sulle imposte sui redditi, con una aliquota dell’uno per cento.
Tutto questo rende solo più importante valutare la rilevanza dell’argomentazione.

III
Ci sono quattro principali errori nell’argomentazione contro il deficit spending, quattro ragioni per le quali la sua apparente conclusività è solamente illusoria.

[3.1]
In primo luogo, la stessa elevata aliquota dell’imposta sui redditi che riduce i ritorni sugli investimenti determina la deducibilità delle perdite alle quali si va incontro se l’investimento si rivela un fallimento. Di conseguenza, il ritorno di un investimento al netto del rischio di una perdita non dipende dall’aliquota dell’imposta sul reddito, non importa quanto alta possa essere.
Si consideri una persona nella fascia di reddito superiore a 50.000 $ all’anno che abbia accumulato 10.000 $ da investire. Con un rendimento del 6% questa somma darebbe un reddito aggiuntivo di 600 $, ma dopo il pagamento delle imposte su questo reddito, con un’aliquota del 60%, alla persona rimarrebbero solo 240 $. Si dice quindi che la persona non investirebbe perché questi 240 $ sono una remunerazione insufficiente per il rischio di perdere 10.000 $. Questa argomentazione dimentica che se i 10.000 $ vengono tutti persi, la perdita netta per l’investitore, una volta detratta la riduzione delle imposte da lui dovute sul reddito, sarà solo di 4.000 $ e il tasso di rendimento sulla somma che egli davvero rischia è di nuovo esattamente il 6%: 240 dollari sono il 6% di 4.000 $.
L’effetto delle imposte sul reddito è quello di fare in modo che l’uomo ricco agisca come una specie di agente che lavora per la società su commissione. Egli ricava solo una parte del ritorno su un investimento, ma perde solo una parte del denaro che investe. Qualsiasi investimento che sarebbe conveniente in assenza di imposte sul reddito lo è anche con le imposte sul reddito.
Certamente, questa correzione dell’argomentazione è strettamente vera solo se il 100% delle perdite è deducibile dal reddito sottoposto a tassazione, nel caso in cui cioè la detrazione delle perdite dall’imposta è calcolata con la stessa aliquota dell’imposta sul reddito percepito.
Questa è una buona argomentazione contro certe limitazioni sulla possibile deduzione dal reddito sottoposto a tassazione delle perdite subite, ma questa è un’altra storia.
Qualcosa dell’argomentazione rimane, anche, se la perdita portasse l’investitore in una fascia di reddito inferiore per la quale lo sconto (e l’imposizione fiscale) sarebbe a una aliquota inferiore. Ci sarebbe allora una qualche riduzione del ritorno netto dell’investimento se confrontato con la perdita potenziale netta. Ma questo si applicherebbe solo a investimenti così grandi da minacciare di impoverire l’investitore nel caso di un fallimento. Fu proprio al fine di affrontare questo problema che le società furono inventate, per rendere possibile a molti individui di mettersi insieme e affrontare imprese rischiose senza che una sola persona dovesse arrischiare tutte le sue fortune in una singola avventura.
A parte gli investimenti societari però, questo problema sarebbe quasi interamente risolto se l’aliquota massima dell’imposta sui redditi fosse raggiunta a un livello relativamente basso, ad esempio a 25.000 $ all’anno (basso, cioè, dal punto di vista degli uomini ricchi che si suppone siano la fonte del capitale di rischio).
Anche se tutto il reddito oltre la soglia dei 25.000 $ fosse tassato al 90% non ci sarebbe alcuno scoraggiamento dell’investimento di una parte qualsiasi del reddito oltre questo livello. Certo, il ritorno netto dopo il pagamento delle imposte sarebbe solo un decimo del tasso di interesse nominale ma anche la somma messa a rischio dall’investitore sarebbe solo un decimo del capitale effettivamente investito e perciò il rendimento netto sul capitale davvero messo a rischio dall’investitore rimarrebbe invariato.

