Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

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venerdì 25 luglio 2014

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Riforma e stabilizzazione del capitalismo. Ultraimperialismo e conformismo




Michał Kalecki e Tadeusz Kowalik

Osservazioni sulla “riforma cruciale”

Politica ed economia, n. 2-3, Giugno 1971. pp.189-196.



Riforma e stabilizzazione del capitalismo.                Ultraimperialismo e conformismo

[ A cura di Giorgio D.M. * ]



1.
[Riforma e stabilizzazione del sistema capitalistico]

Nella letteratura socialista il problema delle riforme nel capitalismo è posto di solito nei seguenti termini: come conciliare la lotta per le riforme con la lotta rivoluzionaria, ossia con la lotta per il cambiamento dell’intero sistema sociale, come condurre la lotta per il conseguimento di obiettivi prossimi e parziali in modo che questa, anziché indebolire, venga a rafforzare il potenziale rivoluzionario dei movimenti di massa.

Vogliamo esaminare qui l’aspetto estremo di tale problema che, a quanto ci sembra, non è stato finora sufficientemente analizzato.
Supponiamo che una forte pressione delle masse conduca, a dispetto della classe governante, ad una riforma così radicale del sistema, che pur senza abbattere gli esistenti rapporti di produzione venga ad aprire nuove prospettive per un ulteriore sviluppo delle forze produttive.
Si viene allora a creare una situazione paradossale: la “riforma cruciale” imposta alla classe governante può portare ad una stabilizzazione, almeno temporanea, del sistema.
Come dimostreremo più sotto, tale situazione si verifica appunto nel capitalismo contemporaneo.

2.
[Errori economici cardinali del riformismo di Eduard Bernstein]

Occorre rilevare fin d’ora che il problema preso qui in esame non ha niente a che fare con il riformismo di Eduard Bernstein.
L’autore delle Premesse del socialismo [1] dimostrava, mediante un’interpretazione unilaterale di alcuni nuovi fenomeni economici e sociali, che lo sviluppo economico spontaneo nonché le graduali riforme sociali conducono alla trasformazione delle società capitalistiche mature in società socialiste.
Il partito doveva avere il coraggio di riconoscere apertamente di essere il partito delle riforme e non un partito rivoluzionario.

Dal punto di vista economico Bernstein ha commesso due errori cardinali.
In primo luogo egli non scorgeva l’importanza capitale della contraddizione fra produzione e sbocchi nel sistema capitalistico, riducendo la questione delle crisi provocate dalla sovrapproduzione ad una sproporzione nello sviluppo dei singoli settori della produzione.
Egli riteneva pertanto che i cartelli e i trust nonché le organizzazioni finanziarie e creditizie potessero liquidare l’anarchia della produzione su scala sociale.
In secondo luogo Bernstein traeva delle conclusioni eccessive dal fenomeno dell’influenza limitatrice esercitata dai sindacati e dalle cooperative di consumo sui profitti dei capitalisti.
Non solo egli negava la teoria, riportata frequentemente dalla letteratura socialista di allora, della “miseria crescente” (e in questo aveva indubbiamente ragione), ma cercava inoltre di dimostrare che, per effetto della pressione delle organizzazioni sopraccitate, i profitti venivano gradualmente a trasformarsi in retribuzioni dei “managers”.
Ciò sta a testimoniare che Bernstein non prendeva in considerazione due problemi fondamentali dell’economia capitalistica:
a)       La riduzione del profitto ad un semplice “salario di direzione” sotto la pressione delle paghe nominali degli operai è cosa assolutamente inverosimile (se si tiene conto degli effetti che ha sui prezzi l’aumento delle paghe);
b)       La scomparsa dei profitti “netti” condurrebbe ad un ristagno economico, dato che i profitti non distribuiti delle imprese costituiscono uno dei principali incentivi per le decisioni di investimento.

3. 
[Il cartello generale di Rudolf Hilferding]

In opposizione alla concezione di Bernstein meritano un’attenzione particolare dal punto di vista del problema da noi posto le vedute di alcuni suoi avversari, soprattutto quelle di Rudolf Hilferding e di Rosa Luxemburg.

Potrebbe sembrare che le vedute di Hilferding non si discostino molto dalla concezione di Bernstein.
Anche Hilferding, infatti, attribuiva le crisi ad una sproporzione nello sviluppo dei singoli settori della produzione e ammetteva la possibilità di liquidare le crisi attraverso “un’organizzazione” del capitalismo.

Tuttavia le divergenze sono ben più importanti delle affinità.
In particolare, la critica che Hilferding muove a Bernstein ha un’importanza fondamentale.
L’autore del Capitale finanziario dimostrava che
“la produzione regolata e la produzione anarchica non erano delle contraddizioni quantitative, cosicché, introducendo una sempre maggiore regolazione, si sarebbe potuto passare dall’anarchia all’organizzazione cosciente […].
Chi ritiene che i cartelli possano liquidare le crisi, dimostra unicamente di non capire affatto le cause delle crisi e il loro rapporto con il sistema capitalistico. [2]

L’anarchia e le crisi economiche potrebbero essere liquidate soltanto da un “cartello generale”, in cui la produzione fosse consapevolmente regolata da un’istituzione centrale ed i prezzi fossero solo uno strumento di distribuzione del prodotto globale.
Per di più Hilferding riteneva che il passaggio dai cartelli e dai trust sparpagliati a un cartello generale sarebbe un sovvertimento che potrebbe avvenire “soltanto in modo violento mediante la subordinazione di tutta la produzione a un controllo cosciente”.
In questa concezione, non elaborata del resto con maggiore precisione, compare, forse per la prima volta nella storia delle dottrine, un elemento affine alla tesi sulla ”riforma cruciale”, benché non sia chiaro se Hilferding attribuisse alla pressione delle masse un certo ruolo, almeno indiretto.

Sviluppando la visione del “cartello generale”, Hilferding sottolineava di non credere nella stabilità di un regime rispondente a tale visione.
Egli riteneva, è vero, che il “cartello generale” avrebbe potuto risolvere le fondamentali contraddizioni economiche del capitalismo ma esprimeva la convinzione che tale regime avrebbe dovuto fallire per ragioni politico-sociali, vale a dire perché “spingerebbe i contrasti degli interessi ai limiti estremi”. [3]
Purtroppo anche questa convinzione è stata espressa da Hilferding in termini molto generali ed è perciò difficile discuterla in modo preciso.
Interessante, invece, è la sua analisi delle contraddizioni internazionali che si verificano fra le potenza imperialistiche, nonché delle tendenze che conducono a conflitti bellici fra i “cartelli generali” nazionali.
In tali conflitti internazionali, accompagnati da forti contrasti di classe nell’ambito di detti cartelli, Hilferding vedeva la prospettiva di una rivoluzione socialista.