[3.2]
In secondo luogo, questa argomentazione contro la spesa in deficit durante una depressione economica sarebbe indifendibile anche se il danno arrecato dal debito fosse così grande come è stato suggerito.
Deve essere ricordato che la spesa del governo incrementa il reddito nazionale reale in termini di beni e servizi di diverse volte l’ammontare speso dal governo, e che il peso del debito non è misurato dall’ammontare degli interessi pagati ma solo dai problemi che comporta l’attività di trasferimento del denaro dai contribuenti ai possessori dei titoli di Stato.
Perciò opporsi alla spesa in deficit è come sostenere che se ti viene offerto un lavoro quando sei senza a condizione che ti impegni a pagare a tua moglie degli interessi su una parte del denaro guadagnato (o che tua moglie li paghi a te) è più saggio rimanere disoccupato perché nel tempo accumuleresti un debito molto elevato nei confronti di tua moglie (o lei lo accumulerebbe nei tuoi confronti) e questo potrebbe causare delle difficoltà al matrimonio in futuro.
Anche se gli interessi pagati fossero davvero persi per la società, invece che essere semplicemente trasferiti all’interno della società da alcuni individui ad altri, essi sarebbero comunque molto inferiori alla perdita che si avrebbe consentendo alla disoccupazione di continuare.
Quella perdita sarebbe diverse volte maggiore del capitale sul quale questi interessi dovrebbero essere pagati.

[3.3]
In terzo luogo, non c’è alcuna buona ragione per supporre che il governo dovrebbe raccogliere con la tassazione corrente tutto il denaro necessario per il pagamento degli interessi sul debito pubblico.
Abbiamo visto che la Finanza Funzionale consente l’uso dello strumento della tassazione solo quando l’effetto diretto della tassazione è nell’interesse della società, come quando serve a prevenire una eccessiva spesa o investimenti eccessivi che provocherebbero inflazione.
Se le tasse, imposte per prevenire l’inflazione, non generano entrate sufficienti, gli interessi sul debito pubblico possono essere coperti o con un maggiore indebitamento o con la stampa del denaro. Non c’è alcun rischio in questo perché se ci fosse un rischio di inflazione allora con le imposte si dovrebbe raccogliere un importo maggiore.
Questo significa che la dimensione assoluta del debito pubblico non ha alcuna importanza, e che qualunque sia l’ammontare degli interessi che devono essere pagati, questi non costituiscono affatto un peso per la società nel suo complesso.
Una esagerazione completamente fantasiosa può illustrare questo punto.
Si supponga che il debito pubblico raggiunga la fantastica cifra di diecimila miliardi di dollari (cioè dieci trilioni, 10.000.000.000.000 $) così che gli interessi da pagare su di esso siano di 300 miliardi di dollari all’anno [3%]. Si supponga che il reddito nazionale reale in termini di beni e servizi che possono essere prodotti dall’economia in una condizione di pieno impiego sia di 150 miliardi di dollari. Gli interessi da soli, quindi, sarebbero pari a due volte il reddito nazionale reale.
Non c’é dubbio che un debito pubblico di queste dimensioni sarebbe giudicato “non ragionevole”. Ma anche in questo caso di fantasia, il pagamento degli interessi non costituisce un peso per la società.
Anche se il reddito reale è di soli 150 miliardi di dollari, il redito nominale è di 450 miliardi, 150 miliardi derivanti dalla produzione di beni e servizi e 300 miliardi derivanti dal possesso dei titoli di Stato che costituiscono il debito pubblico.
Di questi redditi monetari pari a 450 miliardi, 300 miliardi devono essere raccolti con le tasse dal governo per il pagamento degli interessi (se 10 trilioni è il limite stabilito per legge al debito pubblico) ma dopo il versamento di queste tasse, nelle mani dei contribuenti rimangono 150 miliardi, e questi sono sufficienti per acquistare tutti i beni e i servizi che l’economia può produrre.
Davvero non sarebbe affatto un bene per il pubblico avere più denaro a disposizione dopo il pagamento delle imposte, perché se spendesse più di 150 miliardi di dollari non farebbe altro che semplicemente provocare un rialzo dei prezzi dei beni acquistati.
Il pubblico non potrebbe ottenere più beni o servizi da consumare di quelli che il paese è in grado di produrre.
Certamente, questo esempio non deve essere inteso come l’ammissione del fatto che sia in qualche modo probabile che un debito di questa dimensione possa essere il risultato dell’applicazione della Finanza Funzionale.
Come verrà mostrato più sotto, c’é una naturale tendenza del debito pubblico ad arrestare la sua crescita molto prima che si avvicini anche lontanamente a quella cifra astronomica con la quale abbiamo giocato.
L’assunzione infondata che gli interessi correnti sul debito pubblico debbano essere raccolti con la tassazione nasce dall’idea che il debito debba essere mantenuto in un “ragionevole” o “sostenibile” rapporto rispetto al reddito (qualunque questo rapporto possa essere).
Se questa limitazione è accettata, la possibilità di indebitarsi per pagare gli interessi è eliminata non appena il limite della “ragionevolezza” è raggiunto, e se noi escludiamo anche, come un’idea indecente, la possibilità di stampare il denaro necessario, allora rimane solo la possibilità di raccogliere con la tassazione il denaro necessario per il pagamento degli interessi sul debito pubblico.
Fortunatamente non c’è necessità di assumere queste limitazioni finché la Finanza Funzionale sta in guardia contro l’inflazione, perché è la paura dell’inflazione che è l’unica base razionale per un sospetto contro lo stampare moneta.