[Il feudalesimo industriale di Ludwik Krzywicki]

Una certa anticipazione alla visione che Hilferding aveva del cartello generale, la troviamo assai prima nei lavori di un sociologo polacco, Ludwik Krzywicki.
Questi vedeva delinearsi forti tendenza verso un “feudalesimo industriale”, ossia verso la visione di un “paese-latifondo”, caratterizzato da una struttura gerarchica e governato da una esigua oligarchia finanziaria.
Krzywicki associava tale visione a un simultaneo processo di conformismo generalizzato delle classi sociali e quindi anche della classe operaia, che, secondo lui, avrebbe potuto trarre da detto “latifondo” dei vantaggi materiali.
Egli attribuiva pertanto al regime del feudalesimo industriale una notevole stabilità, anzi vedeva in esso, a quanto pare, la minaccia di una definitiva alternativa al socialismo. [4]

4.
[I mercati esterni al capitalismo di Rosa Luxemburg]

Le vedute di Rosa Luxemburg differiscono sostanzialmente dalla concezione di Hilferding, se non altro per il fatto che, secondo la Luxemburg, la contraddizione fondamentale del capitalismo non consisteva nella sproporzione e nello sviluppo dei singoli settori, ma nella divergenza tra produzione e sbocchi.

Problema centrale nell’analisi della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione era, sempre secondo la Luxemburg, la questione concernente la realizzazione sul mercato delle produzioni in espansione. [5]
Assumendo una posizione estremista, ella riteneva che condizione necessaria di tale realizzazione era l’esistenza di sbocchi esterni al sistema capitalistico considerato nel suo complesso; doveva essere questo un fattore, il quale, finché non si fosse esaurito, con l’estensione al mondo intero della produzione capitalistica, avrebbe permesso un ulteriore processo di sviluppo economico nel quadro del capitalismo.
E’ vero che tale punto di vista è esagerato; ma l’aver messo in evidenza il ruolo dei mercati esterni nello sviluppo del capitalismo ha un’importanza effettiva, anche nel contesto del problema da noi esaminato.
Conseguenza logica di tale concezione delle contraddizioni del capitalismo era la giusta convinzione di Rosa Luxemburg che lo sviluppo delle nuove forme organizzative del capitalismo (cartelli e trust) non solo non viene ad attenuare le contraddizioni fra produzione e smercio ma può anche aggravarle. [6]

Fino a qui non vediamo alcuna convergenza di tali vedute con la concezione di Hilferding.
Tuttavia esiste nella teoria economica di Rosa Luxemburg un indirizzo, non rilevato da lei in particolar modo, che, come vedremo, è in certo qual senso parallelo alla teoria di Hilferding.
Per “mercati esterni al capitalismo” Rosa Luxemburg intendeva, fra gli altri, quello costituito dagli acquisti statali, e in particolare dalle commesse per gli armamenti. [7]
Oggi sappiamo bene che gli armamenti, nella misura nella quale sono finanziati con mezzi che non riducono il consumo degli operai o le imposte di cui sono gravati i capitalisti, contribuiscono alla realizzazione dei profitti.
(Nel caso dei prestiti la realizzazione dei profitti avviene in seguito alla vendita delle eccedenze di merci, eccedenze vendute dai capitalisti grazie all’indebitamento verso di essi dello Stato. Nel secondo caso i profitti “supplementari”, così ottenuti, vengono riscossi mediante le imposte.)

E’ proprio in questo punto che possiamo scorgere, malgrado le profonde differenze fra le vedute di Hilferding e quelle di Rosa Luxemburg, un certo parallelismo delle loro concezioni.
Infatti, gli acquisti statali in questione, se effettuati su scala sufficiente, possono almeno in via di principio superare la contraddizione fra produzione e sbocchi.
L’adozione sistematica di tale mezzo porterebbe alla formazione di un conglomerato di gruppi e di trust, in cui si manterrebbe un alto grado di sfruttamento dell’apparato produttivo e di impiego della manodopera.
Il sistema dell’interventismo statale verrebbe a sostituire in questo modo l’istituzione della pianificazione centrale implicita nel “cartello generale”.

Similmente a Hilferding, Rosa Luxemburg collegava strettamente la rivoluzione socialista (e più precisamente le rivoluzioni socialiste) con la prevista serie di guerre imperialistiche.
In seguito alla concentrazione delle economie esterne al capitalismo si sarebbe acuita la rivalità per i mercati, su quali collocare merci rispondenti all’espansione della capacità produttiva; e ciò è sempre fonte di conflitti bellici.
Gli armamenti, che facilitano la realizzazione della crescente produzione, favoriscono pure lo scoppio delle guerre.
Queste, a loro volta, portano al rovesciamento rivoluzionario del sistema capitalistico.

Occorre rilevare che l’associare la rivoluzione socialista alle guerre imperialistiche è pure la quintessenza della strategia e della teoria rivoluzionaria di Lenin.

5.
[La riforma “cruciale” del capitalismo]

Le concezioni sopra esposte concernenti l’evoluzione del sistema capitalistico, nonché le prospettive di un suo eventuale collasso, sorsero prima dell’anno 1914, allorché, come spiritosamente è stato detto, terminò definitivamente il secolo diciannovesimo.
Il mezzo secolo che ci divide dallo scoppio della prima guerra mondiale non ha confermato in tutta la sua estensione nessuna delle previsioni ed ipotesi presentate ai punti 3 e 4.
Tuttavia nella teoria sociale ed economica di quest’epoca troviamo molti fenomeni e tendenze che costituiscono la conferma parziale di ciascuna di esse.

All’origine della prima guerra mondiale vi era la lotta per gli sbocchi, per una nuova divisione del mondo.
L’economia nazionale che lavorava a scopi bellici fu sottoposta , soprattutto in Germania, a certi controlli statali.
Tuttavia, a parte il settore che lavorava direttamente per il fronte, non fu adottata su scala più vasta una pianificazione centrale della produzione.
L’intervento dell’apparato statale nell’economia si concretò soprattutto in un’estesa, minuta regolamentazione dei beni di prima necessità.

L’anno 1917 si aprì con una serie di moti rivoluzionari di massa.
Ne uscì vittoriosa soltanto la rivoluzione russa, che ebbe luogo in un paese arretrato, dalla questione agraria non risolta e dilaniato da profondi conflitti di liberazione nazionale.
I paesi industriali sviluppati conservarono invece immutata la struttura del capitalismo monopolistico.
Tranne la conquista da parte della classe operaia della giornata lavorativa di otto ore nonché, in molti paesi, di varie forme di previdenza sociale, il capitalismo degli anni venti, per quanto riguarda il suo funzionamento, non differiva sostanzialmente da quello prebellico.

Una svolta si ebbe con la crisi degli anni 1929-1933, crisi che scosse le basi strutturali del capitalismo.
Per contrasto, le deficienze di tale struttura erano messe in evidenza dall’economia dell’Unione Sovietica, che allora si sviluppava ad un saggio sostenuto.
Ebbe così inizio il periodo della riforma “cruciale” del capitalismo, specialmente nei due principali paesi capitalistici, maggiormente toccati dalla crisi: la Germania e gli Stati Uniti.
Avversato agli inizi dalla resistenza assai decisa dell’alta borghesia, lo Stato capitalistico si accinse a salvare le basi strutturali minacciate dalla disoccupazione.
Caratteristico, però, il fatto che tale programma di salvataggio dell’economia capitalistica consisteva non in un tentativo di regolarla attraverso una pianificazione, bensì nel sostenere la domanda attraverso l’intervento statale e nel promuovere un certo riassorbimento della disoccupazione.
Nella Germania nazista il sostegno della congiuntura assunse quasi subito un carattere militare.

E’ lecito affermare che, durante la seconda guerra mondiale, l’economia bellica dei paesi europei capitalistici si presentava in misura rilevante sotto forma di capitalismo a direzione centrale.
A tale fatto aveva contribuito anzitutto il carattere totalitario della guerra, dovuto principalmente alla tecnologia bellica contemporanea.
Tuttavia, nel dopoguerra, e dopo un breve periodo di riconversione, nei paesi capitalistici l’accentramento economico si è notevolmente indebolito.
Si è invece consolidato il sistema del capitalismo dei grandi gruppi industriali, che dispongono pure di sbocchi forniti dagli acquisti statali – principalmente dalle commesse belliche – i quali permettono la realizzazione dei profitti accumulati.
Il peso assoluto e relativo delle spese statali nella domanda complessiva di beni e servizi è aumentato molto notevolmente in confronto al periodo interbellico.
Inoltre, in alcuni paesi europei capitalistici lo Stato influisce sull’economia attraverso l’industria nazionalizzata.
In alcuni di questi paesi è aumentato pure l’intervento statale nella struttura settoriale e regionale della produzione attraverso sussidi di vario tipo, la differenziazione delle imposte e la politica di credito.

La seconda guerra mondiale ha affrettato il processo della riforma “cruciale”.
Per quanto riguarda la capacità di assorbimento dei mercati l’interventismo statale permette di ridurre la disoccupazione ad una percentuale molto bassa, e quindi di adottare in pratica un principio assai vicino alla parola d’ordine lanciata dalla rivoluzione del 1848: “il diritto al lavoro” (in alcuni principali paesi capitalistici ciò ha trovato espressione in documenti ufficiali).
Tale stato di cose – insieme con un notevole ampliamento della previdenza sociale – ha portato ad una certa metamorfosi della classe operaia, che nei riguardi del capitalismo segue generalmente la linea del “riformismo radicale”.
L’elevato grado di occupazione nei principali paesi capitalistici assicura in generale agli operai un discreto livello di entrare reali.
Dato l’alto e stabile – almeno per un lungo periodo – grado di occupazione, i salari reali degli operai sono aumentati di pari passo all’aumentare del rendimento del lavoro con una conseguente relativa stabilità della partecipazione dei lavoratori al reddito nazionale (sebbene in qualche paese in certi periodi tale partecipazione sia diminuita piuttosto che aumentata).

Questo stato di cose ha portato ad un notevole affievolimento dell’atmosfera ostile al capitalismo. [8]

Si arriva persino al punto che in alcuni paesi gli operai conformisti desistono dal lottare per la riduzione degli armamenti (alla qual cosa contribuisce del resto la consapevolezza che appunto da questi dipende l’alto grado di occupazione).
Invece, almeno dopo un certo periodo di funzionamento del “neocapitalismo”, gli operai si fanno estremamente sensibili all’osservanza delle sopraindicate “regole del gioco”  (compresa la questione concernente la partecipazione al reddito nazionale).
Allorché pertanto si verificano per varie ragioni scostamenti da tali regole, le reazioni talvolta si acuiscono fortemente, dando sfogo al latente odio di classe.

Il capitalismo contemporaneo viene spesso definito come “guidato”.
Talvolta si parla persino dello sviluppo della pianificazione centrale nel capitalismo.
Ciò non sembra esatto.
Il fatto che un paese sia governato da un conglomerato di gruppi e che tale stato di cose assicuri un livello relativamente alto di utilizzazione dell’apparato produttivo e della forza-lavoro non sta a significare – come risulta dalle nostre precedenti considerazioni -  che si tratta di una pianificazione centrale.
L’intervento statale può consistere e spesso consiste in manipolazioni del bilancio pubblico: acquisti statali, politica delle imposte.

Nel breve periodo, la politica di bilancio viene modificata per indebolire la forza contrattuale e politica della classe operaia accrescendo, di tanto in tanto, la disoccupazione, mentre l’indirizzo di fondo di tale politica dipende soprattutto dalla lotta fra i vari gruppi di capitalisti.
L’attività statale però, di regola, ha carattere integrativo, serve cioè a colmare le deficienze della domanda, a creare possibilità supplementari per la realizzazione dei profitti.
Invece, nel regime socialista fondato sulla pianificazione centrale, gli “sbocchi” sono, per così dire, automaticamente assicurati dal piano.
Dopo aver fissato nel piano la divisione del reddito nazionale in quote per gli investimenti e il consumo, fra i prezzi dei beni di consumo e i salari viene fissata una relaziona tale da creare una domanda per detti beni pari alla loro offerta pianificata.

Pertanto il funzionamento del cartello generale di Hilferding differirebbe in modo sostanziale dall’interventismo statale e, in particolare, dalla politica di bilancio.
Ma per quanto concerne lo sfruttamento delle risorse, in particolare, il grado di occupazione, i metodi rispondenti alla teoria dei mercati “esterni” o “supplementari” di Rosa Luxemburg danno risultati paralleli alla visione di Hilferding.
Occorre soprattutto rilevare che si sta delineando anche un fenomeno simile al “cartello generale”: negli Stati Uniti sta emergendo un gigantesco complesso militare-industriale che – unitamente alla recente conquista del cosmo – ha un ruolo di primo piano nell’insieme dei rapporti economici e politici.