[3.4]
Infine, non c’è alcuna ragione per assumere che, come risultato della continua applicazione della Finanza Funzionale per mantenere il pieno impiego, il governo debba indebitarsi sempre di più ed accrescere il debito pubblico. Ci sono diverse ragioni per escludere questa eventualità.

[3.4.1]
In primo luogo, il pieno impiego può essere mantenuto con la creazione della moneta necessaria a questo scopo, e questo non incrementa affatto il debito pubblico. E’ probabilmente consigliabile, comunque, permettere al debito e alla quantità di moneta di crescere insieme con un certo equilibrio, finché l’uno o l’altro devono crescere.

[3.4.2]
In secondo luogo, poiché uno dei più grandi deterrenti contro gli investimenti privati è la paura che la depressione arriverà prima che l’investimento sia ripagato, la garanzia di un permanente pieno impiego renderà gli investimenti privati molto più attraenti, una volta che gli investitori privati abbiano superato i loro sospetti nei confronti della nuova procedura. Un livello più elevato degli investimenti privati diminuirà la necessità della spesa in deficit.

[3.4.3]
In terzo luogo, al crescere del debito pubblico, e con esso al crescere della ricchezza privata, ci sarà un gettito crescente dalle imposte sui redditi più elevati e di successione, anche se le aliquote fiscali rimarranno inalterate.
Il pagamento di queste imposte per un importo più elevato non comporta una riduzione della spesa da parte dei contribuenti. Perciò il governo non deve usare questi proventi per mantenere il livello richiesto della spesa, e può utilizzarli per pagare gli interessi sul debito pubblico.

[3.4.4]
In quarto luogo, mentre cresce, il debito pubblico agisce come una forza che si autoequilibra, riducendo gradualmente la necessità di una sua ulteriore crescita e raggiungendo infine un livello di equilibrio al quale la sua tendenza a crescere termina del tutto.
Maggiore è il debito pubblico e maggiore è la ricchezza privata.
La ragione di questo è che semplicemente per ogni dollaro di debito dovuto dal governo c’è un creditore privato che possiede le obbligazioni del governo (magari attraverso una società della quale possiede delle azioni) e che considera queste obbligazioni come parte della sua ricchezza privata.
Maggiore è la ricchezza privata e minore è l’incentivo ad incrementarla risparmiando sul reddito corrente.
Dato che il risparmio corrente è scoraggiato così da una grande accumulazione di risparmi passati, la spesa aumenta in rapporto al reddito corrente (dal momento che la spesa è l’unica alternativa al risparmio). Questo incremento della spesa privata rende meno necessario che il governo impieghi la spesa in deficit per mantenere la spesa totale al livello che garantisce il pieno impiego.
Quando il debito pubblico è diventato così grande che la spesa privata è sufficiente a fornire quella spesa totale necessaria per il pieno impiego, non c’è più alcuna necessità che il governo spenda in deficit, il bilancio è in pareggio e il debito pubblico automaticamente smette di crescere.
La dimensione di questo livello di equilibrio del debito dipende da molti fattori. Si può solo ipotizzare, e nella maniera più rozza. La mia stima è che esso sia tra 100 e 300 miliardi di dollari. Dato che il livello del debito pubblico è un risultato e non un principio della Finanza Funzionale, l’ampiezza di questa stima non è importante; non è necessaria per l’applicazione delle leggi della Finanza Funzionale.