6.
[L’economia mista nei paesi arretrati]

Dobbiamo sottolineare che dopo la seconda guerra mondiale è emerso anche un gruppo di paesi arretrati che, per avviare la loro industrializzazione, si avvalgono dell’esperienza dei paesi socialisti.
Questi paesi non possono in nessun caso essere considerati come socialisti, benché per tali intendano passare.
Si tratta delle vecchie colonie che in seguito alla guerra mondiale hanno ottenuto l’indipendenza e hanno basato il proprio sviluppo sulla cosiddetta economia mista, economia caratterizzata da una notevole partecipazione dello Stato nella grande industria, nei trasporti e nelle banche, e soprattutto negli investimenti produttivi.
Di solito le riforme agrarie che hanno avuto luogo in questi paesi erano più radicali nei progetti originari che non nella loro attuazione.
Si è formato in tali paesi un “regime intermedio”, il cui perno è il settore statale e la cui base sociale è costituita dalla piccola borghesia e dai contadini ricchi. [9]
Esistono inoltre in questi paesi strati antagonistici nei confronti di tale regime: da un lato, i resti del feudalesimo, del capitale straniero, nonché di un ragguardevole capitale nazionale privato; dall’altro lato, i piccoli agricoltori, gli operai delle piccole officine e numerosi gruppi di popolazione suburbana che non hanno un’occupazione fissa.
Benché i piani di sviluppo di tali paesi siano arditi la loro realizzazione è generalmente ben lontana dalle intenzioni.
In via di massima possiamo affermare che anche in questi paesi ha avuto luogo il processo della “riforma cruciale”, con la differenza che qui esso ha assunto altre forme e il grado di stabilizzazione è di regola assai inferiore che nei paesi del “neocapitalismo”.

7.
[La coesistenza pacifica e le guerre nei paesi del terzo mondo]

In seguito alla seconda guerra mondiale il regime socialista si è pure esteso notevolmente a molti altri paesi, ma anche questi, in genere, ad un livello piuttosto basso di industrializzazione.
Dal punto di vista della situazione internazionale il risultato più importante dell’ultima guerra è stato l’emergere di due superpotenze: una nel campo dei paesi del capitalismo sviluppato, l’altra nel campo socialista.
I paesi occidentali sono subordinati militarmente agli Stati Uniti.
I rapporti reciproci fra i paesi del “neocapitalismo” sono determinati in misura rilevante dall’antagonismo nei confronti del blocco dei paesi socialisti.
Tenendo conto sia di tale fatto che degli stretti collegamenti economici (gruppi industriali multinazionali, soprattutto di origine americana, Mercato Europeo Comune) dobbiamo ritenere poco probabili i conflitti armati in seno al capitalismo contemporaneo.
Essi presenterebbero per il sistema capitalistico un pericolo quasi eguale all’eventuale ripetersi della grande crisi economica.
Gli armamenti nei paesi “neocapitalistici” sono anzitutto orientati verso un conflitto con l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti.
Data però la convinzione sempre più generale che la guerra “fra i due blocchi” porterebbe all’uso di armi non convenzionali e pertanto all’annientamento totale, gli armamenti in tale senso hanno più che altro il carattere di “una dimostrazione di forza”.
E lo stesso carattere hanno prevalentemente anche i voli cosmici: si tratta qui di una esibizione della destrezza tecnico-militare.

Tale stato di cose ha trovato la propria espressione teorica nella dottrina della coesistenza pacifica, formulata dal blocco socialista, dottrina che poggia su due pilastri:
a)       certe scosse sociali, cui vanno soggetti i paesi del “neocapitalismo” non mettono in pericolo né attualmente né in un prossimo avvenire l’esistenza stessa di tale sistema;
b)       la guerra termonucleare minaccerebbe un annientamento totale.

In effetti l’esperienza di molti anni ha dimostrato che le guerre attuali sono connesse con i problemi del cosiddetto “terzo mondo”.
La più tipica è la “spedizione punitiva” degli Stati Uniti nel Vietnam, il cui scopo era di acquisire una “sfera di influenza” nell’Estremo Oriente, ma più ancora di dare un esempio terrificante del modo di lottare contro le rivolte contadine (nel medesimo tempo era questa la risultante delle lotte di diversi gruppi capitalistici americani per l’indirizzo di fondo della politica congiunturale, di cui di è detto sopra).
Guerre di questo tipo non possono provocare nei paesi del neocapitalismo un rovesciamento rivoluzionario, perché non hanno un carattere totalitario.

[L’intesa ultraimperialistica di Kautsky]

Le considerazioni sopra esposte conducono alla conclusione che la teoria della rivoluzione socialista in seguito alle guerre imperialistiche ha oggi in misura rilevante, ad eccezione dei paesi del terzo mondo, un carattere storico.
In questo senso (e solo in questo senso) l’ipotesi di Karol Kautsky, cha apparve utopistica e pacifista quando fu formulata, di un’intesa ultraimperialistica dei paesi capitalistici [10] è oggi più vicina alla “vita” che non la concezione di Rudolf Hilferding e di Rosa Luxemburg, opposta a tale tesi.

[Stabilizzazione del capitalismo e conformismo]

Il presente articolo non mira a proporre previsioni di lungo periodo; è piuttosto l’espressione del desiderio di comprendere lo stato delle cose nel momento attuale e possibilmente le tendenza che si manifesteranno nel prossimo futuro.
La relativa stabilizzazione del capitalismo riformato presuppone un alto grado di conformismo della società.

E’ lecito esprimere, con cautela, l’opinione che i recenti movimenti nelle università sembrano preannunciare un decrescere dei successi finora riportati dall’apparato borghese del potere nel manipolare e condizionare le generazioni che entrano sulla scienza della storia.
La portata di tale fenomeno è maggiore in quanto, per effetto del rapido progresso della scienza e della tecnica, l’”intellighenzia” si avvia a svolgere un ruolo sempre più importante come gruppo sociale.
Per il momento i movimenti studenteschi contribuiscono in alcuni casi ad inasprire le reazioni della classe operaia contro coloro che non osservano le “regole del gioco” sopra citate, nonché a diffondere maggiormente le parole d’ordine che mobilitano le masse.

Varsavia, aprile 1970




Note:
[1]           Eduard Bernstein, Die Voraussetzungen des Sozialismus un die Aufgaben der Sozialdemokratie, Stuttgart 1899.
[2]           Rudolf Hilferding, Das Finanzkapital, Wien 1910, pag. 372.
[3]           Ibidem, pag. 372.
[4]           Ludwik Krzywicki, Idea a zycie - (raccolta di pubblicistica degli anni 1883-1892), Warszawa 1957.
[5]           Rosa Luxemburg, Die Akkumulation des Kapitals, Berlin 1913.
[6]           Rosa Luxemburg sviluppava questa tesi anche nell’opuscolo polemico contro E. Bernstein (Sozialreform oder Revolution, 1900).
[7]           Il capitolo 32 del libro Die Akkumulation des Kapitals porta il titolo “Il militarismo quale sfera di accumulazione del capitale”.
[8]           Michał Kalecki, “Political Aspects of Full Employment”, Political Quarterly, 1943. [Tradotto qui: http://gondrano.blogspot.it/2012/09/aspetti-politici-del-pieno-impiego.html ]
[9]           Michał Kalecki, “Observations on Social Aspects of “Intermediate Regimes””, Co-Existence, 1967.
[10]        Karol Kautsky, “Der Imperialismus”, Die Neue Zeit, 1914.



[FINE]


* Ho aggiunto dei titoli ai diversi paragrafi, indicati tra parentesi quadrate.


domenica 9 settembre 2012

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Aspetti politici del pieno impiego




Michał Kalecki

Political Aspects of Full Employment

Political Quartely, 14, pp. 322-331.
Pubblicazione disponibile qui.


Aspetti politici del pieno impiego

[ Traduzione di Giorgio Di Maio * ]



I
[La dottrina economica del pieno impiego]
I.1
Una solida maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono essere importate dall’estero.
Se il Governo garantisce investimenti pubblici (ad esempio costruisce scuole, ospedali e autostrade) o sostiene con sussidi il consumo di massa (con gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o con sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità) e se, in più, queste spese sono finanziate con un maggiore indebitamento e non con la tassazione (che potrebbe avere un effetto negativo sugli investimenti e sui consumi privati) allora la domanda effettiva per beni e servizi può essere incrementata fino al punto che corrisponde al raggiungimento del pieno impiego.

Si noti che questa spesa del Governo incrementa l’occupazione non solo direttamente ma anche indirettamente, dal momento che i redditi più elevati che essa genera provocano a loro volta incrementi secondari della domanda di beni di consumo e di investimento.

I.2
Ci si potrebbe chiedere dove il pubblico prenderà il denaro da prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi.
Per comprendere questo processo la cosa migliore, penso, è immaginare per un momento che il Governo paghi i suoi fornitori con titoli di Stato.
I fornitori, in generale, non tratterranno questi titoli ma li metteranno in circolazione acquistando altri beni o servizi, e la circolazione dei titoli di Stato continuerà finché alla fine essi giungeranno a persone che li tratterranno in quanto attività che generano un reddito sotto forma di interesse.
In ogni periodo l’incremento totale dei titoli di Stato posseduti (temporaneamente o stabilmente) dalle persone e dalle imprese sarà pari ai beni e ai servizi venduti al Governo.
Così quello che l’economia presta al Governo sono i beni e i servizi la cui produzione è “finanziata” dai titoli di Stato.
Nella realtà il Governo non paga i suoi acquisti con titoli di Stato ma con denaro, ma nello stesso tempo emette titoli e così raccoglie denaro; e questo è equivalente al processo immaginario descritto prima.

Che cosa succede, tuttavia, se il pubblico non vuole assorbire tutto l’incremento dei titoli di Stato? Il pubblico alla fine offrirà i titoli di Stato alle banche per avere in cambio del denaro (in contanti o sotto forma di depositi). Se le banche accetteranno queste offerte, il tasso di interesse non varierà, altrimenti il prezzo dei titoli di Stato diminuirà, il che significa che ci sarà un incremento del tasso di interesse, e questo incoraggerà il pubblico a detenere più titoli di Stato in rapporto ai depositi.
Ne segue che il tasso di interesse dipende dalla politica delle banche, e in particolare dalla politica della Banca Centrale.
Se questa politica mira a mantenere il tasso di interesse a un certo livello questo obiettivo può facilmente essere raggiunto, qualunque sia l’ampiezza del nuovo indebitamento del Governo.
Questa era ed è la situazione nell’attuale guerra. Nonostante l’astronomico deficit di bilancio, il tasso di interesse non ha mostrato alcun aumento sin dall’inizio del 1940.

I.3
Si può obiettare che la spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento causerà inflazione. A questo si può replicare che la domanda effettiva creata dal Governo agisce come ogni altro incremento della domanda. Se la forza lavoro, gli impianti e le materie prime di provenienza estera sono disponibili in eccesso, l’incremento della domanda è soddisfatto da un incremento della produzione.
Ma se il punto di pieno impiego delle risorse è raggiunto e la domanda effettiva continua a crescere, allora i prezzi si alzeranno per equilibrare la domanda e l’offerta di beni e servizi.
(In una condizione di sovraimpiego delle risorse come quella della quale siamo testimoni nell’attuale economia di guerra, un rialzo dei prezzi che generi inflazione è stato evitato solo fin tanto che il razionamento e la imposizione fiscale diretta sono riusciti a far diminuire la domanda effettiva per i beni di consumo).
Ne segue che se l’intervento del Governo mira a raggiungere il pieno impiego ma si ferma prima che la domanda effettiva aumenti oltre il segno corrispondente al pieno impiego, allora non c’è alcuna necessità di preoccuparsi dell’inflazione 1.


II
[Problemi politici del pieno impiego]
II.1
Quello che ho scritto sopra è un riassunto molto rozzo e incompleto della dottrina economica del pieno impiego. Ma, penso, è sufficiente per dare al lettore un’idea dell’essenza della dottrina e per consentirgli così di seguire la discussione che seguirà dei problemi politici che comporta il raggiungimento del pieno impiego.

Bisogna innanzitutto affermare che sebbene la massima parte degli economisti concordi oggi sul fatto che il pieno impiego possa essere ottenuto con la spesa del Governo, questo non avveniva affatto fino a solo poco tempo fa.
Tra gli oppositori a questa dottrina c’erano (e ci sono ancora) stimati cosiddetti “esperti di economia” strettamente legati ai settori bancario ed industriale.
Questo suggerisce che ci sia uno sfondo politico nella opposizione alla dottrina del pieno impiego anche se gli argomenti avanzati sono di tipo economico. 
Il che però non vuole dire che le persone che avanzano queste obiezioni di carattere economico, per quanto povere possano essere, non credano in esse.
Ma una ignoranza ostinata è generalmente una manifestazione di sottostanti motivazioni politiche.