[3.4.5]
In quinto luogo, se per una ragione qualsiasi il governo non desidera vedere crescere troppo la ricchezza privata (sia nella forma di titoli di Stato che in altre forme) può tenerla sotto controllo tassando le persone ricche invece che prendendo a prestito da loro, nei suoi programmi di finanziamento della spesa diretta a mantenere il pieno impiego.
Le persone ricche non ridurranno la loro spesa in maniera significativa e così gli effetti sull’economia, a parte un debito inferiore, saranno gli stessi che se il denaro fosse stato preso in prestito da loro. Con questi strumenti il debito può essere ridotto a qualsiasi livello si desideri e mantenuto a quel livello.

[3.5]
Le risposte alle argomentazioni contro la spesa in deficit possono quindi essere riassunte come segue:
-         Il debito pubblico non deve necessariamente continuare a crescere;
-         Anche se il debito pubblico cresce, gli interessi che devono essere pagati su di esso non devono necessariamente essere coperti ricorrendo alla tassazione;
-         Anche se gli interessi pagati sul debito pubblico sono coperti ricorrendo alla tassazione, queste imposte costituiscono l’interesse su solo una piccola parte dei benefici generati dalla spesa del governo, e gli interessi non sono persi per la nazione ma sono semplicemente trasferiti dai contribuenti ai possessori di titoli.
-         Aliquote elevate delle imposte sul reddito non devono scoraggiare gli investimenti perché deduzioni appropriate delle perdite sugli investimenti possono diminuire il capitale davvero messo a rischio dall’investitore nella stessa proporzione nella quale il suo reddito netto proveniente dall’investimento è ridotto dalla tassazione.

IV
Se le proposizioni della Finanza Funzionale fossero state avanzate senza il timore che apparissero troppo logiche, critiche simili a quelle discusse sopra non sarebbero oggi così popolari come invece sono, e non sarebbe necessario difendere la Finanza Funzionale dai suoi amici.
Un compito veramente imbarazzante invece deriva dalla pretesa che la Finanza Funzionale (o la spesa in deficit [deficit spending o deficit financing] come è spesso ma in modo insoddisfacente chiamata) sia soprattutto uno strumento di difesa dell’iniziativa privata.
Nel tentativo di guadagnare popolarità alla Finanza Funzionale, le sono stati dati altri nomi e si è dichiarato che fosse essenzialmente diretta a salvare l’impresa privata. Io stesso ho compiuto simili peccati nei miei scritti precedenti identificandola con la democrazia 4, in questo modo unendomi all’esercito dei venditori che hanno avvolto i loro articoli nella bandiera nazionale e legato qualsiasi cosa avessero da piazzare alla vittoria o al morale.
La Finanza Funzionale non è riferita in modo particolare alla democrazia o all’impresa privata. E’ applicabile a una società comunista esattamente come a una società fascista o a una società democratica. E’ applicabile a qualsiasi società nella quale il denaro sia utilizzato come un importante elemento nel meccanismo economico
La Finanza Funzionale consiste nel semplice principio di abbandonare i nostri preconcetti su cosa sia appropriato o solido o tradizionale, su quello “che deve essere fatto”, e di invece considerare le funzioni svolte nell’economia dal governo con la tassazione, con la sua spesa, con il prendere a prestito e il dare in prestito. Significa utilizzare tutti questi strumenti semplicemente come strumenti e non come poteri magici che provocheranno misteriosi danni se vengono manipolati dalle persone sbagliate o senza il dovuto rispetto per la tradizione.
Come ogni altro meccanismo, la Finanza Funzionale funziona indipendentemente da chi ne muove le leve.
La sua relazione con la democrazia e la libera impresa consiste semplicemente nel fatto che se le persone che credono in esse non faranno uso della Finanza Funzionale non avranno alcuna possibilità di resistere nel lungo periodo contro altri che invece la impiegheranno.

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Note:
1 Che il governo prenda a prestito denaro dalle banche, con condizioni che consentano alle banche di emettere nuova moneta scritturale sulla base dei titoli di Stato aggiuntivi posseduti, deve essere considerato per i nostri scopi come il creare moneta. In effetti le banche agiscono come agenti del governo nell’emettere moneta scritturale o bancaria.
2 Un eccellente esempio di ciò è il persuasivo articolo di John T. Flynn pubblicato dallo Harper’s Magazine del luglio 1942.
3 Flynn, ibid.
4 In “Total Democracy and Full Employment”, Social Change (May 1941).


[FINE]


* Ho suddiviso il testo in paragrafi ed evidenziato in grassetto alcune frasi per una migliore leggibilità.
Le sottolineature invece evidenziano l’enfasi posta dall’Autore su alcune parole.