Ci sono, comunque, anche indicazioni più dirette del fatto che in gioco ci sia una questione politica di prima grandezza.
Nella grande depressione degli anni Trenta, le grandi imprese [big business] si opposero nello stesso modo a esperimenti diretti ad incrementare l’occupazione con la spesa del Governo in tutti i paesi, tranne che nella Germania nazista.
Questo si vide chiaramente negli Stati Uniti (opposizione al New Deal), in Francia (l’esperimento di Blum) e anche in Germania prima di Hitler.
Questo atteggiamento non è facile da spiegare.
Chiaramente una produzione e una occupazione più elevate generano benefici  non solo per i lavoratori ma anche per gli imprenditori, perché i loro profitti aumentano. E la politica di pieno impiego delineata sopra non usurpa i profitti perché non comporta alcuna tassazione aggiuntiva.
Gli imprenditori durante una crisi economica non vedono l’ora di un nuovo boom; perché non dovrebbero accettare con gioia quella ripresa economica “artificiale” che il Governo è in grado di offrire loro?
E’ una questione difficile e affascinante che intendo affrontare in questo articolo.
Le ragioni della opposizione dei “leader dell’industria” al pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo possono essere suddivise in tre categorie:
i)         L’avversione contro l’interferenza, in quanto tale, del Governo nel problema dell’occupazione;
ii)       L’avversione contro la destinazione della spesa del Governo (investimenti pubblici e sussidi ai consumi);
iii)   L’avversione contro i mutamenti sociali e politici provocati dal mantenimento del pieno impiego.
Esamineremo nel dettaglio ciascuna di queste tre categorie di obiezioni contro una politica espansiva condotta dal Governo.

II.2
Affronteremo innanzitutto la riluttanza dei “capitani d’industria” ad accettare l’intervento del Governo nel campo dell’occupazione.
Ogni ampliamento dell’attività dello Stato è vista dal “mondo degli affari” [business] con sospetto, ma la creazione di posti di lavoro con la spesa pubblica presenta un aspetto speciale che rende l’opposizione contro di essa particolarmente intensa.
In un sistema di laisser-faire il livello dell’occupazione dipende grandemente dal cosiddetto stato della fiducia [state of confidence].
Se questo si deteriora, gli investimenti privati diminuiscono, e questo provoca una caduta sia della produzione che dell’occupazione (sia direttamente che attraverso l’effetto secondario della caduta dei redditi sui consumi e sugli investimenti)
Questo dà ai capitalisti un potente controllo indiretto sulla politica del Governo: tutto quello che può scuotere lo stato della fiducia deve essere attentamente evitato perché causerebbe una crisi economica.
Ma una volta che il Governo apprende il trucco di incrementare l’occupazione con i suoi stessi acquisti, questo potente strumento di controllo perde la sua efficacia.
Quindi i deficit di bilancio necessari per portare a termine l’intervento del Governo devono essere considerati pericolosi.
La funzione sociale della dottrina di una “finanza solida” [sound finance] è quella di rendere il livello dell’occupazione dipendente dallo “stato della fiducia”.

II.3
L’avversione degli uomini d’affari [business leaders] contro una politica di spesa del Governo diventa ancora più acuta quando giungono a considerare gli obiettivi per i quali il denaro dovrebbe essere speso: investimenti pubblici e sostegno al consumo di massa.
I principi economici dell’intervento del Governo richiedono che gli investimenti pubblici siano confinati a oggetti che non competono con i mezzi di produzione delle imprese private (ad esempio ospedali, scuole, autostrade, etc.).
Altrimenti la profittabilità degli investimenti privati potrebbe essere diminuita e l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione controbilanciato dall’effetto negativo del declino degli investimenti privati.
Questa concezione si adatta molto bene alle richieste degli uomini d’affari.
Ma l’ambito degli investimenti pubblici di questo tipo è piuttosto ristretto, e c’è il pericolo che il Governo, nel perseguire questa politica, possa alla fine essere tentato di nazionalizzare i trasporti o i servizi idrici ed elettrici [public utilities] così da acquisire una nuova sfera di intervento nella quale poter investire. 2

Ci si potrebbe quindi aspettare che gli uomini d’affari e i loro esperti preferiscano un sostegno dei consumi di massa  (per mezzo di assegni familiari, sussidi per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, etc.) agli investimenti pubblici; dal momento che sussidiando i consumi il Governo non si imbarcherebbe in nessun tipo di “impresa”.
In pratica, tuttavia, questo non accade.
Al contrario, sussidi ai consumi di massa sono avversati molto più violentemente da questi “esperti” che non gli investimenti pubblici.
Perché qui è in gioco un principio “morale” della massima importanza.
I principi fondamentali dell’etica capitalista richiedono che “tu ti guadagnerai il tuo pane con il sudore” -  a meno che non capiti che tu sia ricco.

II.4
Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata -  come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse - il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari.
Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure].
La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero.
Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dei profitti, dagli uomini d’affari.
Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista.


III
[Fascismo e pieno impiego]
III.1
Una delle importanti funzioni del fascismo, come caratterizzato dal sistema nazista, è stata quella di rimuovere le obiezioni dei capitalisti al pieno impiego.

L’avversione contro la spesa del Governo in quanto tale è superata sotto il fascismo dal fatto che la macchina dello Stato è sotto il controllo diretto di una stretta alleanza tra le grandi imprese e i gerarchi fascisti.
La necessità del mito di una “finanza solida”, che serviva ad impedire al Governo di provocare una crisi di fiducia con la sua spesa, viene meno.
In una democrazia non si sa come sarà il prossimo Governo. Sotto il fascismo non c’è un prossimo Governo..

L’avversione contro la spesa del Governo, sia per investimenti pubblici che per sostenere i consumi, è superata dal concentrare la spesa del Governo sugli armamenti.
Infine, la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” in una condizione di pieno impiego sono mantenute dal “nuovo ordine”,  che spazia dalla soppressione dei sindacati ai campi di concentramento.
La pressione politica sostituisce la pressione economica della disoccupazione.

III.2
Il fatto che gli armamenti costituiscano la spina dorsale della politica di pieno impiego fascista ha una profonda influenza sulle sue caratteristiche economiche.
Una politica di riarmo su grande scala è inseparabile dall’espansione delle forze armate e dalla predisposizione dei piani per una guerra di conquista. Essa inoltre induce una politica di riarmo competitiva da parte degli altri paesi.
Questo fa sì che l’obiettivo principale della spesa si sposti gradualmente dal pieno impiego al raggiungimento della massima efficacia del riarmo. Di conseguenza l’occupazione diviene “troppo piena”; non solo la disoccupazione è abolita ma prevale un’acuta scarsità di forza lavoro.
Colli di bottiglia si manifestano dappertutto e devono essere affrontati con l’istituzione di tutto un insieme di strumenti di controllo.
Un’economia di questo tipo ha molte delle caratteristiche di una “economia pianificata”, ed è talvolta paragonata, dimostrando una certa ignoranza, al socialismo.
Comunque è necessario che questo tipo di “pianificazione” appaia ogni volta che un’economia si pone un certo elevato obiettivo produttivo in un determinato settore, quando diventa una “economia con un obiettivo” [target economy] della quale la “economia per l’armamento” [armament economy] è un caso particolare.
Una “economia per l’armamento” comporta in particolare la riduzione dei consumi, se confrontati con quelli che si potrebbero avere in una condizione di pieno impiego.

Il sistema fascista inizia con il superamento della disoccupazione, si sviluppa in una “economia per l’armamento” della scarsità, e termina inevitabilmente nella guerra.


IV
[Democrazia capitalista e pieno impiego]
IV.1
Quale sarà il risultato pratico dell’opposizione al “pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo” in una democrazia capitalista?
Proveremo a rispondere a questa domanda sulla base delle ragioni di questa opposizione esposte nella sezione II.
Abbiamo argomentato che ci possiamo aspettare l’opposizione dei “leader dell’industria” su tre piani:
i)         L’opposizione di principio contro la spesa del Governo basata sul deficit di bilancio;
ii)       L’opposizione contro il fatto che questa spesa sia diretta o verso gli investimenti pubblici - che potrebbero prefigurare l’intrusione dello Stato in nuovi campi dell’attività economica - o verso il sostegno ai consumi di massa;
iii)    L’opposizione contro il mantenimento della piena occupazione e non contro una semplice azione diretta a prevenire il verificarsi di depressioni economiche profonde e prolungate.

Ora, deve essere riconosciuto il fatto che il tempo in cui gli “uomini d’affari” potevano opporsi a qualsiasi tipo di intervento del Governo diretto ad alleviare una crisi economica è ormai passato.
Tre fattori hanno contribuito a questo:
a)     Proprio il pieno impiego durante questa guerra;
b)     Lo sviluppo della dottrina economica del pieno impiego;
c)    In parte come risultato dei precedenti due fattori, il fatto che lo slogan “mai più disoccupazione” ["Unemployment never again"] è oggi profondamente radicato nella coscienza delle masse.
Questa condizione si è riflessa nelle dichiarazioni recenti dei “capitani d’industria” e dei loro esperti.
La necessità che “qualcosa deve essere fatto nella crisi” è condivisa; ma la battaglia continua, in primo luogo, su “cosa deve essere fatto nella crisi” (ad esempio su quale deve essere la direzione dell’intervento del Governo), e in secondo luogo, sul fatto che “deve essere fatto solo nella crisi” (ad esempio semplicemente per alleviare la crisi piuttosto che non per assicurare un permanente pieno impiego).

IV.2
Nelle discussioni correnti di questi problemi emerge continuamente l’idea di contrastare le fasi di recessione economica stimolando gli investimenti privati.
Questo può essere fatto diminuendo il tasso di interesse, riducendo le imposte sui redditi, o sussidiando direttamente gli investimenti privati in un modo o nell’altro.
Che questa idea debba essere attraente per il “mondo degli affari” non è sorprendente. L’imprenditore rimane il mezzo attraverso il quale l’intervento è condotto. Se egli non prova fiducia per la situazione politica non potrà essere comprato affinché investa. E l’intervento non comporta né che il Governo “giochi” con gli investimenti (pubblici) né che “sprechi denaro” sussidiando i consumi.

Si può mostrare, tuttavia, che lo stimolo degli investimenti privati non fornisce un metodo adeguato per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ci sono due alternative da considerare qui:
(a)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi (o entrambi) vengono ridotti nettamente nella crisi e incrementati nel boom.
In questo caso sia il periodo che l’ampiezza del ciclo economico saranno ridotti, ma l’occupazione può essere lontana dal pieno impiego non solo nelle fasi di recessione ma anche in quelle di espansione economica, ad esempio il tasso di disoccupazione medio può essere considerevole, anche se le sue fluttuazioni saranno meno marcate;
(b)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi vengono ridotti in una crisi ma non vengono incrementati nella successiva fase di espansione economica.
In questo caso la fase espansiva dell’economia durerà più a lungo ma deve terminare in una nuova crisi: una diminuzione del tasso di interesse o dell’imposta sui redditi non eliminano di certo le forze che causano fluttuazioni cicliche in una economia capitalista.
Nella nuova fase recessiva sarà necessario ridurre di nuovo o il tasso di interesse o le imposte sui redditi, e cosi via.
Così, in un futuro non troppo remoto, il tasso di interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui redditi dovrebbe essere sostituita con sussidi ai redditi.
Lo stesso risultato si otterrebbe se si tentasse di mantenere il pieno impiego stimolando gli investimenti privati: il tasso di interesse e le imposte sui redditi dovrebbero essere ridotte continuamente.

In aggiunta rispetto a questa debolezza fondamentale del combattere la disoccupazione stimolando gli investimenti privati, c’è una difficoltà pratica.
La reazione degli imprenditori alle misure descritte sopra è incerta.
Se la recessione è accentuata gli imprenditori possono assumere una visione estremamente pessimistica del futuro, e la riduzione del tasso di interesse o delle imposte sui redditi può avere perciò per un lungo periodo di tempo un effetto piccolo o nullo sugli investimenti, e così sul livello della produzione e dell’occupazione.

IV.3
Anche coloro che sono a favore di uno stimolo degli investimenti privati per contrastare una fase di recessione economica spesso non fanno affidamento esclusivamente su di esso ma immaginano che debba essere associato ad investimenti pubblici.
Al momento sembra che i “leader dell’economia” e i loro esperti (o almeno parte di essi) tendenzialmente accetterebbero come estremo rimedio investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento, come strumento per alleviare le fasi di recessione economica.
Essi appaiono comunque ancora fortemente contrari alla creazione di occupazione con sussidi ai consumi, e al mantenimento della piena occupazione.

Questo stato delle cose è forse sintomatico del regime economico futuro delle democrazie capitaliste.
Nelle fasi di recessione economica, o sotto la pressione delle masse o anche senza di essa, investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento saranno decisi per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ma è probabile che eventuali tentativi di applicare questo metodo, compiuti per mantenere l’alto livello di occupazione raggiunto nella fase successiva di espansione economica, incontrerebbero una forte opposizione da parte dei “leader dell’economia”.
Come ho già detto, un durevole pieno impiego non è affatto di loro gradimento.
I lavoratori “sfuggirebbero di mano” e i “capitani d’industria” sarebbero ansiosi di “dargli una lezione”.
Inoltre, l’incremento dei prezzi in una fase di espansione economica avviene a svantaggio dei piccoli e grandi rentier e li rende “stanchi del boom economico”.
In questa situazione è probabile che si formi un potente blocco sociale tra gli interessi delle grandi imprese e quelli dei rentier, e che essi troverebbero più di un economista disposto a dichiarare che la situazione sia manifestamente non sostenibile.
La pressione di tutte queste forze, e in particolare delle grandi imprese [big business] - di norma influenti nei ministeri -  quasi sicuramente indurrebbe il Governo a ritornare alla politica ortodossa di riduzione del deficit di bilancio.
Seguirebbe quindi una recessione economica nella quale la politica di spesa del Governo tornerebbe in auge.
Questo tipo di ciclo economico-politico [political business cycle] non è solo una congettura; qualcosa di molto simile è accaduto negli Stati Uniti nel biennio 1937-1938 .
La fine della fase economica espansiva nella seconda metà del 1937 fu davvero dovuta alla drastica riduzione del deficit di bilancio. D’altra parte, nella fase acuta di recessione economica che seguì, il Governo prontamente ritornò a una politica di spesa.

Il regime del “ciclo economico-politico” sarebbe una restaurazione artificiale della condizione esistente nel capitalismo dell’Ottocento.
Il pieno impiego sarebbe raggiunto solo all’acme della fase economica espansiva, ma le fasi di contrazione economica sarebbero relativamente moderate e di breve durata.


V
[Compiti dei progressisti]
V.1
Un progressista dovrebbe essere soddisfatto di un regime del “ciclo economico-politico” come quello descritto nella sezione precedente?
Penso che dovrebbe opporsi per due motivi:
i)          Perché non assicura un durevole pieno impiego;
ii)     Perché l’intervento del Governo è limitato agli investimenti pubblici e non si estende al sostegno ai consumi.
Quello che le masse oggi domandano non è la mitigazione delle fasi di recessione economica ma la loro totale abolizione.
Né il più pieno impiego delle risorse risultante dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici non desiderati solo per fornire lavoro.
Il programma di spesa del Governo dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici solo nella misura in cui questi investimenti sono realmente necessari.
Il resto della spesa del Governo necessaria per mantenere il pieno impiego dovrebbe essere diretta a sostenere i consumi (attraverso gli assegni familiari, le pensioni di vecchiaia, la riduzione delle imposte indirette, i sussidi per ridurre i prezzi dei beni di prima necessità).
Gli oppositori a questo tipo di spesa del Governo dicono che il Governo non avrà allora nulla da mostrargli in cambio dei loro soldi. La risposta a questa obiezione è che la contropartita di questa spesa sarà un più elevato livello di vita delle masse.
Non è questo il fine di tutta l’attività economica?

V.2
Il “capitalismo del pieno impiego” [full employment capitalism] dovrà, naturalmente, sviluppare nuove istituzioni sociali e politiche che rifletteranno l’accresciuto potere della classe operaia.
Se il capitalismo riuscirà ad adattarsi al pieno impiego allora in esso sarà stata incorporata una riforma radicale.
Altrimenti, si sarà dimostrato un sistema obsoleto che deve essere abbandonato.

Ma forse la battaglia per il pieno impiego condurrà al fascismo?
Forse il capitalismo si adeguerà al pieno impiego in questo modo?
Questo sembra estremamente improbabile.
Il fascismo è sorto in Germania in una condizione di tremenda disoccupazione e si è mantenuto al potere assicurando quel pieno impiego che il capitalismo non era riuscito a garantire.
La battaglia delle forze progressiste per il pieno impiego è nello stesso tempo un modo per prevenire la rinascita del fascismo.


__________


Note:

Questo articolo corrisponde approssimativamente a una conferenza tenuta presso la Marshall Society a Cambridge nella primavera del 1942.

1 Un altro problema, di natura un po’ più tecnica, è quello del debito pubblico. Se il pieno impiego è mantenuto dalla spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento, il debito pubblico crescerà continuamente. Questo comunque non comporta alcun problema per la produzione e l’occupazione, se gli interessi sul debito sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.
Il reddito corrente, dopo il pagamento dell’imposta patrimoniale, sarà minore per alcuni capitalisti e maggiore per altri rispetto a quello che sarebbe stato se il debito pubblico non fosse stato incrementato, ma il loro reddito complessivo rimarrà uguale e il loro consumo aggregato probabilmente non varierà significativamente.
Inoltre, l’incentivo ad investire in capitale fisso non è modificato da una imposta patrimoniale perché essa è applicata ad ogni tipo di ricchezza. Sia che un capitale sia detenuto in contanti o in titoli di Stato o investito nella costruzione di una fabbrica, su di esso si applica la stessa imposta patrimoniale e così il vantaggio comparato di un’alternativa rispetto all’altra rimane immutato.
E gli investimenti finanziati con debiti non sono chiaramente colpiti da un’imposta patrimoniale perché non costituiscono un incremento della ricchezza dell’imprenditore che ha investito.
Così né i consumi né gli investimenti dei capitalisti sono influenzati da un incremento del debito pubblico, se gli interessi su di esso sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.

2 Si deve notare qui che gli investimenti in un settore nazionalizzato possono contribuire alla soluzione del problema della disoccupazione solo se sono affrontati con principi differenti da quelli adottati dalle imprese private.
Il Governo deve accontentarsi di un tasso di rendimento netto inferiore a quello delle imprese private, o deve deliberatamente pianificare i suoi investimenti in modo tale da realizzarli al momento giusto per mitigare gli effetti delle crisi economiche.


[FINE]


* Ho aggiunto delle intestazioni alle cinque sezioni dell'articolo. Il testo in corsivo grassetto evidenzia l'enfasi posta dall'Autore su alcune parole.